È morto Franco Battiato, il padrone della voce.

“Mi sento un po’… abbattiato”. Lo avrebbe detto, Battiato, ieri, 18 maggio 2021, liberandosi nel cielo della sua adorata Milo dopo due anni di malattia? Amava dirlo in momenti diversi, più o meno gravi. E si divertiva quanto basta per non prendersi mai troppo sul serio. Le persone dense, compiute, che viaggiano nel sapere mosse dal dubbio, che abitano il mondo e sé stessi in una costante dialettica tra quanto si conosce e quello che ancora può essere scoperto, riescono a sintetizzare il vissuto complesso in una semplicità leggera e immediata. Visitando il nuovo auditorium di Roma, alla verifica dell’acustica ottenuta con le “balene” di legno progettate da Renzo Piano, si lasciò andare a un’articolata dissertazione dalle camere anecoiche alle frequenze di Steiner. Si interruppe bruscamente esclamando: “Però, che meraviglia è la donna!”. Non disse proprio così, fu molto più esplicito. Non servono dettagli.

Ha interpretato, contaminato e stravolto i generi, gli stili e le etnie musicali, ha percorso e precorso sonorità elettroniche, etniche, accostamenti possibili per chi ha spessore e caratura di esperienza e intuito. Ha ridefinito il fraseggio, la struttura del verso con quei “recitar cantato” dove melodia, armonia e parola si dilatano per accogliere un’ispirazione nutrita dall’urgenza della scoperta, di dover dire molto e sperimentare ancora.

Ogni album è un’antologia letteraria, filosofica, spirituale e compositiva, una mappatura di complessi percorsi gnoseologici, una bibliografia antroposofica, un compendio di rimandi e citazioni. Si può godere anche senza comprendere e riconoscere le fonti e il senso. Restano il suono delle parole, la semantica dei suoni, le sospensioni di melodie aeree e le vibrazioni terrene di ritmiche solide. Certo, conoscere i codici di ascolto per “Dieci stratagemmi”, “Gommalacca” o il Gilgamesh, ne espande il piacere. Ancora più certo è che un album va ascoltato seduti, dediti, come se si leggesse un libro.

Non mancherà l’uomo. Non era personaggio, evitava l’esposizione mediatica come la folla perché “si è perso il coordinamento motorio e mi ritrovo vittima di collisioni”. Viveva tra l’Etna e lo Ionio che bagna Giarre, in una luna terrena condivisa con l’amico Lucio (chi se non Quel Lucio?) suo vicino di casa, con cui si concedeva invisibili uscite in barca indossando un costume senza tempo né forma, tra pochi sorsi dello “Stronzetto dell’Etna”. Non mancherà la testimonianza del suo talento, garantita da trenta album, cinque opere musicali, alcuni lungometraggi e ottanta dipinti. Come quelle del Mar Nero, anche le sue rose fioriranno tre e più volte (L’odore della polvere da sparo).

Mancano,invece, i nuovi interpreti di un certo Umanesimo occidentale contemporaneo, i prosecutori di una cifra artistica che ha arricchito il ‘900 e adesso pare destinata a sparire.

“Radio Varsavia. L’ultimo appello è da dimenticare”.

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