“Il mio incontro con Jacques Lacan”: intervista ad Antonio Di Ciaccia

La piovosa parentesi di lunedì 5 novembre non ha privato dell’entusiasmo gli appassionati romani di filosofia e psicoanalisi, riunitisi nella cornice sanlorenzina del locale Underdog’s per ascoltare le parole del dott. Antonio Di Ciaccia.

Di Ciaccia, presidente dell’Istituto freudiano, curatore e traduttore italiano dell’opera di Jacques Lacan, ha raccontato al pubblico il suo incontro con lo studioso francese. Un rapporto di continuo apprendimento, e la descrizione di una personalità in perenne evoluzione.

Il dott. Di Ciaccia ha accettato, con infinita cortesia, di rispondere alle nostre domande.

Lei ha descritto una figura di Lacan estremamente peculiare, tanto sul piano umano che su quello professionale. Un personaggio immensamente buono e allo stesso tempo terribilmente severo. Che tipo di insegnante è stato, per lei e per gli altri?

«Lacan riteneva che, quando un analista insegna, continua la propria analisi: in quanto insegnante era in primo luogo in una posizione di analizzante. Era innanzitutto ricercatore di un percorso su come funziona l’inconscio. Non si atteggiava: aveva orrore della posizione universitaria. Pertanto non insegnava come uno che “sa”, ma come uno che cerca di sapere: da una posizione di docta ignorantia.»

Quali sono i punti, più o meno importanti, dell’opera di Lacan che lei ritiene siano ingiustamente trascurati, tanto nell’insegnamento accademico che nell’etica professionale?

«Lacan è completamente oscurato nelle università. Il problema che oggi trovo più complicato è che in Italia ci sia stata una sorta di banalizzazione. Lacan, se banalizzato, perde di senso: Lacan è un percorso, in cui l’oggetto è il percorso stesso che lui sta facendo; frase da lui inserita ne La direzione della cura, nel ’58. Essendomi ritrovato a tradurre o rivedere diciotto volumi di Lacan percepisco questo movimento, e mi irrita profondamente quando Lacan è cristallizzato solamente in quanto da lui è stato detto. Se prendiamo un qualunque termine di Lacan, lui lo fa ruotare in modo topologico. Si potrebbe per esempio pensare che il grande Altro sia riducibile alla madre, al padre… in realtà è l’Altro dei giochi, come nella legge dei giochi: la legge che fa funzionare la pulsione. Com’è che questi elementi possono chiamarsi tutti Altro?»

Con l’Istituto freudiano state portando avanti un’attenta e costante opera di divulgazione dell’opera di Lacan, con una serie di incontri aperti al pubblico. Cosa può dirci dei prossimi appuntamenti?

«Quest’anno, assieme a numerosi ospiti, sarà data importanza primaria alla questione del corpo e del godimento; non il corpo che gode ma il corpo che “si” gode. Il 30 novembre e il 1 dicembre ci sarà il primo incontro dedicato alla clinica, su La direzione della cura. Venerdì sera avverrà la presentazione del libro L’Uno-tutto-solo; la mattina seguente si cercherà invece di chiarire la differenza de La direzione della cura in diverse situazioni: preanalitiche, fuori-analitiche, strettamente analitiche, come ad esempio nelle case di cura o nella cura analitica propriamente detta.»

 

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