Valerio Bispuri – Fotoreporter

Chi sono e come vivono le persone che mangiano, lavorano, dormono in una delle “istituzioni totali” per antonomasia: il carcere? Il termine “istituzioni totali”, ricordiamolo, è stato usato per la prima volta dal sociologo statunitense Erving Goffman per designare un luogo dove un gruppo di persone condivide gli spazi per un lungo periodo di tempo, senza potersene allontanare liberamente.

A questa domanda dà una risposta il fotoreporter Valerio Bispuri nel suo libro “Prigionieri” e con la raccolta di fotografie “Encerrado”. Una risposta che vuole essere antropologica, quindi descrittiva, e non interpretativa, giornalistica né tanto meno “politica”. Nel suo lavoro di fotografo, Bispuri ha visitato 74 carceri sudamericane in 10 anni e 10 penitenziari italiani in 3 anni. Un viaggio “dietro le sbarre” che lo ha portato a visitare carceri di massima sicurezza, come Poggioreale o l’Ucciardone, colonie penali come quella di Isili in Sardegna, istituti nuovi come il carcere di Capanne a Perugia, carceri di provincia come quello di Sant’Angelo dei Lombardi, il “braccio” femminile di Rebibbia e San Vittore.

La descrizione di Valerio Bispori è quella della vita quotidiana nelle prigioni. È entrato in contatto con i detenuti e le detenute chiedendogli di aiutarlo a “entrare nella loro dimensione”, di rendere quel reportage fotografico un progetto condiviso. E ha vinto resistenze, timori, vergogna. Le storie che narra attraverso le foto sono “fermi immagine” in bianco e nero e sono la storia di ciascuno/a; un momento di vita, uno stato d’animo, un istante di quotidianità.

Fuori dal carcere, questa è una realtà sconosciuta ai più.

Nel carcere, dice Bispuri, ha trovato amore, condivisione, tolleranza, solidarietà. Tutte cose che aiutano a sopportare le pene che queste persone stanno scontando. Una umanità che serve a tutti/e, ma soprattutto a coloro che hanno davanti a sé molti anni di carcere e che altrimenti faticherebbero a vedere una luce di speranza nel proprio futuro. A evitare episodi di autolesionismo fino ad arrivare al suicidio. E poi ci sono le famiglie, che aspettano fuori dalle celle e che sono l’ancora di salvezza per molti/e.

La solidarietà e le variegate espressioni di umanità che ha visto, dice Bispuri, le ha incontrate in tutte le realtà che ha visitato. Soprattutto in Sudamerica, però, ha potuto apprezzarne la portata: i legami che si creano nelle carceri sono molto forti e profondi fra i prigionieri (anche se nelle prigioni sudamericani è più pronunciata la violenza nelle carceri). Molto più di quelli italiani ed europei. E molto più presenti e pronunciati nelle realtà femminili, dove è più sentita la voglia di stare insieme, di fisicità, di legame. Poche si isolano, optando per la solitudine e il distacco fisico ed emotivo.

In carcere, dice, ci sono persone con un diverso background, con storie di vita particolari, esperienze, percorsi differenziati; due però sono le situazioni che maggiormente descrivono coloro che finiscono dietro le sbarre:

– le persone veramente criminali. Quelle che hanno un’ampia storia di criminalità alle spalle; che vengono da famiglie criminali e crescono in ambienti malavitosi,

– le persone che hanno avuto un momento di follia nella loro vita: c’è una fetta grande di persone che non ha un percorso criminale alle spalle, ma solo un momento di difficoltà o di follia, un vero e proprio blackout della mente.

Di persone appartenenti a questo secondo caso ne ha incontrate diverse durante il suo servizio fotografico, condividendone narrazioni, spazi, pasti. È la storia di persone ordinarie, quindi di chiunque di noi, che a un certo punto della propria vita, perde il controllo e commette un reato. C’è colui che si è ubriacato e ha ucciso delle persone imboccando l’autostrada contromano, oppure, di chi ha avuto una banale discussione condominiale che è poi degenerata in omicidio.

Il lavoro di Bispuri ha portato l’occhio di chi non ha mai conosciuto il carcere a vedere questi prigionieri come “persone”. A “narrare, conoscendo” dice lui.

Il progetto però non si ferma qui.

Il racconto fotografico ha riguardato anche i consumatori di sostanze stupefacenti. In Argentina, per esempio, ha documentato, attraverso le immagini, la parabola di vita discendente dei consumatori e delle consumatrici di “PACO” (contrazione del termine “Pasta base di cocaina”). La droga dei poverissimi, il cui consumo è iniziato in occasione del default dello Stato, e continua ancora oggi, coinvolgendo fasce diverse della popolazione e i Paesi confinanti. Una droga il consumo provoca uno stato di semi-catatonia, danni permanenti al fisico e alle funzioni cognitive e psicologiche di coloro che ne fanno uso. Fino a causarne alla morte in poco tempo.

L’attenzione dell’autore è oggi rivolta a un altro progetto: quello sulla sanità mentale. Cosa sentono, cosa provano, perché si sono ridotti così, qual è la realtà attorno al disagio mentale?

Le immagini fotografiche scattate da Valerio Bispuri sono impressionanti e molto espressive.

Ma quali sono le qualità che un fotografo deve avere per fare quello che fa lui?

Secondo l’autore, ci vogliono pazienza e coraggio per fare questo lavoro: il coraggio di affrontare le cose, la pazienza di non pretendere subito i risultati, ma di saper aspettare.

Oltre a questo è necessario documentarsi, conoscere meglio le cose che si stanno per fotografare. Non ci si improvvisa, insomma. Ci vuole professionalità.

E, aggiungerei, una grande carica di umanità per saper vedere l’umanità dell’altra persona.

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