39 anni dalla liberazione di Fabrizio De André e Dori Ghezzi dopo il sequestro dell’“Anonima Sarda”

Sono passati trentanove anni da quel 21 dicembre 1979 in cui Fabrizio De André e Dori Ghezzi vennero rilasciati dai propri rapinatori. L’evento, come è facile intuire, ebbe un’importante eco mediatica e a esso il cantautore genovese dedicò la canzone “Hotel Supramonte”, tratta dall’album “L’indiano” del 1981.

La prima visita di De André in Sardegna risale all’estate del 1968 e fu a Portobello di Gallura, una località poco frequentata dalla movida dell’epoca e per questo punto di ristoro prescelto dal cantautore. In poco tempo Fabrizio finì per innamorarsi della Sardegna, con i suoi segreti e le sue bellezze naturali, tanto da decidere nel 1976 di trasferircisi insieme alla compagna Dori Ghezzi, acquistando 151 ettari di terreno nella zona di Tempio Pausania, in Gallura, dove presto sorse un vero e proprio agriturismo che regalò al cantante momenti di infinità serenità nonché la riscoperta del valore della terra.

È il 27 agosto 1979 quando l’idillio bucolico venne interrotto dall’intrusione nella tenuta della coppia di tre banditi che, intorno alle 23, aggredirono Dori Ghezzi e minacciarono De André con un fucile, scortandoli fuori dall’abitazione e intimando loro di salire nella Citroen Diane 6 parcheggiata proprio fuori dalla dimora. Da lì ebbe inizio l’esodo dei due cantanti, incappucciati e impauriti, fino alla zona tra Monti e Alà dei Sardi, dove la vettura si fermò; la coppia a quel punto venne affidata a un quarto bandito, che dopo ore di camminata tra superfici impervie e aree scoscese li guidò fino a Sa Linna Sicca. Il periodo di prigionia fu scandito da tormenti di ogni tipo, dal dolore provocato dalle fasce, poi sostituite con delle catene, fino al freddo glaciale che caratterizzava la zona in autunno e in inverno; le condizioni erano talmente al limite della sopravvivenza che lo stesso De André avrebbe successivamente ammesso di aver conservato per tutto il tempo il tappo di un contenitore, in caso le energie lo avessero abbandonato.

Quando i delinquenti inviarono alla famiglia del cantautore genovese una lettera in cui chiedevano 2 miliardi di lire per il riscatto della coppia, il parroco del Sacro Cuore di Tempio don Salvatore Vico fu scelto come delegato, senza tuttavia sortire gli effetti sperati durante l’incontro con i rapinatori, i quali di fronte alla richiesta del religioso di rivedere i termini del riscatto abbandonarono le trattative. In un secondo momento, verso novembre, le contrattazioni vennero riprese da Gesuino Dessì e Francesco Giuseppe Pala, che successivamente si sarebbe scoperto essere il basista del rapimento, ma ancora una volta gli incontri con i malviventi si risolsero in un nulla di fatto. Il terzo tentativo fu portato avanti ancora da don Vico e Giulio Carta, un agiato negoziante di Orune: grazie ai contrasti interni alla banda relativi ai diversi modi di voler procedere con le trattative nonché all’intermediazione (questa volta proficua) del sacerdote, si pattuì il rilascio della coppia per un riscatto del valore di 550 milioni di lire più 50 milioni da recapitare in seguito alla liberazione (somma che poi lo stesso Giulio Carta rubò).

Dopo 117 giorni di prigionia, Fabrizio De André e Dori Ghezzi vennero rilasciati a poche ore di distanza l’uno dall’altra. Il giorno di Natale del 1979 i Carabinieri procedettero all’arresto di Francesco Pala e di suo fratello, poi scagionato; l’11 marzo 1980 venne arrestato anche Marco Cesari, il veterinario che alla Banca Popolare di Chiusi aveva versato 13 milioni di lire appartenenti alla somma per il riscatto. Alla fine i banditi risulteranno essere dieci, tutti appartenenti all’“Anonima Sarda”.

L’epopea di Fabrizio De André e Dori Ghezzi terminò in quel dicembre del 1979 dopo aver tenuto per quattro mesi l’Italia intera con il fiato sospeso. La vicenda sarebbe diventata presto una delle pagine più buie del Belpaese, seppur con un lieto fine, ispirando e continuando a ispirare i media nazionali (dal programma Blu Notte – Misteri italiani a La Storia siamo noi), tutti avvinghiati metaforicamente a quel verso di “Hotel Supramonte” ancora in grado di rievocare quei giorni: “passerà questa pioggia sottile come passa il dolore”

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