La P.A. può comminare il licenziamento al dipendente condannato per tentata concussione.
Il funzionario ministeriale, in presenza di una condanna definitiva, può essere licenziato anche per la tentata concussione, sebbene tale fattispecie, ai sensi del C.C.N.L., non rientri nell’elenco delle condotte punibili con la massima sanzione. È quanto si ricava dalla lettura di una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. L).
Dalla lettura della sentenza n. 23881 dell’1/08/2022, emessa dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, emerge che il tentativo di concussione rientra fra le ipotesi che, in presenza di una condanna definitiva, legittimano il Datore di lavoro pubblico (nella specie, il Ministero della Difesa) ad adottare nei confronti del proprio dipendente il licenziamento disciplinare.
La concussione, consumata o tentata che sia, è una condotta in grado di compromettere definitivamente il legame fiduciario che deve esistere fra Datore di lavoro e il suo dipendente.
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni. Articolo sostituito dall’art. 4, L. 26 aprile 1990, n. 86, e dall’art. 1, comma 75, lett. d), L. 6 novembre 2012, n. 190. Successivamente, il presente articolo è stato così sostituito dall’art.3, comma 1, lett. a), L. 27 maggio 2015, n. 69.
Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Il colpevole di delitto tentato è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
Il ricorrente, in qualità di funzionario amministrativo di ruolo presso il Ministero della Difesa, nel 2012, è stato sospeso dal servizio, perché condannato dal Tribunale di Taranto in relazione al reato di tentata concussione.
La Corte d’Appello di Lecce ha poi dichiarato prescritto uno dei tentativi di concussione contestati e, quindi, ridotto la pena, con concessione dei benefici della non menzione e della sospensione condizionale.
La decisione della Corte di merito, nel 2016, è divenuta definitiva in seguito alla dichiarazione l’inammissibilità del ricorso per cassazione, pertanto, il Ministero della Difesa ha riattivato il procedimento disciplinare rimasto sospeso fino a quel momento, irrogando al reo la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, con decorrenza dall’11 gennaio 2013.
Ebbene, il ricorso per cassazione presentato dal funzionario ministeriale in questione per ottenere l’annullamento della sentenza di conferma del licenziamento emessa, nella specie, dalla Corte d’Appello di Venezia (luogo dove il predetto venne trasferito in seguito ai fatti penalmente rilevanti a lui addebitati), è stato respinto dai giudici del Lavoro del “Palazzaccio”, alla luce delle seguenti considerazioni.
In particolare, il ricorrente ha lamentato che la La violazione e falsa applicazione degli artt. 13, comma 6, lett. e), punto 3, C.C.N.L.
del 12 giugno 2003 e 3, comma 1, legge n. 97 del 2001, per avere la Corte territoriale ritenuto non tassativo l’elenco di reati ivi contenuto, agli effetti del licenziamento disciplinare senza preavviso, e che il tentativo di concussione non si differenzi dal reato di concussione portato a compimento.
Con riferimento alla suddetta doglianza, la Suprema Corte ha osservato (in sintesi) che il Giudice di merito ha correttamente interpretato il C.C.N.L., ritenendo passibile di licenziamento disciplinare non solo il delitto consumato di concussione, ma anche quello tentato, sul presupposto che non vi sarebbe un’ontologica differenza fra le due ipotesi criminali; che, infatti, nei casi di reato tentato o consumato l’azione posta in essere è in gran parte sovrapponibile, spesso non dipendendo neppure dalla volontà dell’autore dell’illecito il verificarsi dell’una o dell’altra ipotesi; che, inoltre, occorre considerare che il linguaggio utilizzato nei contratti collettivi non è mai del tutto tecnico, tendendo le parti contraenti, più che a qualificare in maniera scientificamente ineccepibile le infrazioni rilevanti, a individuare ipotesi esemplificative di un disvalore non tanto riconducibile a uno specifico reato, ma a una compromissione definitiva del legame fiduciario che deve esistere fra datore di lavoro e suo dipendente; che il tentativo di concussione viola in maniera analoga al reato consumato i doveri gravanti sul lavoratore, atteso che le due fattispecie vengono percepite allo stesso modo come incompatibili con la continuazione del rapporto sia all’interno dell’organizzazione, non potendosi più fidare la P.A. di un soggetto che abbia cercato di utilizzare i propri poteri per trarne un vantaggio illecito, sia all’esterno della medesima, alla luce del discredito che la condotta penalmente rilevante, a prescindere dal perfezionamento o meno del reato, diffonde fra i cittadini; che la Corte territoriale, in conclusione, non ha riconosciuto alcun potere di integrazione della P.A., ma ha solo affermato che il tentativo di concussione rientrava fra le ipotesi che, in presenza di una condanna definitiva, imponevano, ai sensi del C.C.N.L., il licenziamento disciplinare.
In Cass. Sez. L n. 23881/2022, esattamente si afferma «[…] Dalla normativa menzionata si evince che la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso si applica, fra l’altro, ai dipendenti che siano stati condannati con sentenza passata in giudicato per il delitto di cui all’art. 317 c.p. Sostiene il ricorrente che detto riferimento sarebbe limitato all’ipotesi di delitto consumato e non esteso anche a quella tentata.
Questa ricostruzione non è condivisibile. Nella specie, viene in rilievo l’interpretazione di un contratto collettivo. La corte territoriale ha ritenuto che il testo del CCNL sopra riportato andasse inteso nel senso che il riferimento (indiretto) all’art. 317 c.p. ricomprendesse non solo il delitto consumato di concussione, ma anche quello tentato, sul presupposto che non vi sarebbe un’ontologica differenza fra le due ipotesi criminali.
Il ricorrente si è limitato sostanzialmente a proporre un’interpretazione alternativa del CCNL in esame rispetto a quella della Corte d’appello di Venezia, il che già di per sé giustificherebbe una pronuncia di inammissibilità del motivo.
Inoltre, si osserva che non vi sono elementi, desumibili dal citato CCNL, che potrebbero giustificare l’interpretazione restrittiva dell’art. 13, comma 6, lett. e), punto 3, del CCNL del 12 giugno 2003 caldeggiata da C. T. Infatti, la disposizione de qua è finalizzata ad individuare fatti criminosi, nella specie particolarmente qualificati perché rientranti nell’ambito dei reati contro la P.A., idonei a fare venire meno in maniera palese e definitiva il legame fiduciario fra l’amministrazione e il funzionario in quanto espressivi di una lesione estremamente grave dell’obbligo di fedeltà, inteso come generale dovere di leale cooperazione del lavoratore nei confronti del suo datore.
Nel caso in questione, sia l’illecito consumato sia quello tentato violano in maniera analoga i doveri gravanti sul lavoratore, atteso che vengono percepiti allo stesso modo come incompatibili con la continuazione del rapporto sia all’interno dell’organizzazione, non potendosi più fidare la P.A. di un soggetto che abbia cercato di utilizzare i propri poteri per trarne un vantaggio illecito, sia all’esterno della medesima, alla luce del discredito che la condotta penalmente rilevante, a prescindere dal perfezionamento o meno del reato, diffonde fra i cittadini.
D’altronde, pur dovendosi tenere conto di alcune differenze strutturali fra il delitto tentato e quello consumato, l’azione posta in essere è in gran parte sovrapponibile, spesso non dipendendo neppure dalla volontà dell’autore dell’illecito il verificarsi dell’una o dell’altra ipotesi.
Inoltre, occorre considerare che il linguaggio utilizzato nella materia de qua nella redazione dei contratti collettivi non è mai del tutto tecnico, tendendo le parti contraenti, più che a qualificare in maniera scientificamente ineccepibile le infrazioni rilevanti, ad individuare ipotesi esemplificative di un disvalore non tanto riconducibile ad uno specifico reato, ma ad una compromissione definitiva del legame fiduciario che deve esistere fra datore di lavoro e suo dipendente.
In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto – e avendo, altresì, la Suprema Corte ritenuto tempestiva l’adozione del licenziamento, rispetto al termine previsto per la durata il procedimento disciplinare in caso di sospensionei – il ricorso del lavoratore è stato respinto, senza statuizione sulle spese di lite, non avendo parte intimata svolto attività difensiva.