Il silenzio degli intelligenti

In questi giorni mi ha colpito molto una notizia che arriva dagli USA, nell’ambito della campagna elettorale per le elezioni del prossimo presidente. I due concorrenti, Donald Trump, presidente repubblicano attualmente in carica e Joe Biden, il rivale democratico, si sono già sfidati in un dibattito pubblico e fra qualche giorno si affronteranno nuovamente. La commissione preposta all’organizzazione ha deciso che nel prossimo dibattito, mentre uno dei candidati avrà la parola, l’altro avrà il microfono disattivato, onde evitare le sgradevoli sovrapposizioni verificatesi nell’incontro precedente. Questa misura non riguarderà tutte le fasi dello scontro ma garantirà il reciproco rispetto di alcuni interventi da parte dei due rivali.

Cosa dedurre da questa notizia? La prima, brutta, sensazione è che anche a livelli politici altissimi – ricordiamoci che i due candidati concorrono per l’elezione alla carica più potente nel mondo – la democrazia non viene rispettata in assenza di divieti, in questo caso tecnici. E la seconda, altrettanto brutta, è che, poiché il rispetto per l’altro dovrebbe essere il requisito minimo di ogni uomo ancor prima di essere un politico, da tali persone “illustri” ci si dovrebbe aspettare un’alta e tutt’altra considerazione delle regole democratiche di cui essi stessi dovrebbero essere i garanti. La democrazia si basa su regole certe, su leggi; ma lo spirito democratico trova le sue fondamenta nella tolleranza, nel rispetto e nell’ascolto.

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”: questo aforisma, attribuito a Voltaire, ma in realtà della scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall (1868-1956), nasconde un principio evoluzionistico retrostante che, molto probabilmente, viene sistematicamente ignorato da molti politici in Italia… E non solo. Quando, nel corso dei dibattiti televisivi, un politico sovrasta con la sua voce quella del rivale, che cosa fa in concreto? Impedisce sì all’altro di comunicare ma, soprattutto, impedisce a sé stesso e al pubblico di ascoltarlo. Cerca quindi, per motivi che poi analizzeremo, di eliminare fisicamente l’avversario, rappresentato in quella circostanza da ciò che vorrebbe dire. Di fatto, quindi, si tratta sia di una violenza che di una violazione aberrante del concetto democratico stesso che sta alla base dell’incontro: un dibattito aperto per informare gli elettori e confrontare pubblicamente i programmi e le idee.

Quanto ai motivi, ce ne possono essere una serie infinita ma, a mio parere, si riducono sostanzialmente alla mancanza di validità intellettuale delle tesi del dialogante sopraffattore che, per sopperire a tale problema, cerca di imporsi fisicamente. Il “violento”, in sostanza, teme che le idee dell’oppositore, se ascoltate, potrebbero risultare migliori e più appetibili per il popolo elettore. A volte si rischia persino, con tale tecnica soverchiatrice, di generare nel rivale un demagogico vittimismo che rafforza le sue tesi…

L’incapacità di ascoltare gli altri tradisce la fallacia delle tesi sostenute. Se io sono convinto della bontà delle mie idee, arriverò anche a un ipotetico sacrificio pur di sostenerle ma, mai, arriverò alla sopraffazione dell’avversario perché, senza la sua stessa presenza, non sarebbe rispettato il principio democratico del dialogo.

Infine, vorrei tanto denunciare un fenomeno direttamente collegato alla mancanza dell’ascolto dell’altro: il – non me ne vogliano i miei tre lettori se uso una tantum un termine anglofono – “filterbubble” (isolamento intellettuale). Quando un gruppo, una comunità, un movimento, un partito affermano con forza ossessiva e ripetitiva un’idea, un principio o un convincimento, respingendo eventuali influenze esterne, instillano, con il tempo, nei propri membri, la validità delle proprie istanze. E più i membri soffrono di scarsi appetiti culturali, più efficace sarà questa violenza psicologica. Gli elementi che caratterizzano tale fenomeno sono quindi, oltre al divieto dell’ascolto dell’altro, la ripetitività degli slogan e la debolezza culturale dei membri appartenenti, disposti a sacrificare la propria libertà intellettuale, semmai ne fossero dotati, a favore di una apparente forza del branco. E non me ne vogliano anche gli animali se ho preso a prestito tale termine dal loro mondo.

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