Etichette, la bellezza che completa un ‘opera d’arte

Nell’immaginario collettivo, quando si pensa ad un’opera d’arte, viene subito alla mente un quadro di un grande pittore o la magnifica realizzazione di un eccelso scultore. In realtà le opere d’arte possono assumere diverse sembianze e si può assegnare questo epiteto all’interno di molteplici settori. Un Paese come l’Italia che vive di una fama sconfinata e legata, tra le tante cose, anche alle grandi realizzazioni scultoree, pittoriche ed architettoniche che riempiono libri di scuola di tutto il mondo, può certamente annoverare tra le sue impareggiabili realizzazioni anche quella della produzione del Vino che, in molti casi, raggiunge livelli qualitativi altissimi fino a farlo considerare un vero e proprio capolavoro: la maestria di saper trasformare ciò che la natura ci mette a disposizione in un’eccellenza senza tempo, proprio come un grande dipinto o un grande affresco. Proprio come un’opera d’arte. E così come nelle opere d’arte, la valenza è spesso legata soprattutto alla bellezza estetica di una realizzazione, nel Vino la valenza assume un doppio significato: quello qualitativo del prodotto e quello estetico della bottiglia. Moltissimi produttori, infatti, nel corso degli anni hanno iniziato a capire che se si unisce un’estetica alla qualità, si può raggiungere un completamento che integra perfettamente il piacere del palato e dei sensi, con l’appagamento per gli occhi. E chi spende per acquistare una bottiglia di vino (ricordiamo che esiste anche un grosso mercato di collezionisti che quel vino non lo berranno mai ma lo esporranno gelosamente per tutta la vita), in fondo cerca entrambe le situazioni e quando le trova, la soddisfazione porta al riacquisto e si vince da entrambe le parti (acquirente e venditore). Probabilmente la prima etichetta, o meglio, quella che potrebbe essere considerata l’etichetta ante litteram, è stata ideata dagli antichi Egizi che l’apponevano sulle anfore contenenti vino dopo la loro sigillatura con fango e argilla. Le anfore erano rastremate alla base e sulla chiusura venivano iscritti i dati relativi al contenuto, l’anno di produzione, la provenienza e il nome del produttore. Inoltre, su alcune anfore ritrovate si può leggere “vino rosso delle migliori uve”. Sul finire del Settecento, l’etichetta subì una radicale trasformazione in seguito all’invenzione della litografia da parte del cecoslovacco Alois Senefelder. Il sistema diede la possibilità di stampare, tra l’altro, anche discrete quantità di etichette da vino. Il processo consisteva nel disegnare un bozzetto da riprodurre su una pietra e far passare sopra quest’ultima il rullo inchiostrato: si potevano in questo modo ottenere diverse copie della medesima etichetta. Tuttavia, l’inventore dell’etichetta come oggi noi l’intendiamo, sembra sia lo svizzero Henri-Marc, proprietario della Maison De Venoge, che nel 1840 propose le proprie bottiglie di Champagne con etichette illustrate sul tipo di quelle odierne. Lo sviluppo dell’industria del vetro per bottiglie e l’estendersi delle vie di comunicazione, consentirono lo spostamento commerciale di un numero crescente di bottiglie da vino il che fece diventare sempre più indispensabile l’impiego dell’etichetta anche a maggior garanzia del cliente. Le prime etichette erano infatti quasi sempre generiche, stampate su rettangoli di carta bianca e riportavano soltanto la tipologia del vino. Ora invece si rendeva necessario indicare anche il nome del produttore o dell’imbottigliatore quando non l’anno di produzione, scritti sovente a mano su etichette base sempre uguali. Per quanto riguarda l’Italia, i primi utilizzatori di etichette furono i produttori piemontesi, fornitori di Casa Reale, ed i produttori siciliani. Nell’archivio storico di Santa Vittoria d’Alba, ad esempio, sono conservate ancora oggi alcune bottiglie di Vermouth “modernamente etichettate” della Cinzano e risalenti alla fine del 1700 ed agli inizi del 1800. Le etichette italiane dei XIX secolo, non esaltano in genere la qualità o l’unicità del vino, ma concedono ampio spazio alla fantasia e traggono spunto dalla vita contadina o dall’araldica, riproducendo stemmi o medaglie appartenenti alla famiglie produttrici: con il passare degli anni però, l’esigenza dei produttori d’identificazione dei propri prodotti, va sempre più aumentando ed ognuno cerca, soprattutto nel campo dei vini liquorosi e fortificati, di realizzare etichette che mettano in bella mostra menzioni d’onore, medaglie, trofei e targhe guadagnate nel corso di esposizioni e fiere. Ovviamente i criteri di confezione delle etichette si differenziano nettamente a seconda che si producano vini di qualità, liquori, vermouth o vini da pasto. Ne è prestigioso esempio quello della Romanèe Conti, inarrivabile brand di Borgogna, in cui viene ribadita la regola secondo cui tanto più il vino è pregiato, tanto più la sua etichetta deve essere essenziale: un quadrato bianco su cui in nero è riportata, oltre alla semplice indicazione del vino, la firma autografata del gerente la società. All’inizio del secolo scorso invece, cominciano ad apparire le etichette decorate: i paesaggi, i personaggi pittoreschi o faunistici, ai quali il decoro della Belle Epoque porta la sua ricchezza ornamentale. Questo fino al 1950, anno in cui la legge impone un’etichetta più pedante, didascalica, molto chiacchierata, in cui la letteratura informativa appare sovente prolissa ed indefinibile. A partire dal secolo scorso invece, si afferma un nuovo processo di stampa che consente di presentare un cartellino che consocia i caratteri tipolitografici con il colore: la quadricromia. Qui il cliché sostituisce la pietra. Attraverso 4 o 5 impressioni tipografiche si ottengono impasti di colori che conferiscono all’etichetta una spetto smagliante. Ma le tecniche di stampa evolvono con grande velocità ed oggi esiste una gran varietà di sistemi di realizzazione che utilizzano materiali i più diversi (plastici, in alluminio, tessuti in pvc, etc…) fino ad arrivare ad etichette che sembrano far parte integrante della bottiglia. Se è vero che dalle loro realizzazioni settecentesche ad oggi, tutto o quasi è cambiato, è però rimasta immutata la necessità di far riconoscere la bottiglia attraverso un “segnale” accattivante e didascalico che resta tuttora ineliminabile: l’etichetta. Essa però (l’etichetta), è diventata nel corso del tempo, anche un mezzo per lanciare dei messaggi legati ai valori aziendali o per cercare di rappresentare sotto forma materiale, quello che è il carattere del prodotto stesso trovando un compromesso tra la sua personalità ornamentale e le esigenze didascaliche imposte dalle normative di legge. Del resto, se anche l’occhio vuole la sua parte, l’abito con cui vestire le bottiglie di vino non può essere sottovalutato ed oggi più che mai, è divenuto anche un simbolo di riconoscimento aziendale che consente al consumatore di individuare immediatamente, attraverso la replicazione sempre uguale di alcuni “punti fissi” al di là della fantasia (ad es. il nome dell’azienda ed il suo simbolo oppure un font proposto sempre uguale), qual è la Cantina produttrice. In un Mondo inoltre dove, ahinoi, siamo ancora lontani dalla consapevolezza conoscitiva del Vino e dei suoi criteri d’acquisto (abbinamento, gusto personale etc…), l’estetica della bottiglia diventa anche un criterio di scelta. Come in ogni aspetto della vita, il Bello inevitabilmente (anche inconsciamente) regala positività a situazioni o cose e se, come dicevamo all’inizio di questo approfondimento, il Vino può considerarsi una vera e propria “opera d’arte qualitativa” e come per ogni opera d’arte, non avrà mai un suo eguale tra i produttori (anche a parità di metodo di produzione e di uvaggio….il terroir fa qui la vera differenza), perché rinunciare alla bellezza del suo “vestito” che lo completa donandogli unicità?

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