Un’amichevole disputa fiorentina: Brunelleschi a Santa Maria Novella e Donatello a Santa Croce

Uno dei motori della civiltà rinascimentale fiorita a Firenze nel Quattrocento, accanto al rinnovato studio della cultura classica e al dibattito intellettuale interdisciplinare, fu certamente la gara. Che si trattasse di averla vinta in una qualche questione, di gareggiare pubblicamente come nel caso dei concorsi – tra i quali quello celeberrimo del 1401 – oppure di sfide amichevoli più o meno private, la competizione, a Firenze, era all’ordine del giorno.

Così come la frequentazione assidua tra tante personalità versate in campi così diversi forniva un terreno fertilissimo per scambi e confronti che portarono ad un fervore di sinapsi davvero unico e, forse, irripetibile, così anche la competizione, strutturata sin dall’inizio come tale oppure nata, come una singolar tenzone, in risposta all’operato di qualcun altro, stimolava gli artisti a soluzioni innovative, efficaci, sempre più ingegnose, in grado di vincere la sfida e, nel contempo, far progredire le arti.

Nella biografia di Donatello raccontata da Giorgio Vasari nelle sue Vite, raccolta di biografie d’artista edita una prima volta nel 1550 e una seconda, ampliata, nel 1568, si fa menzione di un episodio, una di queste gare amichevoli, tra due artisti di eccezionale qualità, due pietre d’angolo della nuova arte che si andava formulando e consolidando: Filippo Brunelleschi e Donatello.

I due avevano visitato Roma insieme, si pensa intorno al 1409, viaggio intrapreso per studiare l’antico, una scuola di perfezionamento delle loro capacità e aggiornamento delle tecniche che darà i suoi frutti nell’operato di entrambi. Nel corso degli anni ebbero modo di collaborare più volte e uno dei luoghi nei quali è possibile godere di questa partnership a Firenze è la Sagrestia Vecchia, commissionata da Giovanni di Bicci, capostipite di casa Medici, nel 1419 circa; in questo caso i due lavorarono in differita: il progetto è di Brunelleschi, la decorazione scultorea – posteriore alla costruzione – di Donatello (e, probabilmente, Michelozzo).

L’occasione del confronto diretto tra i due, stando al racconto di Vasari, sarebbe stata la realizzazione da parte di Donatello del Crocifisso ligneo (originariamente policromo) per la basilica di Santa Croce: credendo di aver fatto un ottimo lavoro, Donatello “lo mostrò a Filippo di ser Brunellesco suo amicissimo, per averne il parere suo”; Brunelleschi dovette esserne deluso, perché sorrise e, esortato dall’amico a dargli un parere onesto, rispose che sembrava avesse messo un croce un contadino, anziché Cristo, perché non aveva la perfezione umana che Cristo dovette aver avuto.

Donatello rispose che giudicare era più facile che giudicare, e che se avesse provato a fare un Crocifisso anche a lui sarebbe sembrato un Cristo e non un contadino. Brunelleschi, in gran segreto, lo fece. Impiegò mesi per completarlo perché dopo aver snobbato l’opera di uno dei più grandi scultori suoi contemporanei (e della storia dell’arte, possiamo aggiungere noi) certamente avrebbe dovuto superarlo, altrimenti il suo giudizio avrebbe perso valore.

Sempre secondo il racconto vasariano per svelare all’amico l’esito della raccolta provocazione lo avrebbe invitato a casa sua, pianificando tutto in modo tale che Donatello entrasse in casa prima di lui e si imbattesse nel Crocifisso.

Come nella migliore tradizione di racconti di sfide tra artisti – un vero e proprio topos letterario modello del quale, specialmente all’epoca nella quale scrive Vasari, era Plinio il Vecchio – uno dei due si proclama sconfitto, assegnando la vittoria allo sfidante. In questo caso Donatello, stupefatto dalla perfezione del Crocifisso dell’amico, gli avrebbe detto “a te è conceduto fare i Cristi et a me i contadini”.

Non sappiamo se la storia raccontata da Vasari – che comunque offre una testimonianza letteraria del clima agonale che si respirava nella Firenze del primo Rinascimento – sia realmente accaduta o se vi sia almeno alla base il ricordo di un episodio realmente avvenuto e successivamente rimaneggiato. In ogni caso, offre al lettore una chiave d’interpretazione delle differenze stilistiche tra i due artisti, differenze che nel caso specifico di queste due opere riflettono anche due diversi modi di concepire e soprattutto rappresentare la duplice natura di Cristo.

Osservando i Crocifissi di Santa Croce (Donatello) e di Santa Maria Novella (Brunelleschi) e facendo un confronto stilistico tra i due si riesce a capire cosa si intenda, nella storia raccontata da Vasari, per “contadini” e “Cristi”: il Cristo di Brunelleschi è un Cristo divino, moralmente perfetto e non toccato dal dolore della crocifissione; la sua posa composta e le sue proporzioni sono matematiche, è un Cristo che risponde alle astratte leggi dei numeri, non a quelle della natura, tanto che ci si potrebbe chiedere se, nella sua perfezione, sia mai stato veramente umano; il Cristo di Donatello, invece, è il Cristo incarnato, resosi uomo e che proprio perché uomo ha sofferto e reagito alla sofferenza, morale e fisica, come uomo, non come dio; è un uomo, il Cristo scolpito da Donatello, visibilmente esausto, nel volto scomposto, e scosso nel corpo dal dolore che sta provando. Se il Cristo di Brunelleschi è immobile perché perfetto, quello di Donatello è immobilizzato dalla sofferenza fisica che lo ha condotto alla morte.

Il Cristo di Brunelleschi è quello che anche nel suo momento più umano, quello della morte, rimane comunque pienamente divino; quello di Donatello è invece un Cristo pienamente uomo, che è giunto al termine di una parabola umana e di una dolorosa agonia.

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