Alessio Pizzicanella Esploratore dell’anima

Alessio Pizzicannella (1973) nasce nella provincia romana e a vent’anni si trasferisce a Londra dove stu- dia fotografia al London College of Printing. Ha lavo- rato per l’NME («New Musical Express»), uno dei più accreditati periodici di musica mondiali, girando il mondo per ritrarre autori del calibro di Neil Young, Rolling Stones, Metallica, REM, Radiohead, U2. Ha collaborato con le principali case discografiche e con i più noti magazine italiani e internazionali («Vanity Fair», «Rolling Stone», «Times», «The Guardian», «The Observer»). Vive a Locarno dal 2012, dove è stato fotografo ufficiale del Locarno Film Festival. Sue le foto di Un giorno da Liga, il libro fotografico dell’evento live di Ligabue (2005). Ha pubblicato Verso Sud, il diario di viaggio realizzato al seguito dei Negrita (2006). Le sue produzioni cinematografiche: Come un morto ad Acapulco (2014), Glastonbury (2014), e il suo primo lungometraggio, Dawn Chorus (2021).

Come affronta le sfide della vita?

“Un nemico alla volta. Non sono molto bravo a guardare troppo avanti e assolutamente negato a guardare indietro. Mi limito a riflettere su quello che mi è appena accaduto e tento di prevedere la prossima mossa. Mi sento molto più a mio agio con il presente. Ho la sensazione che il tempo mi scorra più lentamente, il che aiuta a godere di quel che sto facendo o soffrire per quello che non riesco ancora a fare.”

Qual è la sua reazione alle sconfitte?

“La sconfitta non è assolutamente un problema, fa parte del gioco. Statisticamente quando si crea è la norma con la quale bisogna imparare a convivere. Il successo, qualunque connotazione gli si voglia dare, è l’eccezione. Non penso abbia molto senso creare con quell’obiettivo. La vera e unica frustrazione, per quanto mi riguarda, è l’attesa. Per questo forse ho iniziato dalla fotografia, che per definizione è istantanea. E solo poi sono andato a complicarmi la vita con la scrittura e ancora di più con il cinema.”

Cosa ne pensa della vita in un orfanotrofio?

“Non ho un’esperienza diretta, posso solo immaginarla, che poi è quello che ho fatto scrivendone. Si scrive anche per questo no? Calarsi in mondi che non ci appartengono. È un modo per vivere tante vite potendone altrimenti vivere soltanto una.”

Qual è il suo rapporto con la scrittura?

“Come spesso mi accade è diventata un’ossessione, qualcosa che debbo fare tutti i giorni, che ne abbia voglia o meno. Ma scrivere non è solo penna e carta, o un file word che si riempie. Quella è l’ultima fase, scrivere parte dal vivere, pensare, mettere in discussione tutto e tutti, se stessi per primo.”

Ha una “stanza tutta per sé” per scrivere”?

“L’ho avuta per anni. Ora non più, preferisco cambiare scenario e medium. Mi sposto di stanza in stanza passando da un laptop sul divano, a un taccuino sul tavolo del salone, a un computer alla scrivania, a un registratore vocale nei viaggi lunghi in auto, o il cellulare sul comodino di notte. L’immagine romantica dello scrittore seduto sempre alla stessa scrivania, alla stessa ora, non fa per me in questo momento.”

In che modo difende il momento creativo dalle distrazioni esterne?

“Cuffie e musica ad alto volume. Una vecchia abitudine ereditata nei tempi del walkman quando ci dicevano che saremmo diventati sordi o finiti sotto un bus. Da sempre mi addormento con la musica nelle orecchie, una volta sfumava via, ora mi sveglio di notte che ancora va. Cammino per strada con le cuffie e se non sono solo in casa le metto su anche per scrivere. È un isolante perfetto anche in treno. Crea una bolla nella quale è più facile pensare.”

Scrivendo un romanzo ha mai pensato di compiere un impresa troppo grande?

“Scrivere un romanzo è un’impresa troppo grande, nessun dubbio al riguardo. Ma lo è anche girare un film, come lo fu venticinque anni fa diventare un fotografo. Qualsiasi percorso artistico è una scommessa. Ho ben chiara la difficoltà ma è proprio quello che mi esalta. È uno dei vantaggi del non temere il fallimento presumo.”

Come, secondo lei, i ragazzi oggi immaginano il futuro?

“Non ne ho idea. Mi sembrano molto concentrati sul presente, il che, come dicevo prima, è qualcosa che ci accomuna. Il problema è se dovessimo scoprire che questo nasconde invece un’incapacità nell’immaginare un futuro. Qualche dubbio c’è al riguardo, questo guardare sempre in basso e mai davanti mi insospettisce.”

Durante il lockdown ha avuto una crisi con la scrittura o è riuscito a scrivere lo stesso?

“Se parliamo del primo lockdown non mi sembra di aver scritto molto. La realtà era molto più affascinante e spaventosa della mia fantasia. Avevo la sensazione, di vivere un evento che, seppure incredibilmente drammatico, potesse spingerci tutti a fare un salto se non evolutivo, culturale. Al momento non sembrerebbe essere andata esattamente in quella direzione ma aspetterei a dare un giudizio frettoloso. Sono stato uno di quelli che ha colto l’occasione per affrontare libri e film difficili. Mi sembrava un’occasione per passare del tempo con la famiglia, e non potendo fare altro, tentare di migliorarmi. Ma l’angoscia di quel momento ha probabilmente frenato la mano.”

Qual è, se c’è, dei personaggi del libro, Rito di passaggio, che le assomiglia di più?

“Nei tre ragazzi ci sono inevitabilmente finite tracce di me. Ma ambisco a diventare un po’ più simile a Mia.”

Lei come ha affrontato “Il rito di passaggio” dall’adolescenza all’età adulta

“È un passaggio dirompente che avviene simultaneamente nel corpo e nella psiche. Non penso si possa contestualizzare mentre avviene. Forse si scrive anche per rivivere anche la propria di vita.”

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