Il mese di giugno si è aperto all’insegna della ripartenza per Valerio Braschi e il suo “Ristorante 1978”: il ristorante romano di Via Zara, nato nel 2018 e di cui il 23enne è chef e co – proprietario dal novembre 2019, è infatti tornato lo scorso 2 giugno, dopo le chiusure dovute alle restrizioni causate dall’emergenza pandemica, ad offrire agli ospiti i propri 16 coperti e le circa 180 etichette di vini, tra rossi, rosati e bollicine, di cui dispone. A fare da volano alla riapertura ha senza dubbio contribuito il riconoscimento ottenuto dallo stesso Braschi appena due giorni prima del nuovo inizio, quando, il 31 maggio, l’edizione 2021 della Guida “I Ristoranti e i Vini d’Italia 2021” de “L’Espresso”lo ha incoronato “Giovane chef dell’anno”, premiando inoltre il “1978” con “due cappelli”: sulla sua pagina Facebook il giovane chef di Santarcangelo di Romagna ha commentato i due importanti risultati rivendicando soprattutto il fatto che, pure in un «anno clamoroso», lui e la sua squadra non si sono «mai abbattuti», continuando anzi a «spingere sempre di più» per migliorarsi «ogni singolo giorno».
Che per Valerio Braschi questi e altri traguardi fin qui raggiunti sono sempre, come lui stesso ama sottolineare, «un nuovo inizio, mai una fine», è dimostrato anche da come parla dell’esperienza di Masterchef, di cui ha vinto la sesta edizione ad appena 18 anni: riconosce che il programma di Sky, cui giura eterna gratitudine, gli ha dato tanto, ma allo stesso tempo ammette che dopo quell’esperienza ha dovuto studiare molto per entrare a peno titolo nel mondo dell’alta cucina, avendo come maestri principali – ricorda – chef del calibro di Igles Corelli e Daniel Facen.
In ogni caso, oggi, Valerio Braschi è lo chef del “1978” e come tale vuole che di lui si parli: qui si trovano – parole sue – la sua vita e il suo lavoro e qui, nel corso del 2021, ha mostrato tutta la sua voglia di sperimentare, appunto spostando il traguardo sempre un po’ più in là: nel gennaio 2021 ha lanciato la sua “Lasagna in tubetto” con la quale, partendo da un ricordo d’infanzia – quando, ha spiegato lui stesso su Facebook, «da bambino la mattina dopo le feste, appena sveglio, mi lavavo i denti con una bella forchettata di lasagne avanzate in frigo dal giorno prima» – ha creato un tubetto, simile a quello del dentifricio, nel quale è presente una crema di lasagna da mettere su uno spazzolino di pasta all’uovo, con in più del brodo di parmigiano da bere alla fine della degustazione; il 6 aprile 2021, poi, nel giorno in cui si celebrava il Carbonara Day, anche questo altro classico della cucina italiana è stato investito dalla verve sperimentale dello chef romagnolo, che, sempre via social, ha annunciato la volontà di proporre nel suo locale quello che, a giudicare dalla foto che accompagnava il post, sembrava un semplice bicchiere d’acqua, ma che in realtà era un “Distillato di carbonara”, che prometteva di mantenere il «gusto della
carbonara autentica», ma «con le stesse calorie», appunto, «di un semplice bicchiere d’acqua».
Inutile dire che simili rivisitazioni di piatti della tradizione hanno suscitato reazioni contrastanti, dai commenti estasiati alle critiche senza appello, passando per una più misurata curiosità di assaggiare piatti che avevano senza dubbio un che di rivoluzionare. Tali azzardi devono invece essere invece almeno in certa misura piaciuti ai critici de L’Espresso che, come si è visto, hanno insignito Braschi del titolo di migliore giovane chef italiano per il 2021.
Un po’ come per Masterchef, comunque, il 23enne preferisce non lasciare la sua immagine strettamente vincolata a questi unici due piatti, e anzi mostra di puntare molto anche su altre creazioni del “1978”: dal piatto a base di foie gras e rana pescatrice al caviale di aringa affumicato, dal gel di bergamotto all’ “Errore perfetto”, che rappresenta predessert di punta dello chef fin dagli inizi della sua carriera e che consiste in una sfera di cioccolato bianco con all’interno un gelato al pepe sansho sciolto, appunto per ricordare l’ “errore” che si commetteva d’estate da bambini quando, se non si era abbastanza rapidi nel mangiare il proprio gelato, ce lo si ritrovava sciolto tra le mani e con le dita appicicose.