Vincenzo Cinaski, l’eternità e l’addio alla poesia con “Il più bello di tutti”. Ma speriamo sia solo un arrivederci…

La verità è che non si può recensire il libro di un amico, si rischia – a ragion veduta – di essere tacciati di disonestà intellettuale. Perché è questo che ormai Vincenzo “Cinaski” Costantino è per me, per un sacco di lettori. Anche se non sappiamo quale sia il suo colore preferito o cosa gli piaccia mangiare a colazione, ormai fa parte delle nostre giornate da anni, le sue parole ci accarezzano il cuore e le andiamo a ricercare per alleviarci il dolore. Ci fa sorridere, commuovere, arrabbiare. Scorrendo i suoi versi, ci chiama in causa e scopre i nostri difetti prima ancora che ce ne accorgiamo. Non venitemi a dire che non è proprio questo, che fa un amico. E un amico puoi anche non vederlo e sentirlo spesso ma, quando capita l’occasione, non si può dire di no. Si ha bisogno entrambi della rispettiva presenza e, di solito, con Cinaski lui parla, e beve, e sorride sornione, e noi ascoltiamo, incantanti, e battiamo le mani.

Questi magici momenti stanno di nuovo succedendo nel recente tour che sta affrontando il giro per l’Italia per la presentazione della sua ultima fatica, “Il più bello di tutti” (edizioni Marcos y Marcos) e che lo porteranno – come sempre – in tantissime città. Qualche volta è da solo, altre volte accompagnato da musicisti originari del luogo dove si esibisce (come Giovanni Parillo a Vitulazio o Luis Di Gennaro ad Avellino) o da altri tipi di performance, come il live painting (sempre nella data avellinese del Tilt). La sua voce è, come sempre, profonda, calda, diretta. Il suo modo di usare le parole è unico. Sono sempre “corpose”, presenti, mai lasciate al caso eppure non artefatte. Risuonano nell’aria come fossero una canzone eppure arrivano al punto come un discorso diretto.

D’altronde, Vincenzo non le manda mai a dire nemmeno nella vita, perché dovrebbe fingersi altro da sé nella sua arte? Infatti è senza troppi giri di parole che, nel corso delle presentazioni, comunica che il suo ultimo “figlio”, “Il più bello di tutti”, è stato battezzato così perché non ce ne sarà un altro.

Superati quei lunghissimi secondi di apnea cardiaca, gli chiediamo: ma davvero? Possibile che Cinaski non scriverà più un altro libro? «La stanchezza dice che è così, almeno di poesia. Poi magari ce ne sarà un altro bello di prosa, di teatro, di musica. Vediamo che succede… però la poesia mi ha stancato».

Altra batosta. Com’è possibile che Cinaski si sia stancato della poesia? «Ma non mi ha mica stancato la mia, ovviamente. Mi ha stancato la situazione in cui la poesia versa, perché si è iniziato a travisare cosa sia, e si è scatenato il dibattito su cosa la poesia debba o non debba essere. Come quando si era più piccoli e si combatteva la poesia dell’accademia e ci dicevamo che Pascoli, Leopardi e Foscolo, insomma i grandi, andassero distrutti a tutti i costi. Ma non è questo il modo di fare poesia. Va accettato tutto quello che è poesia, a partire dai primi suoni dei tamburi, che già lo erano. Poi devi capire dove c’è emozione e dove no e imparare a scegliere. Ci sono anche poesie brutte di Pascoli, poesie brutte di Leopardi e poesie brutte di Foscolo. Non è che ogni cosa è bella perché è firmata, se bastasse la firma allora anche il bugiardino del Maalox sarebbe poesia se firmato da qualcuno di autorevole». Per Costantino capire la poesia significa essere in grado di fare le dovute distinzioni: «Capire quando arriva l’emozione, riuscire a tradurla, e non scrivere tanto per scrivere, altrimenti siamo solo davanti ad un’eiaculazione continua di zucchero e miele. Ma per fortuna non è un mondo di diabetici, altrimenti saremmo tutti morti. Però oggi stiamo morendo, di poesia».

Allora perché mollare invece di combattere? «Perché a 20 anni combatti, a 55 anche basta. Io il mio l’ho fatto e se non l’hanno capito non ci posso fare niente. Se dopo 30 anni che combatto non si è capito che lotta sto facendo, non ci posso fare niente. Non sono Masaniello».

Ma se questo è l’ultimo tour di Cinaski e la poesia, se questo è il suo ultimo libro, è abbastanza probabile che qualcuno si imbatterà in lui per la prima volta e dovrà dirgli contemporaneamente sia “Salve” che “Addio”. Cosa vuole lasciare, quindi, il poeta Vincenzo Costantino in questi “ultimi primi” incontri? «Il

desiderio, nel senso di peccato, ma non quello biblico. Voglio proprio far dire Ah “peccato che…!”. Voglio lasciare il rimpianto, come diceva De André. Succede così. Non sempre si è in giro, ma io ci sono stato tanto, e chi non è mai riuscito ad esserci ha perso un’occasione. Inoltre sono un po’ permaloso ma anche coerente. Ho dato tante possibilità per condividere, non si può aspettare di arrivare all’estremo. Se per 8 volte sono stato in una città e uno non ce l’ha mai fatta, e alla nona che non verrò mi sento dire “Stavolta potevo venire”, non posso sentirmi colpevole io».

Nonostante l’amarezza e la voglia di posare la penna, almeno per la poesia, non scoraggia le nuove leve. Con la consueta ironia: «Ad un ragazzo che voglia fare poesia dico di farla, perché per com’è intesa oggigiorno è facilissimo. Ma per farla “bene” devi sentirla bene, viverla bene».

Insomma, come si fa per farla “bene”, la poesia? «Non è che ti metti al tavolo e scrivi la poesia, non c’è una ricetta, altrimenti saremmo tutti poeti ma non andremmo oltre i pensierini delle scuole elementari. Per farla bene, perché per te sia buona, perché risulti quella cosa che vorresti leggere, ti deve entrare dentro. La poesia ti deve scuotere. Ti fa piangere anche quando non dovresti perché sei allegro, ti fa ridere mentre in realtà sei triste. Quella è la poesia. Quell’emozione che quando arriva sconvolge e distrugge e tu non puoi fare a meno di tradurla, perché devi restituirla a chi non se n’è accorto mai. È il calzascarpe del passo doloroso, e rende dolce sia la calzatura che il cammino. Oppure lo rende più faticoso, dipende da come uno la legge. Sta a noi fare in modo che sia un’arma meravigliosa che è. Solo che molto spesso nessuno sa combattere la guerra poetica. La poesia deve salvare il mondo o per lo meno tenerlo in bolla. Questi tempi sono l’esempio lampante di quanto bisogno c’è si poesia, di quanto serva».

“Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”, diceva Brecht. Noi, invece, ne abbiamo un disperato bisogno, ed esattamente come Brecht, anche Cinaski non la ritiene una cosa positiva, quanto piuttosto una mossa disperata: «Oggi l’eroina di turno è la capitana tedesca di una nave piena di disperati e noi stiamo tutti a celebrarla perché ne abbiamo bisogno, perché ci salva coscienza per un attimo. Mentre un altro tipo di eroina sta rovinando il mondo nelle province delle nostre città e a salvare quelle coscienze, anzi, quelle vite, di ragazzini che se la stanno giocando a 2 € a dose, non ci pensiamo nemmeno».

Siamo affamati di grandi azioni, ma non abbiamo strutture, né garanzie. Inseguiamo i click e la spettacolarizzazione sui social e, per un momento, ci sentiamo appagati. Ma Cinaski, che ne ha sempre capito la potenzialità in termini di diffusione di informazioni e cultura ed è stato tra i primi della sua generazione ad usarli per far circolare i suoi lavori, si è stancato anche di loro. O meglio, del fatto che con superficialità e mancato controllo, il web si appropri delle sue parole senza riconoscergliele, come stile “citazionista” del nuovo millennio fa: «La cosa che mi fa più male non è tanto la leggerezza di chi non approfondisce ma non sa neanche chi sono, quella ci può stare. Ormai “lo dice il web” e funziona così. Ma chi mi conosce e riporta lo stesso, senza la mia firma, mi delude, mi fa male. È uno schiaffo in faccia, perché chi lo sa che quella poesia è mia e non mi viene attribuita, anche solo in un suo passaggio, dovrebbe scattare come io farei per Pavese o Carnevali o Piero Ciampi, per quelli che ho amato di più e non si possono difendere perché sono morti, perché non vanno dimenticati, le cose loro son loro, ne hanno buttato sangue come l’ho buttato io. Altrimenti è assenza di amore e questo seguito è solo fanatismo che non mi serve e non mi interessa. Lo lascio agli idoli della musica, io voglio affetto, complicità. Se capita una cosa del genere voglio essere tutelato. Oggi sono vivo e ce la faccio anche da solo, ma quando non ci sarò più vorrei che lo facesse per me mi ha amato. Non è presunzione. Se una poesia è mia è mia e deve essere mia per l’eternità, perché è questo quello che mi interessa: non il successo, ma l’eternità. Che fra 100 anni ancora si leggeranno “Le cento città”, o “Il bar” o “Poesia civile”, altrimenti tutto questo non è servito a niente».

Il nervo è troppo scoperto adesso, se glielo dicessi non mi crederebbe che è servito eccome. A me, a tanti altri. E che nel nostro piccolo glielo riconosceremo e lo difenderemo sempre. Perché, come ama dire nella poesia che da sempre legge per ultima nei nostri incontri, quella con cui ci saluta, “Guardando il mare”, « Ci

sono persone scritte al contrario. Puoi leggerle solo da dentro. Allora, ci devi entrare». E noi gli saremo sempre grati di averlo fatto con noi.

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