Una riflessione sul Vampiro di Edvard Munch

«L’esperienza dell’amore mina sempre la nostra identità rendendoci mancanti. Destabilizza la nostra autosufficienza rendendoci dipendenti dall’Altro: non ti amo perché mi manchi, ma mi manchi perché ti amo» (Massimo Recalcati, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, Feltrinelli, Milano, 2021, p. 89).

L’immagine mostra uno dei capolavori di Edvard Munch conosciuto come la Donna vampiro o anche soltanto Vampiro (il titolo originale dell’opera era “Amore e sofferenza” – olio su tela, 91 x 109 cm, Oslo, Munch-museet). Di esso il grande artista realizzò ben sei versioni differenti e ciò mi è da sempre parso un simbolo dell’estrema difficoltà, anche per un’artista di siffatta levatura, di riuscire a rappresentare il mistero dell’amore fin nei suoi risvolti più profondi. L’opera si presta naturalmente a diverse interpretazioni, tutte assai interessanti sotto il profilo filosofico-psicologico. Il vampiro, si sa, è un’entità che ha bisogno del sangue altrui per poter sopravvivere. In questo senso la scena potrebbe facilmente essere interpretata come la manifestazione del bisogno vitale che soltanto l’amore è in grado di soddisfare. Ma c’è anche un altro risvolto della questione: il lauto pasto del vampiro implica sempre, ipso facto, la morte dell’Altro. Questa è una curvatura patologica dell’amore che si verifica quando alla nobiltà del sentimento più profondo e radicale del desiderio dell’Altro si sostituisce l’assillante e patogeno (e patologico) dominio dell’Altro.

La posizione china dell’uomo che espone il suo collo indica, dunque, la libera donazione del proprio sé o la sottomissione assoluta alla famelica aguzzina? E inoltre la posizione della donna è più simile all’abbraccio amorevole o alla posa dei predatori che si godono il bottino di caccia?

L’opera si rende disponibile con una naturalezza assoluta a queste due interpretazioni verso le quali, attraverso un’infinita gamma di diverse sfumature, convergono tutte le relazioni amorose. Si potrebbe dire che le due interpretazioni date dai concetti di “desiderio dell’Altro” o “dominio dell’Altro” restituiscono i due paradigmi relazionali ultimativi. Il criterio per poter distinguere la forma pura dell’amore e le sue distorsioni patologiche sta, a mio modo di vedere, nella libertà dell’incontro dei rispettivi desideri. È la libertà, infatti, che sfugge alle logiche malate del dominio ossessivo, della dipendenza affettiva, del bisogno totale e che consegna l’incontro d’amore alla dimensione – rara, purtroppo – della Relazione autentica.

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