La strage in Nuova Zelanda e la nuova ideologia del massacro

La Nuova Zelanda non si è ancora ripresa dall’orribile attentato di Christchurch, che nella giornata di venerdì (ora locale) ha visto 49 persone morire per mano del commando armato che ha assaltato due moschee. È quello che la premier neozelandese ha definito «uno dei giorni più bui» del Paese, caratterizzato da un gesto terribile e imprevedibile che porta la firma dell’australiano Brenton Tarrant. Imprevedibile tanto per il solito discorso sulla natura di “lupo solitario” dell’attentatore e dei suoi soci, quanto per l’esistenza di un’altrimenti pacifica convivenza tra cristiani e musulmani nel Paese dell’emisfero australe.

In queste ore, oltre alla condanna dell’atto, circola una fervida discussione sul manifesto lasciato da Tarrant, il quale – agli arresti – mostra alle telecamere il gesto delle frange suprematiste bianche. Un gesto eseguito con le mani, simile a un “ok”, ma che in realtà forma le lettere “WP”, “White Power”. Il manifesto di Tarrant è caratteristico poiché influenzato nel contenuto e nella forma dalle sottoculture di Internet. In rete, ormai da diversi anni, le organizzazioni di estrema destra tendono a identificarsi tra loro in modi nuovi e – così per dire – “all’avanguardia” rispetto ai modi di dire e fare giovanili in Rete.

Non che la colpa sia del medium in sé o dei suoi linguaggi: i nativi digitali, giovani cresciuti tra i computer, tendono a usare l’idioma del loro tempo. Idioma che assume un carattere simbolico e negativo non per sua natura, o per la totalità degli individui che ne fanno uso, ma per l’utilizzo specifico che – come in questo caso – è possibile farne.

Già dalla campagna elettorale statunitense del 2016 si discute dell’”alt-right”, la destra alternativa statunitense che proprio da Internet ha preso non solo il linguaggio, ma un gran numero di adepti: ci fu addirittura chi parlò, come il New York Times, dell’efficace sostegno rivolto da queste formazioni all’elezione di Donald Trump, coadiuvate in questo proprio dal medium virtuale. Ne sono l’esempio classico il forum di discussione 4chan, o il meme di “Pepe la rana”, un disegnino inoffensivo poi “usurpato” proprio dall’”alt-right” a scopo di identificazione politica, e più precisamente razzista e suprematista.

A farla breve, si tratta semplicemente di una nuova versione di vecchie storie, nuovi simboli accostati a vecchie ideologie, un po’ come la tendenza di alcuni attuali partiti neofascisti italiani nel “rivalutare” e “acquisire” le figure di Che Guevara o Guccini. È insomma propaganda, pubblicità per attirare i giovani – soprattutto le fasce disagiate che su Internet trasformano l’intolleranza in radicalizzazione – fino all’estremo risultato, voluto o meno. Come si combatte un pericolo del genere, nuovo nella forma ma, forse, antichissimo nella natura? L’unica via passa per la lotta al disagio – giovanile o meno – e all’alienazione sociale: l’inclusione è un medicinale necessario per evitare quel malessere che trasforma in lupi solitari, in assassini e omicidi di massa. Che la motivazione sia politica, religiosa o strettamente personale.

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