In ricordo del “giudice ragazzino”

Molte sono le storie tragiche che, negli anni, il torbido confronto fra lo Stato italiano e la mafia si è lasciato dietro. Oggi, il periodo “della memoria” sembra spesso arrivare in primavera o estate, con il ricordo ineccepibile di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma – purtroppo – tutto l’anno è costellato di ceri alla memoria in tal guisa. È per esempio il caso di Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale Presidente della Repubblica Sergio. Tutti uccisi per mano di Cosa Nostra, in un periodo segnante le battute d’arresto della Prima Repubblica, l’inizio fragoroso della Seconda e un miliardo di ingiustizie e violenze nel mezzo.

Rosario Livatino fu ucciso una settimana di settembre del 1990. Non da Cosa Nostra stessa bensì dalla Stidda, una frangia mafiosa “separatista” diffusa principalmente nelle province di Agrigento, Gela e Caltanissetta. Il giudice Livatino, che all’epoca aveva appena 38 anni, si era distinto per il proprio impegno nella lotta alla criminalità organizzata, cercando di arrivare laddove pochi potevano o volevano, principalmente utilizzando gli strumenti di confisca giudiziaria dei beni per assestare veri e propri colpi al potere indiscusso del crimine siciliano.

La sua carriera fu fulminea: figlio di un impiegato comunale di Canicattì, si laureò in giurisprudenza con lode e pochi anni dopo entrò in magistratura. Nel 1979 fu sostituto procuratore al tribunale di Agrigento, e dieci anni dopo fu nominato giudice a latere.

Come fin troppo spesso la storia d’Italia ci ha insegnato, personaggi di questo calibro e tale vigore tendono a essere predestinati a una fine prematura. Rosario Livatino, che stava mettendo insieme i pezzi di una parte, locale, di ciò che sarebbe poi esploso in tutta Italia con Tangentopoli, era un nemico giurato della mafia. Come, qualche anno dopo di lui, lo divennero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Inchieste niente affatto secondarie, definite dall’amico e collega Luigi D’Angelo come «l’aver toccato il sistema nervoso di Cosa nostra».

Per questo, quel nefasto 21 settembre del 1990, mentre percorreva una strada statale a bordo della sua auto, fu speronato da una seconda vettura i cui occupanti avevano il chiaro intento di farlo fuori. Il giudice cercò di fuggire attraverso i campi limitrofi alla strada, ma fu proprio lì che perì, già colpito da un proiettile alla spalla e poi, raggiunto dai sicari, freddato a distanza ravvicinata. Quattro persone collegate alla Stidda furono individuate quali assassini.

Qualche mese dopo la sua uccisione, Francesco Cossiga – all’epoca Capo dello Stato – produsse un’affermazione molto controversa e che, in un certo senso, stava a indicare anche l’opinione che un Paese bloccato nei suoi schemi vetusti aveva dei giovani e della loro carriera:

«Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta.»

Da quel momento in poi, la nuova leva di giudici che in Sicilia e fuori volevano combattere la mafia, e usare tutte le armi per farlo, divenne nota complessivamente come “i giudici ragazzini”. Rosario Livatino, il primo di essi. Anni dopo, e con molte stragi mafiose di mezzo, Cossiga smentì che le sue parole si riferissero proprio a Livatino, ora definito da questi come «eroe» e «santo».

In più di un senso, poiché il vescovo di Agrigento già nel 1993 cercò di radunare le prove per il processo di beatificazione del compianto giudice, fervente cattolico e ricordato come persona d’animo buono. Processo poi avviato ufficialmente nel 2011 e conclusosi nel 2018, e che – forse esageratamente – vede attribuire addirittura due miracoli all’intercessione indiretta di Rosario Livatino.

Santo o non santo, il “giudice ragazzino” che ispirò poi un film dallo stesso nome sulla sua vita nel 1994, merita il ricordo che si addice agli eroi di quel calibro suo, e dei suoi colleghi talvolta più “famosi” in quella terribile categoria di chi è morto per essersi opposto ai crimini e alle ingiustizie della mafia.

 

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