Quando si parla di fotografia, spesso si pensa superficialmente che questo tipo di arte possa riguardare soggetti ben precisi e standardizzati. Ebbene, nel caso di Carlo D’Orta non è così. Fiorentino di nascita, classe 1955, opera stabilmente nel suo studio d’arte ArtStudio/Gallery a Roma, in piazza Crati 14, ha acquisto un’esperienza di oltre quarant’anni nel campo della fotografia e dei viaggi, che lo ha portato a sviluppare uno stile impegnativo, audace ed affascinante. In questi giorni, ho avuto l’occasione di contattarlo e porgli qualche domanda.
Carlo, quando ha capito che la fotografia ed il viaggio sarebbero stati così importanti nella sua vita e come ha scelto il suo percorso stilistico nel fare fotografia?
“La mia passione fotografica risale a quando avevo vent’anni. Dapprima l’ho perfezionata tecnicamente con manuali e corsi di base e, per venti anni, ho usato la mia fotografia per documentare e ricordare i luoghi di tutto il mondo in cui amavo viaggiare. Il salto di qualità verso una fotografia completamente diversa, non più di documentazione ma Fine Art, è avvenuto negli anni 2003-2008, in cui ho frequentato corsi di pittura alla RUFA-Rome University of Fine Arts e corsi di fotografia Fine Art allo IED-Istituto Europeo di Design di Milano e, in parallelo, ho studiato per passione l’arte contemporanea del XX secolo. La mia visione mentale è cambiata radicalmente. Il concetto di fondo è diventato: “Non solo guardare, ma saper vedere”. Con l’obiettivo della mia macchina fotografica – una Nikon D800, con zoom 28-300 – ho cominciato a cercare, nella realtà, immagini pittoriche, assolutamente reali ma spesso effimere. I miei territori di ricerca privilegiati sono diventati le architetture e la danza. Nelle forme delle architetture e negli intrecci tra parti di edifici anche diversi cerco immagini di astrazione geometrica (serie “Biocities” e “Geometrie Still Life”) che nella mia mente richiamano, ad esempio, la pittura di Mondrian, Malevich, El Lissitky, Rotchko e Peter Halley. Nei riflessi prodotti dalle vetrate dei grattacieli (serie “Vibrations”) cerco invece immagini di astrazione informale o dalle linee futuriste e surrealiste. Nella mia serie fotografica dedicata danza (“Liquidance”) mi concentro, infine, su un aspetto generalmente non visto: le ombre dei danzatori che le luci di scena proiettano su pareti e pavimenti, e le scie del movimento, valorizzate con tempi di esposizione più ampi di quelli ordinari.”
Il suo lavoro è fatto di ricerca continua, quanto è impegnativo e quanto è importante lo studio.
“Trovare nella realtà architettonica le immagini artistiche che sogno e desidero è il frutto di una ricerca profonda, visuale e mentale. Cammino lentamente per le vie delle nostre metropoli contemporanee, ma anche attraverso i borghi tradizionali del mediterraneo, indagando meticolosamente prospettive, dettagli, luci e ombre, riflessi e colori. E quando individuo il soggetto che mi emoziona, allora cerco il punto di vista o la prospettiva più adatti a raccontare in modo artistico quella particolare visione architettonica. Questo significa avvicinarsi o allontanarsi, arrampicarsi su un punto di vista più elevato o cercare una prospettiva verticale, oppure tornare in orari diversi, in cui la luce cambia e valorizza linee e forme altrimenti meno emozionanti.
Ma dietro lo sguardo reale c’è la visione mentale, cioè la reminiscenza profonda dell’arte contemporanea degli artisti che ho citato prima, che aiuta a leggere la realtà visuale in modo diverso e creativo. Spesso poi, scherzando, racconto che un fattore tecnico che mi aiuta è la malattia della presbiopia, che mi rende incapace di vedere i dettagli senza gli occhiali. Questo difetto dei miei occhi mi aiuta a cogliere le linee e forme essenziali delle architetture e della danza, senza perdermi nell’enorme rumore visuale dei particolari. Mi aiuta a focalizzarmi subito su ciò che artisticamente mi attira, e a saper cogliere prospettive e giochi di luci e ombre di particolare forza e poesia.”
Per la sua carriera, il “Viaggio”, è stato fondamentale?
“L’amore per il viaggio, per la scoperta di luoghi nuovi, è sempre stata una passione personale e anche uno stimolo per la mia ricerca artistica. Indagare luoghi nuovi e diversi da quelli che frequento quotidianamente mi emoziona, e la novità delle visioni mi aiuta a coglierne l’essenza. Però col tempo ho imparato anche che il vero viaggio non è materiale, ma mentale. Ho imparato a scoprire visioni nuove anche in luoghi che credevo di conoscere bene. Ho imparato a rileggere in modo diverso paesaggi, forme e luoghi sui quali in realtà avevo soffermato i miei occhi solo in modo tradizionale e a volte banale. Una frase del grande filosofo Marcel Proust descrive bene questo concetto e l’importanza di un approccio visivo diverso: <<Il viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.”
I due anni della Pandemia sono stati un periodo complicato, ma lei ha continuato a lavorare e a presentare i suoi lavori, quanto è stato difficile trovare nuovi stimoli ed ispirazioni.
“Diciamo che sto affrontando questa stagione con spirito di “resilienza”, cercando di fare di una stagione molto dura e triste una opportunità di crescita interiore e creativa. Paradossalmente, rinunciare ai viaggi che amavo fare mi ha guidato a cercare nuove visioni in luoghi tradizionali e domestici, che credevo di conoscere bene ma che ho imparato a leggere in modo diverso. Secondo il suggerimento di Marcel Proust, sto cercando di aprire occhi nuovi per vedere in modo diverso.”
Carlo, come vede il suo futuro e quello dell’arte in generale e cosa può suggerire a dei giovani che vogliono cimentarsi nella fotografia.
“Credo che, grazie alle nuove tecnologie degli smart phone, la fotografia stia entrando in una stagione nuova. Per spiegarmi meglio, faccio un passo indietro. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 l’invenzione della macchina fotografica liberò la pittura. Fino a quel momento, per secoli la pittura era stata il principale strumento per documentare luoghi e situazioni, tant’è che i grandi esploratori e viaggiatori portavano sempre con sé pittori per poter documentare ai sovrani i luoghi che scoprivano. L’invenzione della fotografia liberò la pittura da questa funzione di documentazione, e aprì le porte ai nuovi movimenti artistici dell’impressionismo, del surrealismo e poi dell’astrattismo. Oggi che tutti portano con sé uno smart phone, cioè un apparecchio piccolo e leggero che consente di scattare fotografie, tutti possono in qualche modo documentare in modo elementare ed essenziale la realtà che li circonda. E allora si sono aperte porte nuove per una nuova forma d’arte, qual è la fotografia Fine Art. La macchina fotografica di qualità diventa, cioè, strumento utilizzabile non più solo per raccontare oggettivamente ciò che ci circonda, ma anche per indagare la realtà oltre la banalità dell’ordinario ed oltre la prima vista superficiale. La sua tecnologia, molto più complessa e sofisticata di quella essenziale degli smart phone, consente di cogliere immagini, forme, prospettive, luci ed ombre che altrimenti non possono essere percepiti né raccontati. Consente di indagare la realtà più in profondità, o con occhi completamente diversi e nuovi. Fotografare diventa non più solo documentare, ma vedere in modo creativo. Perciò ai giovani dico: la macchina fotografica, usata non solo per guardare ma per vedere oltre l’ordinario, è un nuovo pennello. Non cercate l’arte nella superficie, ma imparate ad indagare la realtà nel suo profondo, imparate a leggere con nuovi occhi.”
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