Il “Palpa”, il più forte di tutti.

Questa è la storia del “Palpa”, campione di tennis mancato, perché poteva diventare uno dei più forti al mondo, e lo dicono tutti quelli che l’hanno incrociato, da Panatta a Bertolucci, da Nargiso a Canè, e invece Roberto Palpacelli è finito in un tunnel fatto di droga e alcol, e la sua carriera da tennista professionista pluricampione non è mai iniziata.

Classe 1970, nato a Pescara, figlio di Giovanni “Cecio” Palpacelli, talentuosissima ala destra di serie C che ha vestito la maglia del Cosenza e del Pescara negli anni ’50, il Palpa cresce in una famiglia della media borghesia, due sorelle, scuola e sport.

Inizia a calcare i campi in terra rossa da giovanissimo, e da ragazzino veniva soprannominato “virgola”, per via di un fisico asciutto e apparentemente gracile.

La natura, insieme al talento per il tennis, l’ha fornito di un fisico potente, compatto, veloce e leggero, una combinazione di qualità da fuoriclasse assoluto.

Mancino naturale dotato di colpi incredibili, venne convocato in nazionale da Paolo Bertolucci e Adriano Panatta, e cominciò tutto proprio quando un giorno del 1985 dal telefono del centro tecnico del Coni partì una chiamata: «Adriano, sono Paolo, devi venire subito, qui c’è un under 16 che con gli altri non c’entra niente, è mancino, la palla gli esce che è una meraviglia, devi vederlo», e Panatta, allora direttore tecnico della Federazione tennis e pure febbricitante, andò a vedere quel ragazzino.

Restò folgorato, lo convocò subito in segreteria: «Noi vogliamo farti entrare nel gruppo della nazionale, pensiamo a tutto noi, allenamenti, sistemazione, pasti».

Ma la sua esperienza in azzurro durò pochissimo, Roberto non ha mai amato i ritiri e le ferree regole che un professionista deve accettare, chiamò Panatta e gli disse: «in questo lager non ci voglio stare un giorno di più»,

Fu convocato in Coppa Europa, a Sciacca, e già la prima sera finì a fare un giochetto alcolico tipico delle sue parti. Finì che si appartò con delle ragazzine che stavano nello stesso albergo e poi, preso dai fumi dell’alcol, spaccò un pò di cose.

Fu cacciato, e a 17 anni la federazione depennò il suo nome dalle liste e lo mise tra gli indesiderabili, escludendolo cosi dalla selezione italiana.

Il Palpa è sempre stato così, un carattere che ha segnato un destino, condito da qualche eccesso di troppo che gli ha condizionato inesorabilmente la carriera, perché a volte il talento non basta quando si è un tutt’uno tra genio e sregolatezza.

Qualche vizio proibito diventato ben presto una dipendenze lo ha tradito.

Una vita avventurosa e avvincente, difficile da sintetizzare.

A 15 anni già fumava le canne, a 16 inizia con l’eroina, in mezzo fiumi di alcol.

Spendeva i soldi in sesso, droga e rock&roll il Palpa, che si voleva solo divertire, e questa è una cosa che non va d’accordo col tennis professionistico.

A 26 finii in mezzo alla strada, letteralmente, neanche i suoi lo volevano più vedere, e a 27 anni entra in comunità.

Ogni tanto qualche torneo, qualche soldo guadagnato, speso però sempre in vizi, mentre tutti i circoli tennistici di Marche e Abruzzo prima lo ingaggiano e poi lo cacciano per la sua sdregolatezza.

Una volta per recuperarlo gli fecero persino una puntura di adrenalina nel cuore, incredibile come riuscisse ancora a tenere una racchetta in mano.

Davvero tanti gli episodi leggendari che l’hanno reso protagonista, sia in positivo che in negativo. In molti ricordano imprese sportive straordinarie compiute in vari tornei.

Al suo nome è associata una quantità di leggende metropolitane abnorme, per un giocatore che ha un solo dato ufficiale: il 1.355, cioè un punto Atp, nel 1999: «Ha battuto tre volte Boris Becker in gare non uficiali», «A trent’anni, con la sigaretta in bocca, ha dato 6-1 6-1 a

Volandri», «Ha vinto una partita in serie B tenendo in mano una bottiglia di birra», «Era il più forte di tutti».

Ma una storia è certa, anno 2012, Palpacelli ha 42 anni, e si innamora dell’avventura sportiva del CT Mosciano, piccolo circolo del Teramano che ha un sogno, portare il club dalla serie C alla serie A, e per farlo gli serve una stella.

E così Palpa gioca contro ragazzi di vent’anni più giovani e in due anni perde una sola partita, da mezzo infortunato, il primo anno.

Allo spareggio per la promozione in A2 contro il Piacenza, Palpacelli sfida Adriano Albanesi, trent’anni, in formissima. Fa un caldo bestiale, e dopo un’ora di lotta perde il primo set al tie-break. Si sdraia sulla panchina e tira fuori una sigaretta, e mentre fuma, paonazzo, dal pubblico qualcuno gli grida di non mollare, perché sembra voglia lasciare il campo, ormai esausto. Palpacelli si gira offeso, e dice di non rompergli le palle, che tanto avrebbe vinto lui 6-1 6-1. Si sbagliò di poco, vinse secondo e terzo set 6-1 6-2.

Dopo aver festeggiato innaffiando tutti con l’idrante ritornò subito nel suo tunnel, e seduto su un gradino con lo sguardo nel vuoto e una sigaretta tra le dita era già malinconico, come se la gioia non fosse un sentimento gratuito e si dovesse pagare col dolore.

Di lì a poche settimane, Palpacelli fece perdere le tracce di sé, e quando smette di rispondere al telefono non è mai un buon segno, dicono i suoi amici.

Staccò il cellulare per andare ad affogare nei bar il suo male di vivere.

Al circolo, anche se non è più affiliato, gli vogliono un bene dell’anima.

A più di trent’anni dall’episodio di Riano Paolo Bertolucci conferma: «eravamo rimasti colpiti dal suo talento, ma già al raduno si vedeva che era un ribelle, capita così coi talenti, solo che non ne volle proprio sapere. Mi è dispiaciuto molto perché era un pezzo raro, stilisticamente era perfetto. Da lì, credo di averlo rivisto una volta sola, tanti anni dopo, sapevo che stava passando dei problemi. Eravamo a Verona, ai campionati italiani, mattina presto, al bar, io presi un caffè, lui un Campari».

Il giornalista sportivo Rino Tommasi l’ha definito «il più grande talento inespresso del tennis mondiale», un titolo simile a quello del libro scritto da Palpacelli insieme al giornalista sportivo e voce di Eurosport Federico Ferrero “Il Palpa – Il più forte di tutti” (Rizzoli, 2019), in cui il Palpa si confessa, si racconta a cuore aperto, si apre e scoperchia quel vaso colmo di accidenti che è stata la sua esistenza, quell’ingorgo del destino che l’ha portato ad essere un tossicodipendente invece di un grande tennista come le sue qualità permettevano di immaginare.

Nel libro viene raccontata la storia dell’antieroe del tennis italiano, tra mito e leggenda, 220 pagine che si leggono d’un fiato, rincorrendo le tappe di una vita vissuta al limite, di una carriera mai iniziata, di un potenziale inespresso.

In questo percorso Ferrero è bravo a mettere ordine, ad ascoltare altri testimoni perché il racconto non soccomba alle dimenticanze del protagonista, alla memoria danneggiata a forza di sostanze, un lavoro fondamentale.

La narrazione della vita del Palpa si legge con interesse a prescindere, perché la sincerità con cui si concede in queste pagine, il disinteresse a cercare alibi per le scelte sbagliate, il punto di vista interno che riesce a fornire della vita di un drogato e alcolizzato sono elementi che dispiegano generosamente lo spaccato di un’esistenza distrutta.

«Ho gettato una carriera, non la vita», dichiarò il Palpa, tutto vero, è ancora vivo e neppure lui ha ben chiaro come sia possibile.

Capello corto, orecchino, oggi a 48 anni Roberto vive a Pescara con la compagna e il figlio, gioca ancora a tennis confrontandosi con ragazzi che hanno 30 anni di meno, e ancora adesso vince, con una semplicità disarmante, tra una boccata di sigaretta e un boccale di birra.

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