L’Italia, il 9 maggio, i rapimenti

Il 9 maggio è una data importante per l’Italia, da quarantadue anni a questa parte. Una data che ha visto, nel 1978, lo sconforto e il dramma per il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro – e per l’esplosione di quello di Peppino Impastato. Due figure diverse e diversamente importanti per la storia della Prima repubblica, andatesene in maniera tragica e improvvisa ma lasciando dietro di esse un messaggio di coraggio e resistenza.

Aldo Moro, Peppino Impastato

Moro, che in un periodo politico chiuso e asettico, fatto di conventio ad excludendum e svolte verso destra, volle tentare di ricostituire un’unità nazionale che le ideologie da guerra fredda, in quel momento, non potevano permettere. Né da un lato, né dall’altro.

E Impastato, che con la sua crociata solitaria contro Cosa Nostra a Cinisi fu eletto al Comune due giorni dopo la sua morte, in qualche maniera permettendo anche ai suoi concittadini di alzare, seppur in maniera minima, la testa.

Ricordi sconfortanti, certo, ma messaggi di orgoglio per un 9 maggio storico al quale, oggi, va ad aggiungersi un nuovo tassello legato all’elemento del sequestro di persona. E chissà che gli agenti dell’Aise non abbiano volutamente scelto proprio la data del 9 maggio per porre fine alla prigionia di Silvia Romano.

La cooperante milanese all’epoca 23enne, a distanza di 536 giorni, è stata liberata dagli 007 italiani con la collaborazione dei servizi turchi e kenyani, attraverso il pagamento di un riscatto non quantificato. Quasi due anni di prigionia, nei quali le voci sulle condizioni della giovane si sono susseguite, spesso infondate, lasciando molto spazio anche a periodi di silenzio stampa. Disinteresse generale? È evidente che, nel mentre, l’Aise abbia lavorato per riportarla a casa.

Scesa dall’aereo all’aeroporto di Ciampino, Silvia Romano ha colpito per la forza d’animo oltre che per l’abito tradizionale somalo. Sorridente, felice di essere a casa e abbastanza in vena da scherzare sul fatto che le mancasse quasi più la pizza dei genitori. Poi, dopo essersi chiarita con questi ultimi, la rivelazione: «Mi sono convertita all’Islam, volontariamente». Non conosciamo gli ultimi due anni di Silvia Romano, e non possiamo ancora dire se si tratti di un atto di fede o di sindrome di Stoccolma.

Sappiamo, al momento, che i suoi carcerieri l’avrebbero trattata umanamente. Nelle parole della Romano stessa, non avrebbe subito violenze né sarebbe stata costretta a sposarsi con uno degli aguzzini – entrambe voci precedentemente circolate. Vero, oltre alla conversione, il fatto che sarebbe stata malata in maniera grave durante la prigionia.

Mentre la famiglia Romano attende di poter tornare, finalmente, a una meritata normalità, sembra però che non tutta Italia gioisca per il ritorno della concittadina. Il peggior istinto dell’italiano medio, quello della ferocia immotivata su Internet, sembra quasi invidioso del tempo e del denaro spesi per riportare a casa Silvia Romano, segno in realtà che uno Stato cerchi di proteggere i propri cittadini. Non si capisce bene quale sia il motivo dell’odio, ma della Romano già un certo tam-tam social alludeva a meschinità a sfondo sessuale contemplanti i rapitori africani, o più genericamente lamentava che «avrebbe dovuto starsene a casa».

Ma come – parliamo delle stesse persone che invitano i “buonisti”, nelle loro parole, ad andarli ad aiutare a casa loro? Più probabile che una certa parte, quella più indigesta al buon senso, dell’italiano medio sia semplicemente devota a smontare, sminuire tutto ciò che sia contrario al proprio punto di vista, non importa quanto poco informato o corretto esso sia. I soldi e il tempo sono stati impiegati anche per le spese legali dei marò in India – altro episodio in cui molti italiani sfruttavano il benaltrismo in chiave antigovernativa, questa volta intimando le autorità a entrare in azione.

Questa volta è il contrario: e la stupidità non si ferma nemmeno di fronte a una persona che ha viaggiato nel continente più povero e pericoloso del mondo per compiere altruisticamente quel gesto che l’egoismo “infallibile” dell’italiano medio non contemplerebbe mai: aiutare il prossimo.

 

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