Succede di rado che un romanzo consenta ai lettori di accedere all’universo più intimo del suo autore. Si verifica molto più di frequente il contrario, laddove il libro – caricato di una “mission” che esula dall’ambito della letteratura – deve intercettare i sentimenti di chi legge per far sì che altri leggano. Nel suo ultimo lavoro, intitolato “Come un delfino” edito da L’erudita (2019, pp. 359), Gianluca Pirozzi racconta una lunga storia, che tra l’altro contiene altre storie, donando molto di sé e della propria sensibilità. L’intensa partecipazione emotiva dell’autore è resa evidente non solo e non tanto dal ricorso alla prima persona singolare (una soluzione stilistica sempre più adottata, come sottolineato da Elena Ferrante in un’intervista a Robinson, per accorciare la distanza tra chi racconta e la storia raccontata), ma soprattutto dal sapore “genuino” assunto dal racconto, dall’inizio alla fine. Il protagonista, che si chiama Vanni, risulta particolarmente credibile in alcuni dialoghi-chiave con figure significative, come quando lascia un fidanzato problematico durante una cena al chiaro di luna, quando manifesta la rabbia contro il padre alla madre e alla sorella in un caffè di Parigi, quando cerca di spiegare ad un’amica come il dolore più intenso della sua esistenza abbia svuotato di senso proprio le parole: “Sono sfinito, certo, ma non provo alcuna stanchezza. Sono vuoto. Le parole hanno perso significato, i pensieri sono brevi, assoluti, affilati, ma non vi è urgenza, vi è solo … Oddio, non so più cosa dico, Amandine [amica del protagonista, N.d.R], ma voglio andarmene adesso”. D’altro canto, il tema dell’allontanamento è onnipresente nella vita del protagonista, tant’è vero che, ripensando alla sua esistenza dopo aver lasciato Napoli, la sua città, e la famiglia d’origine, dice a sé stesso: “Tu, invece, ti sei subito determinato nell’idea che fosse possibile – anzi, necessario – star lontano da quella spirale”. Il rapporto più complicato è quello con il padre, scultore di fama e uomo dal temperamento irascibile. Potrebbe lasciarsi fagocitare da una figura così ingombrante eppure Vanni riesce a controbilanciare l’influenza paterna, potendo fare affidamento su figure femminili positive, prima fra tutte la amorevole e complice nonna Iole. Leggendo le pagine dedicate alla figura del padre, alla incomunicabilità tra di loro, la mente corre al Kafka di “Lettera al padre”, quando Franz scrive: “È come se uno fosse prigioniero e avesse non solo l’intenzione di fuggire, cosa forse possibile, ma anche e contemporaneamente l’intenzione di trasformare il carcere nel suo castello di campagna. Però se fugge non può trasformare e se trasforma non può fuggire”. Per fortuna, Vanni non cade nel paradosso intrappolante descritto magnificamente da Kafka e attraversa gli eventi, anche quelli più dolorosi, mostrandosi come una persona resiliente. Eppure un uomo gay, nato nel 1960 e per di più al Sud, con un retroterra familiare agiato ma molto problematico nei rapporti tra tutti i componenti del nucleo, incontra difficoltà rilevanti soprattutto in ambito affettivo, quelle stesse che, in altre storie raccontate da autori del calibro del Tondelli di “Camere Separate”, aprono la strada a sofferenze ulteriori e talvolta perfino a comportamenti autolesionistici. Dicevamo che, invece, non è così per Vanni il quale sa resistere alla tentazione di lanciarsi nell’abisso. Ed infatti, realizza la sua vita sia sul piano professionale sia su quello affettivo, portando a compimento il progetto di costruire, assieme a suo marito Tiago, una famiglia coronata dalla presenza di una figlia, concepita grazie alla gestazione per altri. Pirozzi introduce dunque un elemento molto divisivo come la omogenitorialità, anche se riesce a descrivere la normalità della famiglia “arcobaleno” del protagonista in modo così esemplare da attribuire a questo romanzo, che ha già moltissimi pregi, un valore aggiunto. In un momento storico difficile per la cultura dell’uguaglianza tra le persone, una cultura messa sotto attacco dalle destre reazionarie secondo cui la cosiddetta famiglia naturale rappresenta l’unico modello consentito, l’opera di Pirozzi educa, con il garbo proprio dell’autore, alla molteplicità e alla complessità dei sentimenti e dei vissuti.
Foto tratta dal sito web lerudita.it