Virgilio e Beatrice nella Commedia dantesca!

Il viaggio dantesco è interpretabile come una progressiva approssimazione a Dio. Durante il ricco e complesso percorso il Sommo Poeta ha beneficiato di tre guide diverse: Virgilio, Beatrice e Bernardo di Clairvaux. Nell’Inferno Virgilio, simbolo della ratio naturalis, si presenta a Dante come sua guida temporanea e gli prospetta, già prima del viaggio, il momento del grande salto teologico: «A le quai poi se tu vorrai salire / anima fia a ciò di me più degna, / con lei ti lascerò nel mio partire» (Inf. canto I, vv. 121-123).

Ci sarà un punto durante il viaggio ultraterreno in cui Dante perderà letteralmente la ragione. Non si tratta di un impazzimento, ma di un superamento dell’orizzonte a portata dell’intelletto umano. Oltre un certo limite, infatti, la rassicurante ragione – pronta sempre a chiarire, organizzare e comprendere – deve necessariamente lasciare il posto ad un sapere diverso, più acuto, penetrante e basato su una forza capace di trascendere le limitate capacità umane. Tale forza è Dio che, con la sua Rivelazione, fonda una conoscenza diversa, la teologia, i cui principi non sono semplicemente colti dall’intelletto ma sono compresi all’interno di una logica relazionale (la logica del credere in Deum, direbbe Tommaso) che è per l’appunto l’essenza della fede. Così, nel canto XXX del Purgatorio Virgilio, il «dolcissimo patre» scompare per lasciare il posto a Beatrice, figura emblematica paragonata poeticamente in modo assai incisivo al sole nascente. Questa immagine non è da sottovalutare: il sole nascente, infatti, è quella forza infinita che sovrasta col suo fulgore le limitate capacità del lume naturale della ragione. È un passaggio obbligato, questo, che non nega quanto la ragione è andata costruendo nel lungo viaggio compiuto, ma semplicemente lo supera per conseguire una visione più ampia e penetrante. Ne abbiamo una perfetta attestazione nel canto XVIII del Purgatorio quando è lo stesso Virgilio – nell’ambito di una discussione sull’amore e sul libero arbitrio – a riconoscere i propri limiti a Dante: «Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta / pur a Beatrice, ch’è opra di fede» (vv. 46-48). È facile notare come la ragione simboleggiata da Virgilio non sia equiparabile in alcun modo all’immagine moderna della ratio autosufficiente che si pretende capace di giungere al Vero senza aperture e forze ulteriori. Quella di Virgilio è, invece, un’immagine della ragione aperta e fecondata dalla grazia, che fin da subito riconosce i suoi limiti, nella piena consapevolezza delle sue forze e delle sue possibilità: «Virgilio è la “ragione”, anche se una “ragione” piuttosto singolare, visto quanto nella Commedia il Virgilio dantesco – ovviamente non quello storico – discorra, lui “infedele”, del mondo della fede e del Paradiso, dimora di Beatrice, dove la fede è diventata contemplazione, e quanto sorprendentemente egli sia docile al concerto di grazia, in atto per la mediazione delle “tre donne benedette” (Inf. II, 124)» (Inos Biffi, “Di luce in luce”. Teologia e bellezza nel Paradiso di Dante, Jaca Book, Milano, 2000, p. 42).

Gratia non tollit naturam, sed perficit: Virgilio è l’immagine della ragione perfezionata dalla grazia. Per questo, però, non si snatura ma si realizza in un afflato metafisico via via sempre più forte fino ai limiti stessi dell’umana speculazione. Dante accetta fiducioso di seguire Virgilio fin da subito: «Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: / tu duca, tu segnore, e tu maestro / Così li dissi; e poi che mosso fue, / intrai per lo cammino alto e silvestro» (Inf. II, vv. 139-142) e poi piange quando, giunto al limite percorribile della ragione, cede il posto a Beatrice (fede): «Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die’mi / né quantunque perdeo l’antica matre, / valse a le guance nette di rugiada, / che lacrimando, non tornasser atre» (Purg., XXX, vv. 52-57). Persino il posto intorno a sé cioè il Paradiso Terrestre, pregno di santità e bellezza soave, ha potuto impedire a Dante di piangere per la perdita di Virgilio, il duca sapiente e lungimirante. È un fatto antropologicamente assai rilevante. Dante è l’immagine del filosofo così ancorato alla ragione filosofica che, pur essendo graziato e reso partecipe dei misteri divini, piange a dirotto per l’abbandono della ratio. Quanto è legato l’uomo alla sua ragione e quanto può essere prigioniero del suo orizzonte? Quanto può essere persuaso della sua illusoria onniscienza e depistato dalle sue apparentemente infinite possibilità? Quanto può amare la propria ragione per piangere così drammaticamente al momento del suo abbandono? La magnificenza poetica di Dante esprime in modo assai perfetto, per simboli e allegorie, il pervasivo attaccamento alla ratio e quindi il senso di profondo spaesamento che attanaglia colui che, giunto al vertice delle sue umane possibilità, teme il necessario abbandono alla fede per poter proseguire oltre.

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