Ursula von der Leyen ce la può fare, a ottenere, la prossima settimana, l’investitura a presidente della Commissione europea dal Parlamento europeo: ha molte frecce al suo arco, è una popolare (ed i popolari sono il gruppo più numeroso, nell’Assemblea di Strasburgo), è una tedesca, è una donna, ha referenze eccellenti. Ma farà fatica a ottenere una investitura a larga maggioranza, che le darebbe grande forza politica: ha molti handicap, è una popolare (ed i popolari sono meno di un quarto dell’Assemblea), è una tedesca e c’è chi crede che sia stata scelta perché è una donna e non perché è brava.
Ex ministro della Difesa (e, prima, della Famiglia e degli Affari sociali), 61 anni, poliglotta, laurea in medicina, madre di sette figli, nata a Bruxelles, madre americana, padre alto funzionario europeo e poi ministro presidente della Bassa Sassonia – Ernst Albrecht -, Ursula von der Leyen, già UdvL nel gergo comunitario, è stata designata dai leader dei 28 il 2 luglio, il giorno del suo compleanno, per succedere a Jean-Claude Juncker il 1° novembre.
Da quel momento, la von der Leyen ha lavorato in vista del voto di mercoledì 17 luglio, passaggio politico chiave e senza appello: UdvL è la prima donna designata presidente della Commissione – prima di lei 13 uomini, due italiani, Franco Maria Malfatti e Romano Prodi – ed è la terza persona ad affrontare l’investitura del Parlamento, introdotta nel 2009 (prima di lei Manuel Barroso e Juncker). Mercoledì 10, la Conferenza dei Presidenti dell’Assemblea, col presidente David Sassoli ed i leader dei gruppi politici, ha incontrato la presidente designata, in vista del dibattito che precederà il voto d’investitura.
Le scelte fatte e i rischi sventati Dei leader delle Istituzioni europee designati il 2 luglio dal Vertice europeo, solo l’ex premier belga Charles Michel, prossimo presidente del Consiglio europeo, è sicuro del fatto suo. Come lo è Sassoli, eletto il 3 luglio presidente del Parlamento europeo. La von der Leyen, Josep Borrell – spagnolo, socialista, Alto Rappresentante in pectore per la politica estera e di sicurezza europea – e Christine Lagarde – francese, ora ‘macroniana’, presidente in pectore della Banca centrale europea – devono passare l’esame dei deputati. E chi rischia di più, nell’esercizio, è la von der Leyen: Borrell è un ex presidente del Parlamento europeo, difficile che l’Assemblea gli neghi la fiducia; e la Lagarde gode di largo credito (ed è da molti percepita come un’ancora di salvezza, rispetto all’ipotesi Jens Weideman, il governatore della Bundesbank).
In un’intervista ad AffarInternazionali.it, la rivista online dell’Istituto Affari Internazionali, l’ex premier Enrico Letta, che sarebbe stato un ottimo presidente del Consiglio europeo, se l’Italia l’avesse sostenuto, dice: “Nelle nuove nomine Ue, il metodo che è stato utilizzato rappresenta sicuramente un passo indietro, perché ha ridato forza al Consiglio europeo e ai governi ed è stato poco trasparente … Ma i rischi che si correvano erano enormi e il risultato, in termini di persone, è tutto sommato positivo”.
Sulla Lagarde, 63 anni, dal 2011 alla guida del Fondo monetario internazionale, Letta si sofferma: “E’ sempre stata attenta a una politica monetaria espansiva, come quella che ha cercato di sostenere Mario Draghi, e ritengo che possa essere un presidente della Bce che asseconderà questa logica. E anche se la sua nomina è stata una sorpresa, è stata molto ben accolta da tanti che temevano Weideman, … che sarebbe stato un disastro completo e avrebbe diviso l’area dell’euro. La Lagarde parte con il vantaggio del pericolo mancato e anche queste cose contano”.
Positivo, sulle nomine, pure il giudizio di Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali e stretta collaboratrice di Federica Mogherini: “Con la von der Leyen e con Borrell, la politica estera europea è in buone mani. Se il pacchetto approvato dal Consiglio europeo dovesse passare l’esame del Parlamento, sarebbe una buona notizia per il ruolo dell’Unione europea nel mondo”. E l’esperienza di UdvL alla Difesa è di buon auspicio per la realizzazione dell’Europa della Difesa.
Il ruolo dell’Italia, tra chances e pericoli Se probabilmente il Parlamento non batterà un colpo mettendo ko la van der Leyen, è possibile, anzi quasi certo, che si faccia valere sulle conferme dei singoli commissari: le commissioni permanenti dell’Assemblea, che si sono costituite questa settimana e hanno eletto i loro presidenti per i prossimi due anni e mezzo, dovranno ‘fare l’esame’ a ogni commissario, ciascuna in funzione del portafoglio loro assegnato.
Il voto d’investitura della von der Leyen e quelli d’approvazione dei singoli commissari presentano dei rischi per l’Italia, già uscita con le ossa politicamente rotte dalle nomine. L’ambasciatore, ed ex commissario europeo, Ferdinando Nelli Feroci osserva: “E’ un pacchetto di nomine all’insegna della continuità, con buona pace di chi (soprattutto in Italia) aveva ingenuamente immaginato che, con le elezioni del 26 maggio, l’Unione europea avrebbe voltato pagina e cambiato rotta”.
Nel pacchetto di nomine, restano a bocca asciutta i Paesi di Visegrad e più in generale tutti i nuovi membri (i Paesi, cioè, entrati nell’Ue dopo il 2004). E restano a bocca asciutta i partiti delle varie e frammentate famiglie nazionaliste e sovraniste, perché il risultato elettorale del 26 maggio, peraltro circoscritto ad alcuni Paesi, li relega a minoranza tutto sommato marginale nelle dinamiche dell’Assemblea di Strasburgo. L’Italia non aveva realisticamente nessuna ‘chance’ di replicare l’exploit della legislatura in fase d’archiviazione, con tre posti apicali, Draghi, la Mogherini e Antonio Tajani, e l’elezioni di Sassoli, avvenuta – diremmo noi – “all’insaputa del governo”, è grasso che cola.
Sul ruolo svolto dall’Italia in questa vicenda, l’ambasciatore Nelli Feroci osserva: “Tutto si è svolto come da copione. Si sono rivelate corrette le previsioni di un’Italia marginalizzata in Europa, come risultato della collocazione europea dei due partiti di governo, con la Lega in un gruppo minoritario di nazionalisti euro-scettici e i Cinque Stelle addirittura costretti a stare nel gruppo misto perché incapaci di trovare alleati nell’emiciclo europeo. E il Governo italiano e la maggioranza che lo sostiene hanno anche dovuto registrare lo scacco di vedere un esponente dell’opposizione eletto alla presidenza del Parlamento”.
Ora per l’Italia si apre la partita del commissario (che spetta di diritto, non è affatto una conquista: uno per ogni Paese Ue). “Bisognerà – osserva Nelli Feroci – che qualcuno si ricordi che, se vogliamo concorrere per un portafoglio ‘pesante’, il candidato italiano dovrà essere competente e professionalmente attrezzato, dovrà avere il gradimento della presidente della Commissione e infine dovrà passare il giudizio del Parlamento che stavolta potrebbe essere più severo che in passato”. E, da quando ne hanno il potere, gli euro-deputati hanno sempre bocciato almeno un commissario: nel 2004, il primo fu proprio un italiano, Rocco Buttiglione, designato vice-presidente e responsabile della Giustizia, ‘caduto’ sulla discriminazione sessuale.
In questo quadro, se le forze di governo italiane, già presenti a Strasburgo in gruppi marginali e che non fanno maggioranza, voteranno contro la von der Leyen, potrebbero poi subirne conseguenze. Una volta insediata, la presidente della Commissione potrebbe non essere ben disposta nei confronti dell’Italia, al momento di discutere con il governo il profilo e l’incarico del commissario italiano. Roma chiede una vice-presidenza – ed è quasi scontato che l’abbia, ma, in termini di potere, non significa nulla – e un “portafoglio pesante” – la concorrenza o l’industria -. Ottenuto il gradimento di UvdL, il commissario italiano dovrà poi sciorinare argomenti convincenti al momento dell’esame del Parlamento.
Il Parlamento al lavoro, la Commissione in fieri La sessione di metà luglio del nuovo Parlamento s’annuncia particolarmente densa: oltre al dibattito con la Van der Leyen e al voto d’investitura, gli euro-deputati valuteranno il lavoro della presidenza di turno uscente del Consiglio dei Ministri dell’Ue, romena, e le priorità della presidenza finlandese, subentrata il 1 ° luglio.
Come primo atto bruxellese della sua presidenza, venerdì 5 luglio, David Sassoli ha voluto rendere simbolicamente omaggio a tutte le vittime del terrorismo in Europa, deponendo una corona di fiori all’ingresso della stazione della metropolitana di Maalbeek, la più vicina ai Palazzi del Parlamento e uno dei luoghi degli attentati del 22 marzo 2016.
Il neo-presidente ha accompagnato il suo gesto con un messaggio di unità e fermezza: “Dobbiamo rendere omaggio ai martiri nella capitale europea, dobbiamo commemorare i cittadini europei che sono stati vittime di questi attacchi. Questo è un tributo a tutte le vittime del terrorismo. Dobbiamo unire tutte le nostre forze nella lotta contro il terrorismo e rimanere determinati in questa lotta”.
Se per Sassoli la vita da presidente è già iniziata, per la von der Leyen comincerà dopo il voto d’investitura. Ma l’ex ministro della Difesa tedesco ha già avuto ‘assaggi’ del giro delle capitali che l’attende nelle prossime settimane, per negoziare la composizione della sua Commissione, che dovrà tenere conto di equilibri politici, geografici e di genere. Un mosaico di tessere la cui riuscita è essenziale per l’efficacia dell’Esecutivo comunitario nei prossimi cinque anni e la cui composizione darà pure indicazioni sulle priorità programmatiche.
Se non sono giornalisti, non diventano presidente
L’Italia ha atteso 37 anni e mezzo, dal luglio del 1979 al gennaio del 2017, prima di avere un presidente del Parlamento europeo eletto a suffragio universale. Piccola consolazione, l’ultimo presidente del Parlamento europeo formato da delegazioni dei Parlamenti nazionali era stato – dal 1977 al ’79 – un italiano, Emilio Colombo, un democristiano che era già stato ministro di dicasteri economici e poi presidente del Consiglio e che sarebbe ancora stato ministro degli Esteri (quando morì, nel 2013, era rimasto l’ultimo dei Padri costituenti).
Dopo il lungo digiuno, ora facciamo indigestione: due presidenti italiani di fila, un Ppe e un S&D, Tajani, già commissario europeo ai Trasporti e all’Industria, e Sassoli, già vice-presidente dell’Assemblea di Strasburgo. Tajani fu eletto nel 2017 con l’avallo italiano; Sassoli è stato eletto mercoledì 3 luglio 2019, come abbiamo già visto, quasi per fare un dispetto al governo italiano.
Un filo che collega i due presidenti consecutivi italiani del Parlamento europeo è il fatto che sia Tajani che Sassoli sono giornalisti. E non giornalisti di facciata, ma giornalisti veri, come pochi altri tra Governo e Parlamento – alcuni ve ne sono stati e ve ne sono -. La politica italiana è piena di personaggi che “hanno fatto il giornalista”, cioè che hanno lavorato in testate, spesso di partito, ottenendo uno stipendio mentre facevano politica, ma scrivendo pochi articoli, passandone non molti e sporcandosi ancora di meno le dita in tipografia con l’inchiostro delle bozze; o che sono stati direttori senza fare la gavetta; oppure – peggio ancora – che fanno un unico fascio di professionisti e pubblicisti.
Tajani e Sassoli, invece, sono colleghi veri: giornalisti passati alla politica, non politici travestitisi da giornalisti in una stagione della loro attività. Tajani, professionista dal 1980, è stato, fra l’altro, cronista parlamentare, conduttore in Rai del Gr1 e responsa-bile della redazione romana de Il Giornale quando ne era direttore Indro Montanelli. Fra i fondatori di Forza Italia, nel primo governo Berlusconi (1994-’95) fu portavoce del presidente del Consiglio.
Sassoli, figlio di giornalista, professionista dal 1986, fa un percorso iniziale fra agenzie di stampa e quotidiani e arriva in Rai nel ’92: lavora in tutte e tre le reti principali, di-venta conduttore del Tg1 e poi, quando è direttore Gianni Riotta, vice-direttore.
Non c’è il due senza il tre?, anche il terzo italiano presidente del Parlamento europeo sarà un giornalista? Chi vivrà vedrà. Per il momento, ‘ben fatto’, collega Antonio. E ‘in bocca al lupo’, collega David.