Stefano Cucchi: una sentenza che fa giurisprudenza sul pubblico dire

Una sentenza già di per sé importante, quella che lo scorso 14 novembre ha riconosciuto la colpevolezza di due carabinieri per omicidio preterintenzionale nei confronti di Stefano Cucchi. Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono stati condannati a 12 anni di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre al pagamento delle spese processuali e il risarcimento di duecentomila euro ai genitori del geometra romano all’epoca 31enne. Condannati, contestualmente, per falso i due colleghi Francesco Tedesco e Roberto Mandolini.

La sentenza arriva 9 anni dopo i fatti dell’ottobre 2009, seguiti da due processi, tre inchieste, e un caso il cui risalto presso l’opinione pubblica ha avuto ben pochi precedenti rispetto ad altre simili fattispecie. Caso che ha visto condurre una personale battaglia in primis la sorella dell’ucciso, Ilaria Cucchi.

Sempre lei, adesso, a non voler lasciar più passare nemmeno un sussurro mediatico su quanto accaduto al fratello, forte ormai della sentenza giudiziaria favorevole. Ci si riferisce all’atto con cui, un paio di giorni fa, ha deciso di querelare il leader leghista Matteo Salvini per una frase da questi pronunciata proprio all’indomani della recente sentenza. Salvini ha affermato che «la droga fa male, sempre e comunque», affermazione di per sé corretta ma – in quella circostanza – espressa come a voler sottolineare che la morte di Stefano Cucchi non sia stata una diretta conseguenza del pestaggio a opera dei due carabinieri. Se questa sarà effettivamente l’interpretazione da dare alla frase, sarà ora questione giudiziaria.

Negli anni, le “frasi sporche” della politica nei confronti della vicenda Cucchi sono state molteplici; ne ha raccolte alcune significative, di recente, la redazione del Fatto Quotidiano. Fece da subito scalpore quella di Carlo Giovanardi – allora senatore con il PdL – che escluse l’ipotesi del pestaggio e attribuì le ecchimosi del giovane «alla mancanza di nutrizione. Non c’entrano niente le botte, né quei poveri cristi degli agenti di custodia». Giovanardi sentenziò, all’epoca, sulla «vita sfortunata […] segnata dall’uso di stupefacenti e dal fatto di essere uno spacciatore» del «povero Cucchi». Il senatore è rimasto noto, negli anni, per una campagna particolarmente feroce nei confronti dell’uso di droga, ma anche promotore di relative pene che non favorirebbero la riabilitazione e il “ritorno in società” dei soggetti tossicodipendenti.

Lo stesso Giovanardi, nel 2016, attribuì quelle stesse ecchimosi a «traumi pregressi», nei quali «la tossicodipendenza di vecchia data può aver svolto un ruolo casuale». Ipotesi precedentemente e successivamente smentita dai rilievi giudiziari sulla vicenda.

Sulla stessa falsariga Gianni Tonelli – segretario del Sindacato autonomo di polizia, poi deputato leghista: «Se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze». Tonelli è stato poi condannato per diffamazione, con multa di 500 euro nei confronti dei familiari di Stefano Cucchi.

Ma non solo: da Maurizio Gasparri, che imputò la morte di Cucchi al mancato aiuto familiare nel farlo uscire dalla droga, ancora a Roberto Formigoni che, negando una morte “in mano allo Stato”, lo definì «pesantemente coinvolto nel mondo della droga [e] più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente». Una pista mai considerata realistica dagli inquirenti.

Difficile credere che l’attuale querela per diffamazione nei confronti di Matteo Salvini possa tradursi in una sentenza sconvolgente: ma è lecito ritenere che – come sempre sarebbe consono quando si tratta di casi giudiziari in corso di svolgimento –ora ci sia un vero atto da impugnare verso chi tende a creare la propria verità su fatti – tristi e vergognosi – che la magistratura ha già ampiamente provveduto a verificare.

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