Il successo del rockabilly

È la metà degli anni Cinquanta quando la Sun Records di Memphis diventa il punto di riferimento di giovani artisti in erba che, seguendo la via abilmente tracciata da Elvis Presley, danno vita al “rockabilly”, frutto proibito della “fusione tra il ritmo incisivo del rock, le dodici battute del blues, e gli elementi espressivi della musica country o hillbilly, con una predilezione per la chitarra elettrica”, come avrà a dire Elio Venditti. Ad aprire il sipario sul nuovo genere musicale è Carl Perkins, che con la sua “Blue suede shoes” creerà un moderno “tormentone”, un evergreen assoluto, dimostrando come nella neonata “società del benessere” anche un paio di scarpe possa essere raccontato in musica.

Passa pochissimo tempo e a Memphis sono già pronti a lanciare un’altra bomba: il suo nome è Jerry Lee Lewis ed è un cantante, pianista e chitarrista anticonformista e ribelle, un animale delirante da palcoscenico, che con la sua sensualità sfacciata e provocatoria riuscirà nell’impresa di fare inorridire i benpensanti ancor più di quanto non avesse fatto Elvis con i suoi sfrontati movimenti di bacino.

Il mercato discografico è ormai in fermento, l’atmosfera elettrica e il pubblico è affamato di nuovi artisti rampanti da portare alle luci della ribalta. Ecco allora che irrompe sulla scena Little Richard: anche lui di colore come Chuck Berry ma più “ragazzaccio” e naturalmente orientato verso tutto ciò che è proibito, il cantautore di Saint Louis riesce a compiere il grande salto e unisce in un amplesso spirituale ancor prima che tecnico rhythm and blues, gospel e soul insieme a vaudeville e minstrel shows, condendo il tutto con la formazione degli afroamericani omosessuali, al suono di Backbeat e pianoforte dai ritmi pressanti, percussioni estreme e un sax dalle sfumature funky. Basta poco e l’onomatopeico “Awop-Bop-a-Loo-Mop-Alop-Bam-Boom” di “Tutti frutti” (1955), riproducendo il sound intenso della batteria, diventa quasi un intercalare per i giovani di quegli anni, i quali finiscono per canticchiarlo in ogni momento, accennando di tanto in tanto movimenti allusivi e passi di danza sfrenati. Nasce così un nuovo modo di cantare fatto di urli e strepiti, che ricerca l’euforia collettiva più che la consueta correlazione “musica-testo”, la spontaneità più che l’armonia: tutto ciò che il pop, fino a quel momento, non aveva mai osato sperimentare.

Nel 1956, sull’onda dell’entusiasmo generalizzato, Gene Vincent pubblica “Be-Bop-A-Lula”, la canzone che più di altre potrebbe rispondere in modo esaustivo alla domanda “cos’è il rock ‘n’ roll?”. Frutto di un periodo in cui il cantante è costretto nel letto di un ospedale in seguito a un incidente che lo segnerà per tutta la vita, “Be-Bop-A-Lula” dominerà la classifica dei dieci migliori brani pop e rhythm and blues di quell’anno, al punto che tutti pensavano che avrebbe avviato Vincent a una carriera sfolgorante; la previsione tuttavia non si realizzerà e il musicista di Norfolk non sarà più in grado di confermare il trionfo del 1956.

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