WISH YOU WERE HERE Il cratere dell’assenza

Wish you were here dei Pink Floyd è indubbiamente uno dei brani più celebri e amati di tutti i tempi. Pubblicato, come quarta traccia dell’omonimo album, nel settembre del 1975, rappresenta lo straordinario esito della fase più critica della band britannica. L’inarrivabile successo di The Dark Side Of The Moon (1973) aveva infatti, da un lato, risucchiato le energie dei Pink Floyd e, dall’altro, generato altissime aspettative nei discografici, producendo un vero e proprio impasse creativo. La situazione era, inoltre, aggravata dall’uscita di scena, nel 1968, del brillante leader e fondatore, Syd Barrett.

Quest’ultimo, espulso o, meglio, escluso dalla band cui aveva dato vita, in seguito all’acutizzarsi di seri disturbi mentali (schizofrenia e tossicodipendenza), aveva realizzato due album da solista, firmato, nel ’72, un documento di rinuncia sui diritti sui successivi progetti dei Pink Floyd e, infine, insofferente dei ritmi e delle richieste del mercato discografico, abbandonato la carriera musicale. In breve tempo, la malattia ne stravolse l’aspetto fisico e lo isolò sempre più dal mondo esterno, creando un muro di incomunicabilità che nessuno era in grado di abbattere. Per lui, i suoi ex compagni avevano già composto e inciso Shine on you crazy diamond, prima traccia dell’album che stavano faticosamente completando, quando, il 5 giugno 1975, mentre erano in studio, ricevettero una strana visita, da parte di un uomo grasso, senza capelli né sopracciglia, con indosso un impermeabile, dal quale spuntava uno spazzolino da denti, e due buste della spesa in mano, uno sconosciuto. Uno sconosciuto che rispondeva al nome di Syd e chiedeva di poter registrare un assolo di chitarra. A stento e con dolorosa meraviglia riconosciutolo, i compagni lo invitarono a restare con loro per il pranzo. Barrett rimase, ma niente di lui o, almeno, della persona che avevano conosciuto era lì con loro. C’era solo un pazzo, ossessionato dalla pulizia dei denti e che gettava qua e là frasi completamente sconclusionate. Certo, sarebbe stato proprio bello se lui fosse stato davvero lì! Ma non c’era. E, così come all’improvviso era arrivato, di punto in bianco se ne andò e non si fece più vedere. Da quel giorno, la canzone che stavano incidendo e che avevano fatto ascoltare a quel bizzarro ospite, Wish you were here, appunto, strinse un legame ancora più forte con la figura di Syd o, meglio, con il suo simulacro. Roger Waters propose di far ruotare tutto l’album attorno al tema dell’assenza. Ed esso uscì, nel settembre dello stesso anno, venduto dentro ad una busta nera asettica, simile a quelle della spazzatura, ma recava una copertina assai eloquente. Sullo sfondo dei Warner Bros Studios, due uomini d’affari (due stuntmen che riprodussero la scena dal vero, sfiorando la tragedia) si stringono la mano. Uno dei due è in fiamme, mentre l’altro non fa una piega: una velata denuncia contro l’inumanità dell’industria musicale, concentrata sullo sfornar ottime merci, senza badare alla qualità artistica né alle esigenze e alla libertà degli artisti e, insieme, un’amara presa di coscienza dell’incomunicabilità cui le convenzioni sociali e la paura di affidarsi a qualcun altro ci condannano. Si tratta di un’allegorica autocombustione che simboleggia l’impossibilità di condividere qualcosa di autentico e la sensazione di essere soli in un rapporto.

Il brano da cui prende il titolo l’intera raccolta, composto da Roger Waters, è costruito su una serie di metaforiche domande, che impongono una scelta tra due percorsi antitetici: Paradiso o Inferno (bene o male), cieli azzurri (gioia) o dolore, un campo verde o una fredda rotaia (natura o artificio), un sorriso o un velo (espressione falsa, di circostanza), eroi o fantasmi (coraggio o paura), ceneri o alberi (morte o vita), aria calda o fresca brezza (fastidio o sollievo), comodità (abitudine) o cambiamento e, soprattutto, un ruolo da comparsa in una guerra o uno da protagonista in una gabbia (una composta libertà o un’anarchica schiavitù). Ciò di cui si sente e soffre la mancanza è la concreta capacità di mettersi in gioco, entrare in azione, partecipando delle trasformazioni della vita, anziché subirle, scegliere di esserci. La rinuncia scava un vuoto che mina dall’interno il rapporto con se stessi e, di riflesso, quello con gli altri, sempre più lontani, irraggiungibili: «Siamo solo due anime perse / che nuotano in una boccia per pesci, / anno dopo anno, / correndo sullo stesso vecchio terreno, / cosa abbiamo trovato? / Le stesse vecchie paure. / Vorrei che tu fossi qui».

(Vorrei che IO fossi qui)

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