Un’interpretazione sociologica della comunicazione banca-cliente: la “finestra di Johary”.

Introduzione.

La “comunicazione” è, a tutt’oggi, un concetto dalle mille sfumature, tante quante sono le scienze che ne hanno proposto una definizione. Coesistono infatti tante “idee” di comunicazione, a seconda dell’approccio scientifico che ne ha tentato una interpretazione: la linguistica, la semiotica, la psicologia, la sociologia, la cibernetica. Si contano, come hanno messo in evidenza gli studiosi statunitensi Dance e Larson2, circa 126 descrizioni del termine. Diversissime fra loro, concordano su un unico punto: la comunicazione è un processo.

I paradigmi interpretativi.

La principale difficoltà nel classificare la “comunicazione” risiede nella laboriosa individuazione dell’oggetto empirico che si tenta di definire. Un esame delle molte definizioni che ne sono state date, a seconda dell’oggetto di studio individuato, consente di racchiudere le definizioni entro un arco i cui estremi sono dati dal paradigma informazionale e dal paradigma relazionale.

Il paradigma informazionale è quello più vasto e generico, che comprende anche la comunicazione non umana (ad es. quella che avviene fra macchine) e si sostanzia in un processo a senso unico: nella diffusione delle informazioni e nella trasmissione di significati. Appartengono a questo paradigma concezioni anche molto distanti fra loro che hanno come punto in comune la visione di un essere umano che “appare come un soggetto il quale, più che agire in piena autonomia, è egli stesso agito dalla struttura sociale, secondo un corredo psicologico o biologico necessario ed eterno3. Appartengono a quest’area:

  • la teoria della comunicazione vista come “trasferimento” di una proprietà, di una risorsa o di una condizione da un soggetto a un altro. E’ la definizione più generale che si possa dare, in cui la comunicazione è de-contestualizzata, de-umanizzata, de-socializzata;

  • l’interpretazione della comunicazione come l’influenza determinata da un’azione di un essere umano o di un organismo su un altro essere umano od organismo. Rispetto alla visione precedente, si pone l’accento su una modificazione osservabile del comportamento causata da un fattore esterno (i.e. la comunicazione), che rivela la forte influenza su questa metodologia della scuola behaviorista e dello schema classico stimolo/risposta. Ne restano esclusi gli aspetti interiori della comunicazione, quali la “motivazione” e gli effetti cognitivi generati dal processo, nonché gli aspetti culturali che differenziano la comunicazione umana da quella animale;

  • la comunicazione come scambio di valori sociali effettuato seguendo determinati canoni. E’ l’approccio proposto dalla scuola strutturalista e da Claude Lévi-Strauss, nel tentativo di conciliare l’esistenza di leggi universali per la società umana con la particolarità dei singoli momenti storici. Ciò che rileva è la costanza delle relazioni che legano le variabili e che Lévi-Strauss chiama “strutture dello spirito umano”: le società non sono altro che insiemi di individui che si relazionano attraverso il linguaggio, le variabili non verbali, le strutture mentali, la cultura, le costruzioni universali;

  • la comunicazione come “trasmissione” di informazioni da un soggetto a un altro attraverso “veicoli” di varia natura. Emerge subito la differenza di approccio rispetto alla teoria del “trasferimento”: non si parla più di “cose” che vengono scambiate, ma di “informazioni”. Riscoprendo l’etimo latino della parola “informazione”, informo “plasmare”, si pone l’accento sulla posizione privilegiata del comunicante e sulla necessità che tra comunicante e ricevente vi sia una uniformità dei codici di comunicazione che deriva dalla comune esperienza sociale. “L’informazione rappresenta la libertà di scelta che si ha nel costruire un messaggio4; costituisce un mezzo per veicolare un contenuto. In questa prospettiva, la teoria pone grande attenzione al contenimento della “dispersione delle informazioni” e alle cause che lo determinano, nel tentativo di ridurne l’incertezza e di aumentarne l’efficacia.

Il secondo paradigma, quello relazionale, è invece più ristretto e selettivo, comprendendo solo il processo che risulta nella formazione di un’unità sociale partendo da unità singole. Punto principale di questo approccio è il carattere agglomerante dell’attività di comunicazione, fondamento della socialità. Ne sono espressione la teoria della comunicazione vista come :

  • condivisione di un medesimo significato fra due o più soggetti. Questa interpretazione supera la concezione della comunicazione come procedimento guidato da sovrastrutture e dai condizionamenti ambientali, per considerare il “risultato” dell’agire comunicativo, ossia, il suo carattere teleologico. L’interazione sociale consente ai soggetti partecipanti di scambiare un gran numero di informazioni, adottando un sistema di segnali condiviso e reciprocamente comprensibile, anche se l’interpretazione finale può essere dissonante fra i due;

  • relazione fra due o più individui che dà origine a un’unità sociale. Rispetto alla teoria precedente, in cui l’accento è posto esclusivamente sulla condivisione di un sistema di linguaggi e segnali, assume rilievo la “comunione” di modelli comportamentali e di stili di vita.

L’excursus teorico che abbiamo tracciato ci consente di richiamare l’attenzione su alcuni elementi costituitivi del fenomeno “comunicazione”, non sempre ben delineati nei due paradigmi “estremi”.

Il soggetto principale della sociologia della comunicazione è infatti il singolo, con il proprio bagaglio di conoscenze, relazioni, motivazioni, interessi. Ciò che rileva è infatti l’individuo considerato nel suo agire sociale, in relazione agli altri e alla comunità di cui è parte: la comunicazione ha infatti luogo fra e all’interno dei diversi ruoli sociali, allo scopo di rendere il mondo uno spazio “agito” socialmente. Questa caratteristica deriva dal bisogno del singolo di soddisfare le proprie esigenze entrando in relazione con gli altri esseri umani, condividendo, “comunicando”. Tuttavia, gli elementi comunicativi non sono sempre “oggettivi”, “univoci” nella loro interpretazione. Al contrario, accade spesso che essi siano composti e continuamente rinegoziati fra le parti all’interno dei diversi contesti di scambio, in cui l’ambiente sociale e culturale non è estraneo alla costruzione del loro significato; non ne costituisce cioè un mero fattore di disturbo (i.e.“rumore”). La complessità dei codici e dei sotto-codici caratterizza il processo comunicativo condizionando l’elaborazione e l’interpretazione del messaggio.

La comunicazione appare fondamentalmente come un processo graduale, circolare, binario che porta a caratterizzare l’atto comunicativo come una “costruzione”, sia della conoscenza sia delle relazioni sociali sottostanti. Il paradigma costruzionista pertanto offre all’interprete il vantaggio di prendere in considerazione i molteplici aspetti che intervengono nella comunicazione fra due soggetti: la volontà e la motivazione dei singoli, il processo di costruzione di senso all’interno della diade5, ma anche i fattori esterni che condizionano i loro “gradi di libertà” comunicativa e interpretativa. Essendo la costruzione dei significati sostanzialmente un’esperienza intersoggettiva, essa non può avvenire se non attraverso la comunicazione6, mediata dalla realtà sociale di riferimento.

Gli elementi costitutivi della comunicazione.

Il processo dinamico che porta alla “costruzione” dell’atto comunicativo si compone, esattamente come un “puzzle”, di numerosi tasselli interrelati. Individuare chiaramente queste componenti aiuta a delineare l’ambito di osservazione e il dispiegarsi del fenomeno comunicativo.

Nonostante l’ampia varietà degli elementi costitutivi e dei “modelli” interpretativi elaborati dai diversi autori, permane la centralità di alcuni schemi – ormai dei “classici” -, che sia pure a rischio di un certo “immobilismo” strutturale, aiutano a delineare una configurazione sufficientemente chiara ed essenziale del processo comunicativo.

Iniziamo con lo schema proposto dal sociologo statunitense Harold Lasswell che, per descrivere l’atto comunicativo, si basa su cinque serie di domande:

  1. Chi dice?

  2. Che cosa?

  3. Attraverso quale canale?

  4. A Chi?

  5. Con quali effetti?

Ciascuna domanda pone l’accento su aspetti diversi del procedimento: le caratteristiche dell’emittente; il contenuto del messaggio; lo strumento utilizzato per comunicare; le caratteristiche del ricevente; le conseguenze osservabili dello scambio comunicativo. Ciò che manca nell’approccio di Lasswell è l’accenno al feedback proveniente dal ricevente e diretto all’emittente: lo stimolo, originato dalla sorgente/fonte è, infatti, l’unico momento rilevante, mentre la trasmissione risulta essere diretta, unidirezionale, univoca. A fare da collante vi è l’intenzionalità della comunicazione che produce effetti immediati e visibili sul ricevente. Il modello, inoltre, trascura qualsiasi influenza dell’ambiente sociale, economico, culturale sul processo di comunicazione: i due attori sono atomi isolati il cui ruolo è circoscritto al singolo atto comunicativo. Nel processo di interpretazione del messaggio trasmesso non entrano in gioco i rapporti sociali e culturali che collegano i due soggetti-attori.

Lo schema lasswelliano è stato poi successivamente rivisto da Denis McQuail, che ne ha proposto una versione significativamente modificata:

  1. Chi comunica con chi?

  2. Perché si comunica?

  3. Come avviene la comunicazione?

  4. Su quali temi?

  5. Quali sono le conseguenze della comunicazione?

La principale innovazione riguarda il venir meno dell’unidirezionalità della comunicazione: McQuail racchiude l’atto comunicativo entro la diade, considerata come una molecola.

Molte altre teorie, prendendo in esame un numero di variabili via via crescente, sono state sviluppate e proposte per disegnare l’architettura “essenziale” di un atto comunicativo. E’ da rilevare, tuttavia, che nella cornice “statica” di questa costruzione, gli elementi considerati assolutamente indispensabili sono tre:

  • una fonte (o “coppia di attori”, distinta in un “emittente” e un “ricevente”);

  • un contenuto (o “messaggio”) da comunicare;

  • un mezzo (o “canale”) attraverso il quale effettuare lo scambio.

La “fonte” o “emittente” è un individuo o un gruppo che produce un messaggio. Per fare ciò, occorre che esso traduca in un testo i contenuti che vuole comunicare utilizzando una codificazione e dei segnali comprensibili. Entrano qui in gioco, da parte dell’emittente, l’intenzionalità e l’efficacia del messaggio e, da parte del ricevente, la sua abilità di interpretazione.

Il “messaggio”, invece, è tutto ciò che costituisce oggetto di scambio in una pratica comunicativa. Spesso, esso è trattato come un “blocco” avulso dal complesso degli elementi e dall’ambiente in cui ha luogo il processo di scambio; tuttavia, così facendo, non solo vengono perse importanti informazioni sulle condizioni che governano il fenomeno trasmissivo, ma si sottovalutano elementi essenziali della formazione del messaggio stesso, rendendo l’analisi viziata nei suoi contenuti. Il messaggio, infatti, è un processo dinamico che si costruisce con l’apporto di diversi elementi, intenzionali e non, espliciti e impliciti. Sicché, la semplice captazione del messaggio “statico” da parte del ricevente non significa l’automatica, corretta interpretazione dello stesso. La presunta inalterabilità del messaggio, inoltre, può essere condizionata, fin dall’inizio, da un’interferenza fisica o psicologica (“rumore”), che “disturba” il segnale, influenzando la ricezione e l’interpretazione dello stesso. Il messaggio ricevuto, pertanto, potrebbe essere molto diverso da quello che si aveva intenzione di trasmettere, ciò pur nella convinzione di averne inviato uno ben preciso. Inoltre, il messaggio iniziale sarà a sua volta suscettibile di modificazioni a causa del feedback di risposta, che darà avvio allo scambio di una nuova serie di segnali e di contenuti.

La ricezione, occorre ricordare, è altamente aleatoria anche perché il ricevente capta e separa i segnali provenienti dall’esterno, ammettendone alcuni ed escludendone altri, sulla base della propria “attenzione selettiva”, a sua volta legata alla motivazione e all’intensità relativa del segnale. Così, ad esempio, la trattazione di un argomento che interessa direttamente una persona riceverà la sua più ampia attenzione, rispetto a una disquisizione teorica su un tema a lui/lei completamente ignoto. L’efficacia di un messaggio riposa pertanto essenzialmente sull’importanza che esso assume in relazione ad altri segnali e al valore intrinseco che gli viene attribuito dal ricevente. L’interpretazione, infatti, dipende anche dal complesso dei valori, delle capacità di interpretazione, dagli atteggiamenti del ricevente che è parte del contesto sociale in cui vive e agisce.

Quando parliamo di “canale” comunicativo, ci riferiamo invece al mezzo fisico attraverso il quale si svolge l’atto comunicativo. Lo stesso messaggio potrà essere trasmesso utilizzando, contemporaneamente, più canali (es. televisivo, volantini, manifesti, opuscoli informativi etc), aventi importanza diversa (in tal caso, uno costituirà il canale “principale”, attraverso il quale verrà esplicitata l’idea che si vuole trasmettere, mentre gli altri fungeranno da supporto e verranno definiti “accessori”). Gli elementi che contraddistinguono il canale sono l’immediatezza, ossia, la rapidità di trasmissione dell’informazione, e la capacità, intesa come, numero di informazioni inviato in un certo tempo.

La formulazione di un messaggio, come abbiamo visto precedentemente, necessita di un “codice”, inteso come un sistema condiviso e organizzato di segni. Il codice si basa su di una prassi convenzionale ed esige che le condizioni psico-ambientali dell’emittente e del ricevente siano quanto più possibile simili, affinché il messaggio venga correttamente criptato e decriptato. La dimensione sociale delle regole comunicative risente dell’elasticità che permea la loro struttura, poiché, a differenza dei codici numerici che hanno una struttura chiusa e autoreferenziale, si completa con i codici di comportamento, linguistici, valoriali che caratterizzano la cultura di appartenenza. Essendo lo spazio organizzativo in cui si muovono gli attori sociali dominato da ruoli e status differenti, esistono codici diversificati per comunicare all’interno dei singoli gruppi o con gruppi esterni: quanto più una persona è istruita e dinamica, tanto più aumenta il numero di “codici” che essa sa o deve utilizzare.

La decodifica di un messaggio appare pertanto come una operazione di particolare rilievo, teorico e pratico, “aprendo uno spazio articolato e complesso fra il messaggio trasmesso come segno e il messaggio ricevuto come significato7.

La comunicazione come processo.

L’illustrazione degli elementi comunicativi svolta nel paragrafo precedente mette in luce l’esigenza di un’interpolazione tra i vari costituenti dell’azione comunicativa e la loro interpretazione nel contesto ambientale in cui hanno luogo. La comunicazione, infatti, come abbiamo detto, “è un processo per cui un soggetto dice qualcosa a un altro, sulla base di particolari motivazioni e per raggiungere determinati scopi in una specifica situazione-contesto8. L’atto comunicativo diventa così azione sociale, richiamando all’attenzione concetti quali: la competenza comunicativa9, l’intenzionalità dell’agire, le operazioni di codifica/decodifica dei messaggi.

Disaggregando e, successivamente, riaggregondo i costituenti “elementari” di un atto comunicativo (fonte, contenuto, mezzo) è possibile costruire un “modello ideale”, più o meno complesso, a seconda del numero delle interazioni prese in esame. Questo modello statico, peraltro, al fine di interpretare e descrivere meglio il fenomeno studiato, necessita di essere collocato nel contesto sociale di riferimento, rendendolo più dinamico, completo, naturale.

I modelli proposti dalla teoria sono molteplici e hanno diversa complessità. Riprendendo la bipartizione operata all’inizio di questo scritto, possiamo distinguere fra quelli ispirati al paradigma informazionale (es. diagrammi di flusso classico e successive revisioni):

E

R

Messaggio

 

Fig. 1 – Diagramma di flusso classico

e quelli relativi al paradigma relazionale, in cui l’attenzione è posta sulla “circolarità” del flusso comunicativo e la “pari dignità” dell’emittente e del ricevente, definiti, secondo questa prospettiva, come “codificatore” e “decodificatore”:

MESSAGGIO

 

CODIFICATORE

DECODIFICATORE

 

INTERPRETE

INTERPRETE

 

CODIFICATORE

 

DECODIFICATORE

 

MESSAGGIO

 

Fig. 2 – Diagramma di Schramm (III formulazione)

Elementi fondamentali che, con il prosieguo degli studi, acquisiscono crescente importanza nella comprensione del fenomeno comunicativo sono il “contesto”, visto come lo spazio concreto in cui l’atto si svolge, e la “situazione”, intesa come l’insieme di significati ed elementi di carattere ambientale, sociale, culturale che agiscono sull’evento. In effetti, il luogo psico-fisico non rappresenta più solo un occasionale palcoscenico dove gli interpreti si inviano messaggi, ma diventa esso stesso elemento formativo della comunicazione. Il “contesto” introduce nell’atto comunicativo variabili costitutive dei significati scambiati, facilitando o, al contrario, ostacolando la comunicazione.

Gli scambi context-dependent riflettono la dimensione sociale dei rapporti, riproponendo, nella formazione dei significati, ruoli e status, norme e culture, gerarchie sociali presenti nell’ambiente di riferimento. Lo schema comunicativo, pertanto, non è libero da vincoli e condizionamenti imposti dall’“esterno”, che anzi forgiano la rappresentazione sociale della realtà da parte degli interpreti e canalizzano l’azione comunicativa verso obiettivi “socialmente” condivisi. Gli influssi del contesto possono arrivare a tal punto da condizionare la stessa “genesi” e i “contenuti” della “comunicazione-a-due”, svuotandola dei significati “concordati” fra le parti e sostituendoli con altri “prestabiliti” dall’organizzazione sociale.

Rileva a questo proposito la tesi sostenuta da Becker sul “mosaico comunicativo”10, secondo la quale gli atti comunicativi pongono in relazione gli elementi del messaggio, non solo con l’ambiente sociale immediato, ma anche con altri componenti il contesto comunicativo (es. impressioni e scambi precedenti, notizie diffuse dai mezzi di informazione, opinioni espresse da altri membri del “gruppo” etc).

La “Finestra di Johary”: il modello teorico

Con il contributo della teoria psicologica è stato proposto un modello interpretativo della comunicazione che fa perno sulla distinzione fra ciò che è noto (o ignoto) a se stessi e ciò che è noto (o ignoto) ad altri, conosciuto con il nome di “Finestra di Johary”11.

Lo schema esamina i diversi gradi di conoscenza/cognizione espressi in un messaggio. L’originalità del contributo sta nell’aver messo in evidenza la possibilità per i soggetti di effettuare una scelta consapevole circa la qualità, la quantità e l’estensione degli elementi informativi che sono disposti a condividere con gli altri. Il livello di disclosure dipende dalla motivazione e dai vantaggi attesi da colui che è in possesso dell’informazione, considerando che il livello di trasparenza influenza l’efficacia dell’atto comunicativo.

Graficamente, la “Finestra” si presenta come una griglia suddivisa in quattro quadranti:

Noto a sé Ignoto a sé

Noto agli altri

Area

aperta

Area

cieca

 

Ignoto agli altri

Area

nascosta

Area

ignota

 

Il settore “area aperta” è relativo ai comportamenti e alle azioni intenzionali del soggetto: le informazioni circolano liberamente, il soggetto palesa senza riserve le proprie intenzioni rendendole note anche agli altri.

Il quadrante “area nascosta”, invece, individua le informazioni conosciute esclusivamente dal soggetto agente e che quest’ultimo/a non intende divulgare (o che gli altri, a loro volta, non riescono a cogliere). Dal punto di vista comunicazionale, quest’area è molto importante, poiché interpone degli ostacoli a uno scambio libero e diretto, condizionando la gamma delle possibili risposte che il ricevente può dare. Inoltre, poiché l’atto comunicativo è uno strumento dell’agire sociale, le carenze sul piano del contenuto influenzano negativamente anche le abilità sul piano delle relazioni12.

L’“area cieca” indica le influenze dell’ambiente circostante e i dati conosciuti dalla generalità delle persone, ma ignote alla parte comunicante; fa inoltre riferimento alle impressioni trasmesse inconsapevolmente dal soggetto agente e che sono recepite dall’ambiente esterno.

L’ultima porzione, quella dell’“area ignota”, descrive una situazione di non-comunicazione o un “contesto” sconosciuto in attesa di essere elaborato dalle parti.

La “Finestra di Johary”: un’applicazione alla comunicazione banca-cliente

Trasponendo il modello alla comunicazione intercorrente fra una banca e il proprio cliente, abbiamo la possibilità di disegnare un quadro comunicativo caratterizzato da “colori” e “sfumature” diversi.

Appartengono all’“area aperta” le informazioni che, per esempio, la banca rende pubbliche attraverso il bilancio, i prospetti informativi, le comunicazioni individuali e generali, gli indicatori sintetici e ogni altro strumento di divulgazione. Il pubblico, a sua volta, collabora al completamento delle informazioni rilasciando notizie sui propri dati anagrafici, occupazionali, patrimoniali, reddituali. Allorquando queste informazioni non sono esternate liberamente, ma sono sottoposte a una “selezione” dei contenuti specifici, si entra nella zona grigia dell’“area nascosta”. Qui la bipartizione segna un solco profondo fra i soggetti comunicanti: il monopolio dell’informazione condiziona i comportamenti reciproci, avvantaggiando (apparentemente) colui/colei che “economizza” sui dati, restringendone la quantità e la qualità, e vincolando le scelte possibili della controparte. La riserva mentale di uno dei soggetti finisce così per strutturare l’atto comunicativo entro limiti artificiosamente ristretti, parziali, non completamente rispondenti alla realtà dei fatti; il processo comunicativo risulta, di conseguenza, artefatto e scarsamente efficiente. Ciò che rileva, in particolare, a prescindere da qualsiasi giudizio sulla opportunità/consapevolezza dell’omessa condivisione delle informazioni, è la distorsione delle motivazioni dell’atto comunicativo e, cosa ancora più grave, del suo esito finale: tacere aspetti significativi di cui solamente una parte è a conoscenza può determinare, alla fine del processo, conseguenze impreviste, indesiderate, diverse da quelle attese dal/dai soggetti. Così, nel caso concreto della comunicazione banca-cliente, il rapporto che viene a instaurarsi a seguito di uno scambio informativo “pilotato”, finisce per determinare un risultato “ibrido”, difforme da quello ricercato all’inizio del procedimento comunicativo e potenzialmente in grado di produrre esiti contrari agli interessi stessi delle parti. Ciò può tradursi, a titolo esemplificativo, nella perdita di fiducia e nell’allontanamento del cliente insoddisfatto, in un danno di immagine o di reputazione per l’intermediario (c.d. rischio operativo), in un contratto bancario (es. mutuo o fido) più oneroso per il cliente. Per quest’ultimo, quindi, sottacere circostanze significative della propria storia patrimoniale o personale può dare luogo a un rapporto creditizio meno soddisfacente, addirittura più gravoso di quello concluso in assenza di “riserve” informative. La scarsa trasparenza della banca, a sua volta, ingenera disaffezione negli utenti, alimenta la sfiducia, riduce la capacità di attirare e di trattenere la clientela: in ultima analisi, poiché il legame banca-cliente è un rapporto di tipo fiduciario, costruito, preferibilmente, in un periodo di tempo sufficientemente lungo, ciò determina una cattiva gestione e una scarsa qualità del patrimonio informativo disponibile. Il danno d’immagine colpisce il singolo intermediario, ma può determinare, in uno scenario gravemente avverso, difficoltà ulteriori se si ripercuote sull’intero sistema creditizio.

Ostacoli all’atto comunicativo derivano, inoltre, dall’attenzione, dalla memoria, dall’interpretazione “selettiva” delle informazioni (inviate e ricevute) da parte degli interlocutori, che contribuiscono in tal modo ad alterare i significati scambiati, dosandoli e adattandoli ai reciproci interessi/aspettative.

La scarsa fluidità comunicativa, nel caso specifico dei rapporti bancari, può essere ulteriormente ostacolata da alcuni fattori “esterni”, collocabili nella cosiddetta “area cieca”. Appartengono a questa categoria le informazioni che dovrebbero essere già note alla generalità del pubblico o il cui contenuto ha carattere predefinito, indipendente dalla volontà negoziale delle parti. E’ il caso dei contratti, come il mutuo, il conto corrente, il pegno, la fideiussione o le garanzie ipotecarie, la cui disciplina è dettata dal codice civile. Gli elementi costitutivi, i casi di nullità e di annullabilità, gli obblighi reciproci scaturenti dal vincolo contrattuale hanno requisiti certi, precostituiti, indisponibili. La mancata conoscenza degli stessi da parte di uno dei contraenti non esclude l’applicabilità e la produzione degli effetti giuridici dell’istituto, richiamato con il proprio nomen juris. Se così non fosse – esaminando la situazione secondo l’ottica del giurista – ne risulterebbe gravemente compromessa la stessa certezza del diritto. Certo, ci si potrebbe domandare “Su chi ricade la responsabilità dell’informazione? Sulla banca, che dovrebbe richiamare l’attenzione del cliente sulla disciplina codicistica, o sul cliente che ne dovrebbe invece già conoscere i contenuti?”. Al riguardo, potremmo argomentare che debba essere la banca a evidenziare il “tipo” di contratto richiamato, anche allo scopo di specificare meglio le caratteristiche dell’offerta e contribuire così all’efficacia della comunicazione, lasciando, invece, al cliente l’onere di sapere ed eventualmente di approfondire le norme giuridiche sottese. E’ infatti il soggetto proponente, “codificante”, che deve in qualche modo “guidare” l’interpretazione del soggetto ricevente, “decodificante”. Ove il contratto da sottoscrivere non ricada poi nella generale disciplina codicistica, ma risponda a un’“architettura” finanziaria più complessa e innovativa è essenziale che il processo comunicativo si articoli più dettagliatamente e incisivamente, secondo un meccanismo circolare di alternanza “stimolo-feedback”, affinché, al termine del processo, le parti abbiano convenuto su una interpretazione quanto più possibile uniforme e condivisa.

La scarsa conoscenza del “codice” comunicativo aumenta le difficoltà, per una o entrambe le parti, di interagire efficacemente, di negoziare il significato, di compartecipare all’elaborazione del processo, tanto più se si considera che “lo scambio di informazioni è strumentale per arrivare a una vera comunicazione come costruzione di un significato13. Siamo nel campo della “competenza comunicativa” alla quale abbiamo accennato precedentemente; competenza la cui abilità sta non solo nel conoscere gli “elementi” e le “regole” della comunicazione, ma anche nell’avere delle “competenze di base” e quindi nel riuscire a padroneggiare i contenuti “predefiniti” di cui le parti si avvalgono. Capacità che non tutti possiedono allo stesso livello, soprattutto quando questi “contenuti” sono utilizzati con minore frequenza o sono impiegati prevalentemente da particolari profili/categorie professionali. E’ per questo che, nella prassi operativa delle banche e nelle norme emanate dalle Autorità di vigilanza, si distingue tra “risparmiatori”, “investitori”, “investitori istituzionali”, a seconda del grado crescente di consapevolezza/abilità posseduta nell’interpretare le informazioni ricevute e, quindi, nel discernere gli eventuali oneri/rischi a essi associati: a una maggiore capacità corrisponde una minore necessità di “protezioni” specifiche.

Il quarto quadrante, quello definito “area ignota”, racchiude tutte quelle informazioni che, non conosciute da entrambi i soggetti, rimangono estranee al processo di scambio informativo. E’ un’area cognitiva che possiamo considerare come “suscettibile di ampliamento”, capace di arricchire la comunicazione di elementi nuovi, inespressi, costitutivi di significato. Alla “scoperta” di questi ultimi sono finalizzate, per esempio, le attività di raccolta di dati, i lavori di ricerca, le analisi svolte dalle banche, o lo screening di prodotti e proposte finanziarie da parte dei potenziali clienti sul mercato creditizio, anche internazionale.

A rendere ancora più complesso il rapporto banca-cliente intervengono inoltre considerazioni relative alla “situazione” comunicazionale, ossia al luogo, alle circostanze, all’ambiente in cui le parti interagiscono. L’agire comunicativo è costituito, come detto in altra parte del testo, da “parole”, ma anche da “simboli”. Il linguaggio verbale si completa e si arricchisce di senso attraverso i segnali paralinguistici, codificati nella cultura ed espressione della gerarchia sociale dominante. Così, se la solennità del luogo, il rigore degli ambienti, l’ordinata concitazione che regna in una banca, rassicurano il cliente dandogli un’immagine di efficienza, di competenza, di “serietà”, allo stesso tempo, incutono in lui/lei una sorta di “blocco comunicativo” che si esprime sia verso l’addetto/a sia verso l’istituzione che questi/a rappresenta. Tale circostanza condiziona il processo di comunicazione imprimendogli una forte connotazione “strutturata”, riflesso della diversa posizione dei soggetti nella scala gerarchica: distorsione che sarà tanto più accentuata quanto più “distante” sarà la collocazione delle parti all’interno dell’organizzazione sociale di riferimento. Scrive a tale proposito Livolsi “E’ il contesto situazionale, per come viene interpretato dai partecipanti al processo comunicativo, ciò che suggerisce loro il ruolo sociale e psicologico che dovranno adottare, come pure il copione sulla cui base dovrebbe più o meno svolgersi l’incontro. E’ il tipo di situazione in cui il soggetto si percepisce inserito ciò che ne orienta i comportamenti e gli atteggiamenti mentali nei confronti degli altri, facendogli assumere le prescrizioni di ruolo che la cultura di riferimento prevede per quella data circostanza14. Ruolo che è condizionato dalla combinazione di due fattori distinti, ma tra loro interrelati: l’organizzazione sociale e il livello di abilità individuali.

Conclusioni.

La comunicazione è un “processo circolare continuo”, condizionato da tempi e luoghi particolari, determinato dalla cultura di appartenenza dei soggetti agenti. L’atto comunicativo trae origine dai rapporti sociali, è da essi definito e plasmato, ne rispecchia ruoli e valori, si risolve in una relazione socialmente rilevante.

Anche la comunicazione banca-cliente riflette questo schema interpretativo, affiancando ai vincoli e ai condizionamenti della “cultura sociale” dominante, la diversità di competenza dei soggetti nella gestione della “cultura tecnica” sottesa allo scambio comunicativo. La differente abilità acuisce i “rumori”, trasformando i “dialoganti” in una diade imperfetta, la comunicazione in un processo di costruzione di senso “per approssimazioni successive”.

1 Le considerazioni espresse nel presente articolo sono opinioni personali dell’autrice e non impegnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza.

2 F. Dance, C. Larson, The Function of Human Communication: A Theoretical Approach, Holt, Rinheart & Winston, London 1976.

3 M. Morcellini, G. Fatelli, Le scienze della comunicazione, Carocci, Roma 2003.

4 U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1897

5 “Una diade comunicativa è rappresentata da due persone che interagiscono ed è l’unità minima della comunicazione interpersonale” (J. Watson, A. Hill, Dizionario della comunicazione, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1989, p. 52)

6 E’ questo l’approccio proposto dai teorici del carattere interattivo dell’azione sociale quali: G.H. Mead, Mente e società, Giunti-Barbera, Firenze 1972; E. Goffman, La vita sociale come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969; L. Berger e T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1969. Per una compiuta analisi di questo aspetto si veda M. Morcellini, G. Fatelli, op. cit,

7 M. Morcellini, G. Fatelli, op. cit. p. 156

8 M. Livolsi, Manuale di Sociologia della comunicazione, Laterza, Bari, 2000, p. 21

9 In sociologia, l’espressione “competenza comunicativa” designa la “capacità di produrre e comprendere messaggi nell’interazione comunicativa”, vds. P.E. Ricci, B. Zani, La comunicazione come processo sociale, Il Mulino, Bologna, 1983, citata anche in: M. Morelli, Teoria e tecniche della comunicazione d’impresa, Edizioni ETS, Pisa, 2003.

10 Vds. G. Pettignani e S. Sica, La comunicazione interumana, Franco Angeli, Milano, 1990

11 Il nome “Johary” deriva dalle iniziali dei due autori: John Luft e Harry Lungham.

12 M, Livolsi, op.cit. p. 32

13 M. Livolsi, op.cit., pg. 25.

14 M. Livolsi, op. cit, pg. 49

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