THE CITY AT STAKE. IV EDIZIONE DEL FESTIVAL UTOPIAN HOURS 2020. LA CRISI DELLA CITTA’ E I SUOI SCENARI CONTEMPORANEI

“La città, da luogo primario dove vivere, alle vulnerabilità messe in luce della crisi globale. La città è trafitta, la città trema”.

Giunto alla IV edizione, ritorna a Torino dal 23 al 25 ottobre 2020, presso la Centrale della Nuvola Lavazza, Utopian Hours 2020, il festival internazionale della città. Ideato organizzato dall’associazione no profit, fondata da Luca Ballarini anche ideatore della rassegna, Torino Stratosferica, il titolo ufficiale “the City at Stake” (la città a rischio). Utopian Hours è il Festival della città, un evento internazionale dedicato al “city making”. Tre giorni per approfondire i temi più urgenti degli ambienti urbani e conoscere le esperienze di successo da diverse città del mondo, tra sfide visionarie, ambiziosi progetti di placemaking, innovazione sociale e tecnologica e immaginazione collettiva. Oltre 40 ospiti provenienti da tutto il mondo, city marker, imprenditori, urbanisti e innovatori, si confronteranno in tre giorni di talk, mostre, incontri e workshop su la crescita delle città. Processi di riqualificazione urbana e nuove visioni per migliorare il futuro dei nostri centri metropolitani. Soprattutto a partire dallo scenario complesso che stiamo vivendo in questo particolare momento storico. Al centro della rassegna i grandi temi della contemporaneità: dalla fuga delle metropoli alla rinnovata attenzione per le aree interne e la campagna, dalle città sull’acqua a quelle a misura di donna, dalla mobilità del futuro alla nuove strategie di sviluppo del territorio. “Le città sono armi mentali” spiega Luca Ballarini, “Utopian Hours è un festival che dà ampio spazio alla visione, al lavoro collettivo, alle professionalità coinvolte a tutti i livelli nel “fare città”. E’ un momento iper-stimolante di confronto internazionale per ragionare sul potenziamento delle nostre città, su come possiamo creare valore urbano e intervenire in ciò che non funziona”. “Pensiamo a Milano e a Torino” spiega il condirettore di Utopian Hours, Giacomo Biraghi, “sono centri che per la prima volta nella loro storia recente devono gestire due crisi: quella della città in genere (sotto scacco per la pandemia) e quella della fine della loro età dell’oro (Olimpiadi ed Expo). Ecco Utopian Hours è un festival ottimista in questo momento buio”. Da vent’anni una serie di eventi drammatici mina il concetto di città: il terrorismo, la crisi finanziaria, la crisi ambientale e biologica e oggi, in modo drammatico, la pandemia. La città, che dopo un secolo e mezzo di accuse e critiche, era stata rivalutata come luogo primario della nostra evoluzione, come concetto ideale di “assicurazione” contro i grandi disastri del 900, è oggi in discussione contesa tra interessi diversi. La città gloriosa, la città libera, la città che esalta, quella portata in palmo di mano dai giovani e dagli “urbaniti”, dai talenti tolleranti e dagli innovatori sociali, la città che è soluzione ai mali del mondo, la città insomma che tutti amiamo e sogniamo di migliorare è al buio. Che ne sarà della città se l’essenza della città stessa è a rischio? Si chiedono ricostruendo le premesse di quello che sarà Utopian Hours 2020. The people, where will they go? La domanda che si faceva già per Ebenezer Howard nel 1989 nel suo To – morrow. A Peace Path to Real Reform (poi riedito con il titolo di Gardien Cities) torna oggi ad essere centrale. La gente dove andrà? Con questa semplice domanda in testa e con gli occhi che osservano da anni le città e la loro evoluzione possiamo notare un evidente fallimento su tre livelli distinti, che porta a tre ulteriori interrogativi pressanti. Il primo è il livello fisico. Oggi la forma della città sembra più non essere il contenitore adatto. La densità, la prossimità, le varie tipologie urbane che conosciamo, originate in buona parte dalle grandi inversioni del 1900, sono tutti elementi che appaiono inadatti alle sfide che le città hanno di fronte, tra cui il cambiamento climatico è forse la principale. La forma urbana che continua ad estendersi si presenta ormai inadeguata, in un crescendo di new city la cui struttura è di per se inadatta. Al secondo livello c’è il potere, che riguarda il soft power l’aggregazione che si estende fino al controllo sociale. Il sistema di governo della città sembra non essere più adatto, siamo in un momento in cui le città hanno perso autorevolezza, potere decisionale e i sindaci cercano di contrastare le emergenze con gli hastag. Contemporaneamente c’è il tema del contenimento della limitazione della libertà. Per le limitazioni imposte oggi nelle città, i city quitter sono pronti ad approdare in campagna, in valle, nella fattoria, per ricostruire il proprio sentimento urbano, in modo nuovo, come forma di affermazione e produzione di conoscenza. Il terzo livello è filosofico, teologico, intende la città come modello del libero pensiero. E’ la città esaltata da alcuni grandi pensatori e innovatori americani dagli anni 60 e 70 in poi, si sta in città per evitare le guerre, per evitare il potere dell’elite, per affermare la propria libertà di pensiero, per essere al centro della cultura. Comunità, Campagna, Waterfront, ecco presenti nella manifestazione i grandi nomi della scena internazionale. Si parlerà di comunità e innovazione con Sanne van der Burgh, direttrice di Next, la task force creata dai visionari architetti olandesi dello studio MVRDV. Focus sulle aree rurali considerate il luogo dei cambiamenti più grandi del nostro modo di vita e fuga dalla città. Interverranno Samir Bantal (direttore di AMO), curatore con Rem Koolhaas della mostra Countrysid, The Future, oggi esposta al Guggenheim di New York e con Karen Rosenkranz, l’etnografa autrice del libro City Quitters. In modo importante l’attenzione è rivolta all’elemento acqua, alle città galleggianti, con il progetto delle studio BIG di Bjarke Ingels, Oceanix, presentato da Marc Collins Chen e Copenhagen Islands, piattaforme flottanti, mobili lungo il canale e la baia analizzate per costruire uno spazio pubblico creativo e innovativo, presentate dall’australiano Marshall Blecher e dal danese Magnus Maarbjerg. Una sezione distinta è per la relazione tra nuoto e città, con l’esposizione di Andreas Ruby, curatore di Swim City a Basilea, che porta nella rassegna conoscenze di nuoto urbano, nel mondo. Nella mostra anche Ewan Anderson, managing partner dello studio di architettura 7N Architects, con base a Ediburgo con un approccio olistico alle pratiche di placemaking. Nella manifestazione anche il tema della casa: dai luoghi sconosciuti con Vittoria Thornton, creatrice del format internazionale Open House, alle esperienze di co-housing e abitare collettivo con Assemble Architects di Londra e Lacol di Barcellona, in un panel insieme a Homers di Torino. E ancora Gabriella Gomez-Mont (Città del Messico e Amsterdam) Julia Miralles de Imperial (Barcellona) con l’italo- danese Thomas Ermacora parteciperanno alla prospettiva urbana moderati da Greg Lindsay, direttore di New Cities, realtà canadese che analizza appunto il futuro delle città. Il Festival internazionale è organizzato dalla città di Torino con il sostegno di Fondazione CRT, Compagnia di San Paolo, Camera di commercio di Torino, Politecnico e Università degli studi di Torino, realizzato con Turismo Torino e Provincia insieme al Tavolo Consultivo del Design. “E al di là della tragica emergenza legata alla terribile pandemia, non va difesa solo la nostra salute e la nostra economia, va difesa la nostra capacità di immaginare, costruire e raccontare la città”.

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