Gianni De Michelis: il ministro “ballerino” e il rapporto con Craxi

Lo scorso 11 maggio si è spento, dopo una lunga malattia, Gianni De Michelis. Con la sua morte l’Italia si allontana un po’ di più da quel periodo unico della sua storia che fu la Prima repubblica. De Michelis ne fu parte integrante, attivo in politica nazionale dagli anni Sessanta al 2011. Il veneziano, con il Psi di Craxi, fu tre volte ministro e una volta vicepremier, ma della sua persona spesso si ricordano piuttosto il carattere bizzarro e la passione per il ballo e le donne.

Negli anni Ottanta emerse agli occhi dell’opinione pubblica come vero e proprio habitué delle piste da ballo italiane, al punto che redasse una vera e propria guida sulle migliori. Una sua collaboratrice ricorda invece come De Michelis tendesse a circondarsi di un entourage composto da una cinquantina di donne avvenenti, professionalmente inadeguate all’incarico ma assunte «perché gli piacevano».

Per non parlare di quella volta in cui, alla vigilia dei propri cinquant’anni, organizzò una festa per duecento persone, prenotando un castello vicino Praga. I giornali tuonarono contro – si avvicinava la guerra del Golfo e il ministro degli Esteri faceva baldoria? – e Craxi lo richiamò personalmente: «Fai pure la festa, ma prima ti dimetti». Alla fine, quella festa non s’ebbe da fare.

Ma oggi, della sua attività politica, si ricorda in particolare il coinvolgimento nell’affair Tangentopoli, che vide la sua condanna definitiva per corruzione in merito alle inchieste di quella galassia giuridica riguardanti Enimont e le autostrade venete.

La sua condanna, sospesa con la condizionale, fu una di quelle “celebri” che, alla stessa Prima repubblica che qui si vuole ricordare, contribuirono a dare una grande stoccata. Quella Tangentopoli alla quale proprio De Michelis si riferì più d’una volta definendo il sistema corruttivo e clientelare come «del tutto compatibil[e] con il sistema economico: diciamo quel 3% che è considerata dai direttori dei supermercati come la soglia fisiologica del taccheggio». Una corruzione fisiologica, nelle parole di un De Michelis già settantenne, al Corriere della Sera; una corruzione incarnata in un sistema che, alla caduta del Muro e con la crisi delle ideologie, doveva assolutamente cambiare ma non voleva farlo.

Fu De Michelis a cercare di convincere Craxi a “fermare” Tangentopoli: il leader socialista riteneva che le cose si sarebbero risolte da sole, ma alla fine fu proprio lui a pagarne il prezzo più caro. De Michelis, che Enzo Biagi chiamava «avanzo di balera» per unire le due peculiarità della sua persona pubblica, aveva invece capito l’antifona. E a Craxi, da qualche parte all’inizio di quei turbolenti anni Novanta, disse che «Avevamo Palazzo Chigi, i servizi segreti, il Guardasigilli, i carabinieri: Amato premier, Martelli alla Giustizia, Andò alla Difesa» e, secondo lui, «Potevamo chiudere Tangentopoli in tre mesi […] L’ errore fu non fare subito il decreto per chiudere Mani Pulite, il 4 luglio 1992».

Alla fine, come la storia riporta, le cose andarono diversamente: Mani Pulite fu un successo e caddero molte, moltissime teste che fino a quel momento avevano riempito le fotografie dei rotocalchi politici e gli scranni del Parlamento. Sicuramente, nella mente di De Michelis, il rimpianto per non aver fatto nulla rimase. Diverso tempo dopo, incontrando a Sidi Bou Said un Craxi già non più gradito sul territorio italiano, gli disse: «Se tu avessi mandato me a Palazzo Chigi, quel decreto l’avrei fatto». E chissà, allora come sarebbe andata.

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