IL SOGNO E IL SEGNO DELLA LUCE Il linguaggio irriducibile di Mark Tobey

 

Dal 6 maggio al 10 settembre 2017, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia ospita la mostra Mark Tobey. Luce filante, a cura di Debra Bricker Balken. La rassegna, organizzata dalla Addison Gallery of American Art della Phillips Academy di Andover (dove la mostra sarà riproposta dal 4 novembre 2017 all’11 marzo 2018), celebra l’evoluzione stilistica del pittore statunitense Mark Tobey (Centerville, 1890 – Basilea, 1976), esponendo 66 dei suoi dipinti più importanti, realizzati fra gli anni ’20 e gli anni ’70.

Originario del Wisconsin, Tobey avvia la propria carriera artistica tra Chicago e New York, lavorando come illustratore di moda. Trasferitosi a Seattle (1922), incomincia a dipingere, ispirandosi soprattutto all’arte modernista, che aveva ammirato soggiornando in Europa. Intorno alla metà degli anni ’20, a Seattle, Tobey incontra l’artista cinese, allora studente presso l’Università di Washington, Teng Gui (1900-1980), che lo introduce all’arte calligrafica e lo incoraggia ad intraprendere un viaggio in Cina e in Giappone (1934). Affascinato dal potere demiurgico attribuito al tratto di pennello dalla tradizione pittorica orientale, Tobey inizia a includere nelle proprie opere i primi segni calligrafici e astratti, mantenendo contatti, seppur minimi, con la figuratività di stampo occidentale. Dalla rappresentazione tridimensionale dello spazio, l’artista passa a concentrarsi sul proprio percorso interiore, guidato dalla fede (si era infatti convertito alla religione Bahá’í) non meno che trascinato dalla folla, dalle luci e dai palazzi di New York. Da tale incontro fra spirito e materia avrebbe avuto origine la “scrittura bianca”, un fitto intersecarsi di segni e linee, che costituirà il suo tratto distintivo, a partire dalla prima mostra personale (Willard Gallery, New York, 1944). Nei primi anni ’50, Tobey partecipa a numerose importanti rassegne internazionali dell’Espressionismo astratto. Nel 1954, si trasferisce a Parigi, dove resta per un anno e viene riconosciuto come un antesignano del Tachisme o dell’Informale. Nel 1955, la lettura di due libri, Lo Zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel e Lo Zen e la cultura giapponese di Daisetz Teitaro Suzuki, fortifica il suo interesse per il pensiero e l’arte giapponese. Decide allora di dedicarsi allo studio della filosofia zen, sotto la guida del maestro Takizaki, e della tecnica sumi a spruzzo d’inchiostro, con il supporto degli artisti Paul Horiuchi e George Tsutakawa, che lega a una profonda riflessione sugli effetti dell’era nucleare e sul proprio linguaggio astratto. Realizza così una serie di dipinti sumi, concepita come un tramite fra le due realtà culturali. Contrario all’enfasi estetica della pittura americana contemporanea, Tobey rifiuta i grandi formati fino al 1958, quando partecipa alla Biennale di Venezia (vincendo il “Premio della città di Venezia per la Pittura”). È, infatti, a partire da questo momento che le dimensioni delle sue opere “crescono” e, con esse, anche il loro slancio trascendentale. Dopo una lunga permanenza a Parigi, nel 1960, si stabilisce definitivamente a Basilea, dove apre uno studio. Nel decennio ’60, diverse retrospettive organizzate in tutto il mondo, tra cui quella al Musée des Arts Décoratifs di Parigi (1961) e quella al Museum of Modern Art di New York (1962) confermano il successo e la forza del suo lavoro, che inizia ad affievolirsi, nei primi anni ’70, a causa della demenza senile.

L’attuale mostra veneziana è la più completa retrospettiva dedicata in Europa a Tobey negli ultimi vent’anni e la prima in assoluto in Italia. Essa evidenzia il carattere transculturale dell’esperienza artistica di Tobey, svincolandola dalle diverse tendenze astrattiste sorte, quasi contemporaneamente, in America, ma anche senza complessi di inferiorità rispetto alle Avanguardie storiche. Come chiarisce la curatrice della rassegna, «Tobey è stato in grado di evitare uno specifico debito col Cubismo, a differenza dei suoi compagni modernisti, fondendo elementi legati a linguaggi formali in composizioni che sono sorprendentemente radicali e al tempo stesso meravigliose» e il cui complesso contenuto spirituale riflette, piuttosto che un dato contesto culturale, un livello superiore di autocoscienza.

 

Mark Tobey. Luce filante

(6 maggio – 10 settembre 2017)

Collezione Peggy Guggenheim

Dorsoduro 701-704, Venezia

Tutti i giorni 10.00 – 18.00

Martedì chiuso

www.guggenheim-venice.it

Giada Sbriccoli

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