Ogni cinefilo che si rispetti alla notizia di un film che include nel suo cast un corvo usato come metafora, rivà con la memoria al capolavoro di Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini nel quale Totò e Ninetto Davoli erano per l’appunto accompagnati da un corvo petulante e saccente che, nelle intenzioni del regista, rappresenta “un intellettuale di sinistra di prima della morte di Palmiro Togliatti”. Oppure a Il corvo – The Crow di Alex Proyas in cui trovò la morte in un tragico incidente il primogenito di Bruce Lee, Brandon (ed eventualmente al suo più recete sequel). Nel film presentato in questi giorni alla Berlinale, dopo il suo debutto sugli schermi del Sundance Film Festival, invece il misterioso pennuto rappresenta metaforicamente il dolore della perdita di una persona cara, insomma “the grief”, per usare il vocabolo del titolo originale dell’opera letteraria da cui è stato ricavato il soggetto del film: Grief is the Thing With Feathers, che lo scrittore britannico concepì per elaborare la morte di suo padre.
E così siamo giunti al plot che è contemporaneamente anche il tema del film: l’elaborazione del lutto per improvvisa la perdita di una persona cara. Un tema praticamente “osceno”, nel senso etimologico del termine: irrappresentabile insomma, se i protagonisti di questo lutto sono il suo ancor giovane marito, e i due figli da poco usciti dall’infanzia (i gemelli Richard e Henry Boxall che li interpretano nel film al momento delle riprese avevano appena 7 anni). Provate a pensarci: come si può ragionevolmente pensare di mettere in scena una circostanza “ineffabile” come la perdita di una mamma a quell’età, senza rischiare pesantemente di scadere nel sentimentalismo più odiosamente ricattatorio? Bene il film in oggetto – diretto non a caso da un regista come Dylan Southern, che si è finora dedicato a dirigere documentari d’arte – riesce nella “mission impossible” proprio perché resta ancorato fedelmente alla asciutta sobrietà del testo di partenza, cui aggiunge un cast perfettamente aderente a questo stesso mood.
Intanto i due gemelli debuttanti, di cui già si è detto, che hanno la capacità – si direbbe innata, data la giovanissima età – di coniugare intensità empatica e disarmante naturalezza; poi, soprattutto, Benedict Cumberbatch, che occupa il centro della scena dal principio alla fine, dimostrando di essere capace di passare con estrema disinvoltura dai cinecomics della Marvel Cinematic Universe (chi non conosce il suo Dottor Strange?) a tali dolenti performance intimistiche che gli meriterebbero un sacrosanto Oscar, già sfiorato in due occasioni (The Imitation Game e Il potere del cane).
Performance in cui l’attore londinese riesce a coniugare magistralmente la sua imponente fisicità con una sensibilità tutta in sottrazione, che pervade il film trasformandolo in una storia potentemente commovente.
E poi, ovviamente, c’è il corvo, che il regista ha deciso di rendere in maniera tangibile, senza ricorrere alle scorciatoie della CGI, e facendolo anzi doppiare dalla voce complice e calda di David Thewlis, attore inglese che molti ricorderanno nel ruolo di Remus Lupin nella serie cinematografica di Harry Potter. Rappresentando il lutto, questo corvo assurge qui a un ruolo centrale, su cui si basano le sorti del film: incarnare una metafora è sempre operazione complessa, Dylan Southern ci riesce alla grande soprattutto grazie a questo bizzarro personaggio che riesce a essere, nel corso del tempo, di tutto, principalmente per il padre interpretato da Cumberbatch: presagio di dolore, monito d’inadeguatezza, severo senso di colpa e angelo custode. Lo fa alternando scene d’azione da “monster-movie” stile Universal alla struggente poesia delle opere Studio Ghibli; senza mai smarrire un tassello fondamentale per evitare i rischi della retorica del cinema lacrimevole: l’umorismo.
Ma forse, se The things with te Feathers risulta una pellicola così riuscita, è perché il suo regista costruisce la sua drammaturgia su un’intuizione vincente: raccontare il “tempo del dolore” distinguendolo dal “tempo ordinario”, inteso come una sequenza lineare e segmentabile in frazioni, come secondi, minuti e ore. Adottando così il concetto di “durée” introdotto dal filosofo francese Henry Bergson, secondo il quale: “il tempo non può essere ridotto a un insieme di istanti misurabili e divisibili; ma è invece piuttosto un flusso continuo e indivisibile, che è vissuto internamente e qualitativamente dall’essere umano”. Ecco il film di Southern riesce a mettere in scena proprio il tempo come “durata interiore” che “ha come tratto essenziale il vissuto affettivo che la caratterizza”. Perciò commuove, senza colpi bassi.