IL RAPPORTO BANCA-IMPRESA VERSO UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO.

IL RAPPORTO BANCA-IMPRESA VERSO UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO.
Sommario: 1. Oggetto dell’analisi: sviluppo normativo ed evoluzione del rapporto banca-impresa; 2. Le partecipazioni azionarie. Disciplina normativa; 2.1. Partecipazione delle imprese nel capitale delle banche; 2.2. I patti di sindacato; 2.3. Partecipazione delle banche nel capitale delle imprese; 2.3.1. La disciplina delle partecipazioni azionarie in imprese; 3. Il finanziamento alle attività di impresa; 4. Un nuovo modello di valutazione dei rischi nel finanziamento alle imprese; 4.1. L’offerta di servizi; 4.2. La politica dei prestiti; 5. Conclusioni. 
 
1. Oggetto dell’analisi: sviluppo normativo ed evoluzione del rapporto banca-impresa. L’analisi che ci apprestiamo a compiere cerca di tracciare le linee di evoluzione dei rapporti tra le banche e le industrie, alla ricerca di una migliore allocazione del credito e a favore dello sviluppo del settore produttivo [1]. L’attività bancaria, infatti, ha bisogno di un continuo rapporto dialettico con il sistema industriale e commerciale al fine di contribuire al suo sviluppo e trarre da questo alimento per la crescita delle stesse istituzioni creditizie ([2]). Analogo convincimento fu espresso, infatti, da Einaudi, secondo il quale “le banche sono fatte per servire il pubblico e non viceversa”, evidenziando lo stretto legame che unisce gli interessi dei risparmiatori, delle istituzioni creditizie e delle imprese produttive alla migliore e più sicura allocazione del credito ([3]).
            La legge bancaria del 1936 fu introdotta nel nostro ordinamento successivamente al primo conflitto mondiale e alla grande crisi internazionale  che colpì l’economia  in un processo “a catena” dalla genesi e dalla storia assai complessa. Ambedue le crisi avevano profondamente coinvolto il sistema bancario, allora saldamente legato alle imprese, alla cui costituzione ed evoluzione avevano dato un contributo essenziale. La nuova disciplina, invertendo radicalmente questa tradizione, sancì la separazione tra credito ordinario e credito speciale e affidò alla Vigilanza il compito di controllare la corretta applicazione del divieto. La riforma, favorendo la specializzazione temporale e funzionale delle aziende, permise di superare senza eccessivi traumi il secondo dopoguerra e contribuì alla ripresa economica del Paese. La specializzazione funzionale, in particolare, ha consentito uno sviluppo considerevole del finanziamento a titolo di credito, escludendo così le possibilità offerte dall’intervento nel capitale di rischio delle imprese. Tale scelta, d’altra parte, appare consona alla stessa struttura delle industrie italiane, non molte numericamente né molto grandi, ma fortemente caratterizzate da un’ impronta “famigliare” nel possesso delle quote azionarie e nella struttura aziendale. Il timore di perdere il controllo dell’azienda a favore di investitori estranei alla famiglia rendeva, infatti, le imprese poco propense ad attingere a strumenti diversi dal credito bancario. La scelta della specializzazione ha quindi avuto come effetto indiretto quello di favorire e di rafforzare la centralità del ruolo delle banche nello sviluppo delle imprese, anche senza un’effettiva partecipazione delle stesse alla compagine societaria ([4]).
            Nel corso degli ultimi anni, l’innovazione finanziaria e l’integrazione dei mercati hanno mostrato con evidenza i limiti del mantenimento della specializzazione, che aveva finito per impedire la diversificazione dell’offerta dei servizi finanziari. Il completamento del mercato europeo, inoltre, imponeva l’adozione di una disciplina comune dell’attività bancaria che consentisse di ricercare una maggiore efficienza nel settore, attraverso una più forte concorrenzialità tra gli intermediari. A tale esigenza, l’ordinamento ha cercato di dare una risposta con la L. 30 luglio 1990 n.218 e i d.lgs del 20 novembre 1990 che hanno costituito un primo tentativo di riorganizzazione del sistema creditizio, attraverso l’ introduzione e la disciplina del modello di gruppo bancario.
            Il passo successivo è stato quello di attuare nel nostro ordinamento la Direttiva 89/646/CEE relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso e l’esercizio all’attività bancaria. La sua attuazione ha consentito di rimuovere ogni vincolo di carattere operativo e temporale all’attività creditizia, permettendo l’adozione del modello di banca universale ([5]). Il processo di deregolamentazione e di despecializzazione ha reso possibile per le banche l’esercizio, oltre che del credito a breve, medio e lungo periodo, anche delle attività elencate nell’allegato alla Direttiva e recepite all’art. 1 del t.u., quali: il credito al consumo, il factoring e la cessione di credito pro soluto e/o pro solvendo, il forfaiting e il leasing finanziario.
            Il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, d.p.r 385/93, (di seguito: t.u.) ha ribadito il contenuto universale dell’attività bancaria ed ha lasciato alle scelte gestionali dei singoli operatori, legate alle dimensioni aziendali, alle competenze acquisite e alle professionalità possedute,  la decisione di strutturarsi come banca universale o come gruppo polifunzionale. In sostanza, venuto meno l’obbligo di specializzazione creditizia, ogni operatore è libero di deliberare, in piena autonomia, la propria “vocazione” ad uno specifico campo di operatività. A tal proposito, le disposizioni del t.u. possono essere suddivise in due gruppi: quelle che ampliano l’operatività delle banche, consentendo loro di intraprendere operazioni prima riservate agli intermediari specializzati e quelle che rafforzano l’attività di Vigilanza, al fine di verificare il possesso, da parte dell’intermediario, di un’adeguata struttura organizzativa. Gli operatori creditizi sono sottoposti attualmente ad una profonda trasformazione  che vede un riassetto delle strutture bancarie attraverso fenomeni di concentrazione, fusioni e scambi di pacchetti azionari, che portano all’ acquisizione di elevate professionalità e allo sviluppo della propria presenza in segmenti di mercato e di territorio prima non coperti. Tale innovazione accresce le potenziali offerte di servizi che le banche possono proporre alla propria clientela – in modo particolare, alle imprese – generando una disponibilità nel campo dei servizi di gestione della liquidità aziendale e dei pagamenti, di copertura dei rischi di interesse e di cambio e di assistenza ad operazioni di finanza mobiliare o straordinaria. Il processo di ampliamento dell’operatività acuisce nelle banche l’esigenza di adottare approcci valutativi completi, capaci di configurare il sistema dei rischi dell’impresa affidata e, contemporaneamente, di ricercare e di comprendere le esigenze della stessa impresa-cliente ([6]).
            Per quanto riguarda, invece, il secondo punto, è possibile individuare nell’evoluzione dell’attività di Vigilanza, una crescente attenzione allo sviluppo organizzativo e all’efficacia/efficienza dell’ attività bancaria, chiamata a operare in un mercato sempre più competitivo e complesso. Tale orientamento è stato espresso negli anni più recenti dalla stessa attività regolamentare e ispettiva della Banca d’Italia e, soprattutto dal t.u. e dalla produzione normativa secondaria, che ha teso a sottolineare ripetutamente, e con grande fermezza, il principio della tutela della stabilità e dell’efficienza delle banche. Un’attenta osservazione è stata rivolta in questi ultimi anni  soprattutto al secondo dei criteri a cui abbiamo appena accennato. A tal proposito, basta citare l’art. 53 c. 1 in cui vengono individuate le disposizioni di vigilanza regolamentare che la Banca d’Italia può emanare in conformità alle deliberazioni CICR in materia di contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni (lettera b) e all’organizzazione amministrativa e contabile e ai controlli interni (lettera d).L’articolo, inoltre, prevede che determinate operazioni possano essere sottoposte ad autorizzazione da parte della Banca d’Italia (c. 2), alla quale competono ampi poteri nei confronti degli organi sociali delle banche: convocazione di amministratori e sindaci; convocazione degli organi collegiali con fissazione dell’ordine del giorno e presentazione di proposte; adozione di specifici provvedimenti nei confronti di singole banche (c. 3). La disciplina contenuta nel t.u. offre un quadro di riferimento normativo aperto alle leggi di mercato, ma attento alle possibili ripercussioni negative di tale situazione, apprestando un quadro di riferimento a  cui sono sottoposti tutti gli intermediari e garantendo così la pari opportunità tra tutti gli operatori ([7]). Le disposizioni in parola sono poi riprese dall’art. 67 c. 1 del t.u., relativo alla Vigilanza su base consolidata ([8]); anche per i gruppi bancari, dunque, il contenimento dei rischi e l’organizzazione interna, rappresentano un’area di possibile intervento da parte della Banca d’Italia, sia a carattere generale, sia nei confronti della sola capogruppo. Disciplina e attenzione analoga sono poi contenute nell’art. 107 del t.u., relativo agli intermediari finanziari inseriti nell’elenco speciale (detenuto e aggiornato a cura della Banca d’Italia), in ordine al contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni e alla sottoposizione a particolari disposizioni emanate dalla Banca d’Italia per lo svolgimento di determinati tipi di attività (c. 2). La finalità di tale disciplina risiede nella stabilità degli operatori e nella sottoposizione della loro attività ad un controllo di efficienza e di correttezza verso la clientela e verso gli altri intermediari ([9]).
             L’attenzione viene dunque posta sulla situazione tecnica della banca e sulla concentrazione dei rischi, ma soprattutto sull’adeguatezza della struttura organizzativa nel selezionare la clientela, nel seguire l’evoluzione della situazione economica e finanziaria delle imprese clienti e nel controllare l’andamento dei finanziamenti concessi ([10]).
Ampia attenzione è stata dedicata, inoltre,  all’esame del “gruppo di appartenenza” del singolo cliente, in modo da tener conto, indipendentemente dai rapporti di partecipazione o di controllo, dei legami di cointeressenza capaci di trasmettere eventuali crisi finanziarie dall’una all’altra parte,  secondo l’ “effetto domino”. La portata di questa disposizione, sicuramente ampia, costituisce una seria sfida per le banche nella valutazione del merito creditizio e le spinge ad un’analisi spesso complicata dalla presenza di  intrecci azionari, che necessita di lunghe e complesse indagini attraverso uno screening e una mappatura dei gruppi. Attraverso tali sistemi si è cercato di ovviare all’eccessiva concentrazione dei rischi, predisponendo un apparato informativo in grado di seguire l’evoluzione delle strutture di gruppo e di monitorare i rischi creditizi, sia a livello di banche, sia a livello di gruppo bancario.
Un ulteriore aspetto di rilievo è quello costituito dalle disposizioni delle Istruzioni di Vigilanza che prevedono la possibilità per la Banca d’Italia di dettare limiti più stringenti di quelli generali per le banche che presentano profili di rischiosità più elevati in relazione alla adeguatezza della struttura organizzativa a selezionare la clientela, a seguire l’evoluzione della situazione economico-finanziaria dei maggiori clienti e a controllare l’andamento dei finanziamenti concessi.
La disciplina del t.u. e delle norme di attuazione non si limita tuttavia a fornire delle regole prudenziali e dei criteri di valutazione a cui le banche possano ispirarsi per vagliare il merito creditizio e la rischiosità della propria clientela, ma si sofferma con grande attenzione anche sulla disciplina delle partecipazioni assunte dalle banche e dai gruppi bancari in società diverse da quelle bancarie, finanziarie, strumentali ed assicurative; in altri termini considera anche le partecipazioni in imprese industriali e commerciali.
2. Le partecipazioni azionarie. Disciplina normativa. Punto chiave della disciplina dettata dal t.u. è l’art. 5 in cui viene sottolineato che “Le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti (…) avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia”. L’ordinamento, infatti, ha voluto in tal modo porre l’accento, contemporaneamente, sulla salvaguardia dell’attività del singolo operatore bancario attraverso una “sana e prudente gestione”, inserendola in un contesto più ampio, quale quello del sistema finanziario in generale, sul cui equilibrio vigilano le stesse norme del t.u., attraverso l’attività di controllo della Banca d’Italia. Si è voluto così ribadire lo stretto legame sussistente tra un corretto ed efficiente operare a livello di singola azienda e la tutela generale del sistema, la cui armonia si basa sulla presenza di operatori responsabili e corretti. Alla tradizionale centralità della “stabilità”, riconosciuta dalla Legge bancaria del 1936, è venuta dunque ad affiancarsi l’esigenza di incoraggiare anche l'”efficienza” degli intermediari ([11]), attraverso lo stretto legame che unisce gli artt. 53, c. 1, lett. a-d, 67, c. 1, lett. a-d e 107, c. 2, come più avanti sottolineato ([12]). Stabilità, efficienza e, quindi, competitività degli intermediari sono le finalità che si tenta di perseguire a vantaggio del sistema in generale e della clientela in particolare. Le banche, esse stesse imprese, sono collocate in un mercato fortemente competitivo, aperto alla presenza di operatori stranieri e all’offerta di servizi e strumenti finanziari a misura del singolo cliente. In una economia di mercato, dunque, il compito di vigilanza sul singolo operatore e sul sistema finanziario in generale non può mancare di affinare le proprie tecniche di controllo e di raccomandare agli operatori criteri di gestione e di analisi sempre più accorte e attente parallelamente alle esigenze emergenti.
2.1. Partecipazione delle imprese nel capitale delle banche. L’esigenza di conoscere la composizione della partecipazione azionaria nel capitale delle banche era stata già evidenziata dalla L. 4 giugno 1985 n. 281 (che aveva reso operativo il principio della trasparenza degli assetti proprietari delle banche, introducendo strumenti per la conoscenza delle partecipazioni al capitale delle stesse) che, all’art. 9 e ss., aveva previsto l’obbligo di comunicare alle Autorità di vigilanza le  situazioni di acquisizioni di controllo o di partecipazioni rilevanti nel capitale delle banche, al fine di impedire possibili commistioni tra gli interessi industriali e commerciali e quelli bancari ([13]). Relativamente alla tutela della concorrenza e all’acquisizione di posizioni di controllo, fondamentale risulta la L. 10 ottobre 1990, n. 287([14]), più nota come “legge antitrust”, che aveva introdotto un dettagliato sistema di controlli basato: sull’intervento della Banca d’Italia e sulla verifica dell’assetto proprietario delle banche a tutela dell’autonomia gestionale delle stesse e sul divieto per i gruppi industriali di acquisire una partecipazione azionaria superiore al 15% o di controllo nel capitale della banca (artt. 27-30). La normativa, in molti punti riproducente analoghe disposizioni della L. 281/85, aveva cercato di sopperire all’inadeguatezza delle norme comuni in materia di gruppi societari, di patti di sindacato e di controllo societario. Esigenza che è stata poi evidenziata anche da altre norme, risalenti allo stesso periodo: la L. 218/90 e il d. lgs 356/90 in tema di gruppi bancari ([15]). Infine, la materia è stata compiutamente esaminata e completata, alla luce della Direttiva Cee 89/646, dal d.p.r. 385/93 che all’art. 19 e ss. detta i criteri per l’autorizzazione delle partecipazioni azionarie nel capitale delle banche ([16]). L’intervento della Banca d’Italia appare chiaramente ispirato a un criterio di intervento preventivo, tramite la fissazione di precise soglie di rilevanza al fine della concessione della prescritta autorizzazione (art. 19 t.u.)  e per la ricezione delle dovute comunicazioni (art. 20  t.u.).  Con delibera del CICR del 19 aprile 1993 (G.U. 21 maggio 1993 n. 117)  e con le istruzioni di vigilanza (G.U. 20 agosto 1990 n. 195) ha trovato attuazione la normativa secondaria, a cui il t.u. aveva affidato la fissazione delle soglie di rilevanza ([17]). Queste ultime, infatti, hanno sostituito il precedente sistema delle soglie incrementali con una griglia di soglie fisse e hanno effettuato un dosaggio adeguato tra richieste di autorizzazioni e obblighi di comunicazione, al fine di evitare possibili duplicazioni e accavallamenti.
La finalità di tale disciplina ben si collega alla tradizionale linea di separatezza tra banca e industria, come chiaramente emerge al c. 1 dell’art. 19 t.u. in cui è prevista l’autorizzazione preventiva della Banca d’Italia per ogni acquisizione di azioni o quote di partecipazione da parte di qualsiasi persona fisica che, tenuto conto delle azioni già possedute, comporti una partecipazione superiore al 5% del capitale della banca o comunque il suo controllo ([18]). Uguale autorizzazione è richiesta per l’acquisizione del controllo di una società che detenga una partecipazione in una banca superiore al limite del 5% o che comporti il controllo della banca. Al c. 6 dello stesso articolo, il limite è elevato al 15% nel caso in cui l’acquisizione avvenga ad opera di soggetti che svolgono in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari. L’autorizzazione, rilasciata dalla Banca d’Italia, ha dunque lo scopo di effettuare una preventiva analisi della situazione che verrebbe a crearsi, al fine di valutare la sussistenza delle condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente ed evitare così una pericolosa soggezione degli interessi della banca a quelli dell’impresa controllante ([19]). I criteri di valutazione applicabili da parte dell’ organo di Vigilanza sono peraltro ispirati all’orientamento comunitario teso a privilegiare un’ analisi della situazione “effettiva”, al fine di evitare interpretazioni troppo rigide e soprattutto schematismi che non tengano conto della molteplice variabilità degli accordi societari. Recita a tal proposito il c. 7 dell’art. 19 t.u. che “La Banca d’Italia nega o revoca l’autorizzazione in presenza di accordi, in qualsiasi forma conclusi, da cui derivi durevolmente, in capo ai soggetti indicati nel c. 6, una rilevante concentrazione di potere per la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori della banca, tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca stessa”. Conforme alla linea comunitaria appare anche la delibera CICR del 19 aprile 1993 la quale prevede che la Banca d’Italia non debba procedere al rilascio dell’autorizzazione per partecipazioni superiori al 15%, salvo che il richiedente non dimostri che le attività svolte direttamente, diverse da quelle creditizie e/o finanziarie, non eccedono il 15% del totale delle attività svolte direttamente, calcolate secondo i criteri fissati dalla Banca d’Italia ([20]). Appare a questo proposito opportuno fare riferimento a un caso particolare di partecipazione, vale a dire,  agli accordi e ai patti di sindacato.
2.2. I Patti di sindacato. Il t.u. dedica grande attenzione al fenomeno del  controllo societario con un’analisi, ancora più approfondita di quella compiuta dal legislatore della L. 287/90 ([21]). Il c. 2 dell’art. 23 del t.u. enuclea i casi concreti dai quali può essere dedotta l’esistenza del controllo in capo ad un soggetto. Dispone infatti l’articolo che segno di esercizio di influenza dominante possa essere rinvenuta allorquando, attraverso patti di sindacato, sia possibile procedere alla nomina o alla revoca della maggioranza degli amministratori, ovvero, alla concertazione dei voti in assemblea. Quest’ultimo aspetto è trattato con particolare attenzione, in modo tale da considerare qualsiasi forma di accordo, scritto o meno, e soprattutto anche forme di intesa, concluse per scopi diversi, ma che indirettamente conducano alla concertazione o al controllo dei voti assembleari ([22]). Si discute pertanto di comportamenti enucleati e descritti dalla teoria, potenzialmente verificabili a seguito di accordi tra le parti (attraverso le consultazioni, la fissazione di linee di azione, le associazioni tra i soci etc.), ma che possono essere  “scoperte” solo a posteriori, allorquando si verificano e generano, di conseguenza, una forma di controllo concertato.
            Nella determinazione della concertazione del voto, inoltre, assume importanza anche la valutazione legata alla durevolezza dell’accordo. Infatti, il c. 2 dell’art. 20 prescrive l’obbligo di comunicazione, in capo ai partecipanti o ai legali rappresentanti della banca o della società, entro cinque giorni dalla conclusione dell’accordo o, se questo non è in forma scritta, dal momento in cui si verificano le condizioni che rivelano la sua esistenza. L’omissione di tale segnalazione comporta, pertanto, una violazione del dovere di informazione nei confronti della Banca d’Italia, sanzionabile ex art. 139 t.u.([23]).Quando tuttavia l’accordo concluso dai partecipanti non sia limitato nel tempo, ad es. alla votazione in assemblea in un preciso giorno, ma si protrae, rivelando la volontà di influenzare durevolmente le scelte societarie, è possibile inquadrare il problema anche sotto l’aspetto della sussistenza di adeguate garanzie per una gestione sana e prudente. Viene cioè a determinarsi una fattispecie che oltre a configurare un comportamento non trasparente nei confronti dell’Organo di Vigilanza, viene a costituire un pericolo per l’ indipendenza e la correttezza delle scelte dell’azienda, inquinandole con il perseguimento di interessi estranei e forse anche antitetici con quelli della stessa. Non a caso il c. 2 dell’art. 20 t.u. contempla separatamente il caso dell’influenza durevole stabilendo che “Quando dall’accordo derivi una concertazione del voto tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca, la Banca d’Italia può sospendere il diritto di voto dei soci partecipanti all’accordo stesso”. In quest’ultimo caso, pertanto, oltre che con le sanzioni previste dal citato art. 139 t.u., il legislatore ha voluto tutelare le imprese interessate prevedendo la sospensione dalla partecipazione alla vita societaria di quei soci, particolarmente condizionanti nelle scelte dell’impresa.  Enorme è quindi la portata del comma in parola, che permette di integrare i controlli e l’intervento della Vigilanza anche in quei casi in cui,  l’applicazione di altri articoli dello stesso t.u. appare impossibile, per es. perché le quote dei partecipanti, prese singolarmente, non superano la soglia del 5% fissata dal c. 1 dell’art. 19 t.u. in tema di autorizzazioni ([24]). Interessante è inoltre il nesso tra il c. 2 dell’art. 20 e il c. 7 dell’art. 19, in cui sono evidenziati i diversi “gradi” di condizionamento a cui l’impresa bancaria può essere sottoposta. Nel primo caso, infatti, si tratta di accordi da cui possa derivare un pregiudizio all’esercizio concertato del voto, nel secondo caso invece, si parla di “una rilevante concentrazione di potere (…) tale da pregiudicare la gestione sana e prudente della banca stessa”. In sostanza, in quest’ultimo caso, si discute di una fattispecie in cui, pur non venendo ad esistere una situazione di controllo ex art. 23 t.u. si manifesta un forte condizionamento nella gestione ([25]). Esiste, inoltre, uno stretto nesso di strumentalità tra l’ art. 19 e l’art. 21 t.u. in materia di “Richiesta di informazioni”. Quest’ultimo, infatti, consente all’Organo di Vigilanza di ottenere informazioni, in relazione a partecipazioni di qualsiasi entità e, quindi, anche per soglie inferiori rispetto agli obblighi di comunicazione ex art. 20 t.u. ([26]) e permette altresì di esperire tali controlli nei confronti di tutti coloro che, direttamente o attraverso legami societari, partecipino al capitale di una banca, estendendoli anche a soggetti che altrimenti non verrebbero sottoposti ad essi. E’, tuttavia evidente che tale intervento è limitato al solo scopo di ottenere informazioni utili e attinenti ai compiti di vigilanza.
            Dalla rassegna degli articoli del Testo unico, appena richiamati, appare netta la preoccupazione del legislatore di disegnare una “graduazione” nelle possibili forme di concertazione del voto e di approntare i mezzi necessari per svelarle e per reprimere quelle pericolose per una gestione sana e prudente della banca. Il timore che interessi estranei possano condizionare le scelte del banchiere, portandolo a sottovalutare o a trascurare gli interessi dell’azienda per favorire quelli di partecipanti particolarmente influenti è la ragione  fondamentale dell’esistenza di queste norme, che già a monte pongono criteri di esclusione che evitano interventi a carattere discrezionale da parte dell’organo di vigilanza.
2.3 Partecipazione delle banche nel capitale delle imprese. Le crisi degli anni Venti e Trenta, legate anche ai massicci investimenti delle banche nel capitale di rischio delle imprese, hanno lasciato una profonda influenza nelle norme di Vigilanza che vennero adottate subito dopo. La legge bancaria del 1936, infatti, reduce da quelle difficoltà, ha consentito di sperimentare un periodo di notevole stabilità del sistema bancario. Di tale stabilità, nonostante i limiti e le carenze, hanno beneficiato gli operatori, i risparmiatori e gli imprenditori, generando un aumento degli investimenti e la crescita del sistema economico ([27]).
            La riforma del sistema bancario, che ha trovato compimento con il d.p.r. 385/93 non ha dimenticato questi insegnamenti pur apportando modifiche consistenti all’assetto del sistema, legate alle profonde trasformazioni intervenute nel corso degli anni ([28]).
            Se, infatti, all’art. 10 del t.u. è stato ribadito il carattere d’impresa dell’attività bancaria ([29]), è anche vero che è stata promossa la despecializzazione temporale e operativa delle banche, ampliando la loro libertà di scelta, organizzativa e di investimento. Tale facoltà è tuttavia sottoposta al rispetto dei principi cardine dell’ordinamento, rinvenibili nell’art. 5 t.u., cioè, in una scelta operativa ispirata a criteri di sana e prudente gestione. Quest’ultima, pertanto, impone un’attenta analisi degli investimenti e una politica di diversificazione del rischio per evitare il pericolo di rimanere invischiati nelle sorti delle imprese-clienti. Investire eccessivamente nel capitale di rischio di una stessa impresa significa per le banche “scommettere” sul futuro dell’impresa partecipata e  legare le proprie scelte di credito a valutazioni non indipendenti, ma condizionate dalle esigenze della partecipazione ([30]) e dall’andamento borsistico delle azioni dell’impresa.
            La materia della partecipazione delle banche nel capitale delle imprese è regolata nel t.u. agli art. 53 e 67. Il c. 1 dell’art. 53 prevede infatti l’emanazione, da parte della Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR,  delle disposizioni di carattere generale in tema di: adeguatezza patrimoniale, contenimento del rischio nelle diverse forme, partecipazioni detenibili e organizzazione amministrativa, contabile e di controlli interni. Si tratta di disposizioni riportate integralmente  all’art. 67 in riferimento ai gruppi bancari. Entrambi prevedono un’ampia delega alla normativa secondaria, che ha trovato attuazione nel Decreto del Ministro del tesoro del 22 giugno 1993 (n. 242632) e nelle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, 102° aggiornamento della circolare n. 4 del 29 marzo 1988.
2.3.1. La disciplina delle partecipazioni azionarie in imprese. Nella circolare di Vigilanza viene innanzitutto sottolineato che l’acquisizione di partecipazioni rappresenta una nuova opportunità di assistenza finanziaria alla clientela, diversa e complementare alla gamma di strumenti di sostegno finanziario alle imprese. Tuttavia, in relazione ai maggiori rischi insiti nella natura stessa di tale rapporto, si richiama la necessità che le banche si dotino di strutture e di procedure interne idonee a presidiare i rischi insiti in tale forma di sostegno. Viene inoltre ribadita l’attenzione posta dalla Banca d’Italia, nel valutare le richieste circa i limiti massimi di operatività in tale ambito, all’esperienza maturata dalle banche nel comparto dell’assistenza finanziaria alle imprese e i risultati conseguiti, la situazione tecnica e l’adeguatezza organizzativa a selezionare la clientela, nonché, la capacità del banchiere di selezionare le stesse in base alla loro capacità imprenditoriale, scegliendo tra queste le più meritevoli. Si tratta perciò di un giudizio di valutazione che viene pronunciato da un’impresa (la banca, così come è definita all’art. 10 del t.u.) nei confronti di un’altra impresa e che ha ad oggetto il merito creditizio e di fiducia nell’efficiente operatività del prenditore del credito ([31]).
            La disciplina inoltre pone alcuni limiti (complessivi, di concentrazione e di separatezza) validi per tutte le banche e stabilisce le caratteristiche delle istituzioni che possono essere ammesse a derogare a tali limiti, vale a dire, le banche abilitate e le banche specializzate. Istituzioni cioè che si caratterizzano per la presenza di particolari livelli di capitalizzazione, per la specificità dell’esperienza maturata e per l’adeguatezza della struttura organizzativa destinata a selezionare la clientela ([32]) ([33])
             Ciò che qui rileva è che,  la Banca d’Italia prende in considerazione, oltre alla situazione della banca sotto il profilo della concentrazione dei rischi, dell’ equilibrio finanziario e dell’esposizione ai rischi di mercato, l’adeguatezza della struttura organizzativa a selezionare la clientela, a seguire l’evoluzione della situazione economica e finanziaria delle imprese clienti e a controllare l’andamento dei finanziamenti concessi ([34]). Qualora la situazione tecnica e organizzativa complessiva della banca non garantisca l’esercizio appropriato di questa funzione, la Banca d’Italia si riserva di revocare l’autorizzazione concessa.
            Le norme in oggetto, ancora una volta, sono orientate a favorire le banche dotate di migliori capacità valutative e fornite di una consistenza patrimoniale maggiore. A seguito della despecializzazione bancaria e della liberalizzazione, la capacità delle banche di stare sul mercato e di incrementare il proprio patrimonio dipenderà sempre più dal possesso di adeguati  strumenti di valutazione dei rischi e del merito creditizio. L’ampliamento degli strumenti offerti e la capacità di instaurare legami più intensi e duraturi con le imprese, collegati con una più accentuata esperienza, saranno le caratteristiche indispensabili per procedere ad una efficiente selezione della clientela ([35]). Alle banche è demandato quindi il compito di rivedere le proprie “politiche” verso la clientela, al fine di impostarle in maniera tale da soddisfare le nuove aspettative del mercato. I modelli di gruppo polifunzionale e della banca universale, infatti, hanno reso possibile il passaggio da una valutazione basata sul “merito del credito” a un esame fondato sull’ “analisi del finanziamento” delle imprese e sulla loro possibilità di successo.
            Va rilevato peraltro che obiettivo delle disposizioni in oggetto non è quello di sostituire la banca, con le sue valutazioni e i suoi rilievi sull’affidabilità dell’impresa, alle decisioni gestionali degli amministratori dell’impresa. Né la partecipazione delle banche nel capitale delle imprese può essere indirizzato a ripianare le posizioni in sofferenza della stessa. In quest’ultimo caso, infatti, è prevista dalla normativa la possibilità di convertire in partecipazioni i crediti vantati nei confronti dell’impresa, in temporanea difficoltà, ma solo dopo che la banca ha predisposto un piano di risanamento previamente sottoposto e approvato dalla Banca d’Italia. ([36]).
3. Il finanziamento alle attività di impresa. Il finanziamento delle imprese in Italia si è caratterizzato per la tradizionale scarsa influenza dei mercati, per ragioni legate alla struttura stessa delle imprese, e per un marcato ricorso agli intermediari creditizi. Tale dominanza, tuttavia, si è caratterizzata secondo gli schemi della “specializzazione” operativa e temporale dell’attività delle banche, regolata dalla Legge bancaria del 1936, cioè prevalentemente a titolo di credito, senza intervenire nel capitale di rischio delle imprese. La specializzazione temporale, inoltre, ha suddiviso l’intervento tra il comparto dei prestiti a breve termine (riservato alle aziende di credito) e quello a medio-lungo termine (lasciato agli istituti di credito speciale), contribuendo alla frantumazione dell’intervento e svincolandolo da un’analisi “globale” dell’impresa debitrice.
            Il modello di valutazione dell’affidabilità bancaria che ha trovato diffusione nel nostro sistema creditizio si è basato fondamentalmente su due fattori che servono a delineare il legame profondo tra le politiche dei prestiti e i procedimenti di selezione della clientela.
            Il primo è da rintracciare nell’attenzione posta prevalentemente agli aspetti patrimoniali delle imprese richiedenti credito e, in particolare, alla presenza di beni o di garanzie reali, oppure alla presenza di garanzie personali da parte di soggetti titolari di diritti patrimoniali mobiliari e immobiliari. In altre parole, secondo un criterio volto ad accertare in primo luogo l’esistenza di garanzie sufficienti a coprire l’esposizione creditizia della banca ([37]).
            Il secondo fattore, caratteristico del nostro sistema bancario ([38]), è da ricercare nella prassi di un forte frazionamento del portafoglio, con l’assunzione solo parziale del rischio complessivo dell’impresa, vale a dire, il fenomeno dei fidi multipli. Quest’ultimo, infatti, consiste nel concorso di più banche al finanziamento dell’impresa, determinando un frazionamento del rischio tra più creditori (a volte anche in percentuali molto modeste) reso necessario dalla bassa concentrazione dell’offerta di credito ([39]).
            La diffusione di tale modello di comportamento trova certamente origine nei fattori legati alla “specializzazione”, ma anche al limitato assetto dimensionale delle banche italiane, caratterizzato dalla presenza di intermediari di piccole e piccolissime dimensioni, a volte prettamente locali. Tale situazione costituisce un ostacolo determinando un divario tra la consistenza patrimoniale delle banche e le necessità di finanziamento delle imprese, a cui solo un intervento simultaneo, ma disgiunto, di più banche può garantire la soddisfazione. Un ostacolo non secondario ad una maggior impegno delle singole banche nei confronti del medesimo debitore è costituito, inoltre, dalle norme di vigilanza in materia di limiti di fido.
            La prassi dei fidi multipli ha in sostanza permesso di realizzare una sorta di collettivizzazione del rischio, ripartendolo, secondo la quota di affidamento concesso, tra i singoli partecipanti ([40]). La limitatezza del rischio ha pertanto spinto spesse volte le banche a disinteressarsi dal compiere un esame più approfondito della situazione economica, patrimoniale e di sviluppo del prenditore del credito. La molteplicità delle relazioni bancarie, inoltre, è stata favorita anche dalle scelte del debitore di diversificare il “proprio” rischio creditizio, vale a dire di assicurarsi in qualunque momento la copertura dei propri fabbisogni finanziari e aumentare le proprie condizioni di competitività nella negoziazione dei prestiti.
            Accanto agli asseriti vantaggi (o, per meglio dire, “necessità” imposte dalla Legge bancaria del 1936) esistono tuttavia rilevanti aspetti negativi caratterizzanti la prassi dei fidi multipli. In primo luogo, la possibilità di ripartire il rischio tra più intermediari interventori rappresenta un escamotage per nascondere un’inefficienza del mercato nella migliore allocazione del credito. Quest’ultimo, infatti, sarebbe reso possibile solo dall’utilizzo di quel patrimonio di informazioni insito in un rapporto più intenso e duraturo tra la banca e il proprio cliente. Quest’ultimo, infatti, per essere reale, ha bisogno dell’eliminazione degli ostacoli insiti nei processi di valutazione, di affidabilità e di selezione della clientela; la diffusione di logiche di corresponsabilità tra le banche creditrici; la limitazione dei crediti a breve termine, affinché non aumentino in modo tale da sbilanciare la struttura finanziaria dell’impresa; il contenimento del potere contrattuale delle banche per favorire un rapporto basato su una crescente fiducia tra le parti ([41])Rileva, infatti, la Banca d’Italia nella Relazione annuale del 1993 che “(…) appare esiguo il peso di relazioni di lunga durata nell’ambito delle quali una banca assuma una parte consistente dell’indebitamento dell’impresa. Emergono di rado intermediari in condizione di inserire appieno le prospettive di lungo periodo dell’impresa nel vaglio del merito di fido, che si facciano carico di formulare e realizzare per essa programmi di finanziamento adeguatamente orientati al mercato, che trasmettano alla altre banche e agli investitori segnali circa il grado di affidabilità del cliente. Per il sistema bancario la frammentazione dei rapporti di credito può ridurre la capacità di esercitare sulle imprese una disciplina coerente col volume dei finanziamenti complessivi” ([42]).
            La combinazione dell’approccio garantista e del frazionamento del credito ha garantito per lungo tempo dei risultati sufficienti. L’elevato frazionamento ha svolto infatti una funzione assicurativa verso eventuali insolvenze che è andata ad aggiungersi alle garanzie di tipo reale o personale già richieste dalle banche. Se questo atteggiamento di “prudenza” adottato dalle banche ha permesso a queste ultime di salvaguardarsi da possibili insolvenze, il rovescio della medaglia è costituita dalla scarsa attenzione per il profilo di redditività delle imprese finanziate e alle loro prospettive di sviluppo.
            Spinto all’eccesso, questo comportamento ha portato a conseguenze assurde, percui, in presenza di sufficienti garanzie reali, soprattutto immobiliari, si è proceduto alla concessione del credito a prescindere dalla meritevolezza economica dell’impresa. L’atomizzazione degli interventi creditizi, inoltre, ha prodotto la burocratizzazione delle procedure istruttorie, rendendole poco attente all’effettuazione di una valutazione globale della situazione dell’impresa richiedente credito. La dimensione del prenditore ha costituito non poche volte un criterio ritenuto sufficiente per valutare positivamente la domanda, specie se la concessione di credito era stata già concessa da altre banche ritenute “serie” nelle proprie valutazioni. A tutto ciò, va aggiunta la prassi di finanziamento a scadenza indeterminata che, attraverso la revoca del fido e la richiesta di rientro immediata, lasciava alla banca una scorciatoia conveniente per fronteggiare improvvise situazioni di crisi. Anche il comportamento degli imprenditori, forse favorito da questa situazione, non è esente da critiche: la possibilità di ricorrere a più finanziatori con la quasi certezza che nessuno di essi avrebbe analizzato attentamente la sua situazione economica complessiva, ha incoraggiato l’eccesso di richieste di credito e il loro impiego per finalità diverse da quelle inizialmente dichiarate ([43]).
            Il recupero dei fondi erogati, inoltre, è avvenuto in molti casi con gravi ritardi di carattere procedurale; successivamente al completamento di procedure concorsuali; con il rischio di dover restituire i pagamenti ricevuti anteriormente, per effetto della procedura della revocatoria fallimentare,  per la ricostituzione della situazione patrimoniale del fallendo; in situazioni in cui l’offerente le garanzie aveva precedentemente provveduto a liquidare il proprio patrimonio, infine, i beni offerti in garanzia (anche quelli immobiliari) sono risultati troppo spesso insufficienti a reintegrare il prestito concesso. L’immobilizzo dei fondi, inoltre ha determinato una limitazione nella quantità di riserve liberamente impiegabili da parte delle banche, bloccandone le possibilità operative.
            L’importanza delle garanzie collaterali è evidente e non può essere negata, tuttavia, un’analisi più “razionale” dei fidi concessi, evitando eccessivi limiti di concentrazione, ma anche smodate concessioni che determinano fenomeni di sottoutilizzo dei capitali, deve costituire l’inizio di una valutazione più attenta delle domande di prestito ([44]).
            Un’ulteriore spinta alla modifica dei comportamenti standardizzati delle banche può venire anche dalla tendenza delle banche a costituire degli aggregati sempre più grandi e più competitivi. Paradossalmente, l’assorbimento delle piccole casse di risparmio e delle banche a carattere prevalentemente locali, permette ai “colossi” bancari di acquisire una più approfondita conoscenza delle realtà locali, attraverso il patrimonio di informazioni che queste casse possiedono in virtù della propria limitata zona di operatività. La conoscenza, spesso personale dei funzionari bancari, dei prenditori di credito, unita alla valutazione immediata della situazione economica locale, può rappresentare uno strumento di valutazione insostituibile. Per il gruppo e per la banca capofila, significa la possibilità di stringere un rapporto saldo di conoscenza e di collaborazione con ben determinate comunità territoriali, partecipando alla sovvenzione non di un singolo imprenditore, ma all’intero sviluppo economico dell’area ([45]). E’ un progetto ambizioso e rischioso se lasciato alla semplice deduzione di informazioni statistiche e a valutazioni teoriche sganciate da un rapporto reale, diretto, con la situazione della zona interessata, ma che assume un preciso connotato di fattibilità se ancorato a una conoscenza immediata e profonda del mercato in cui si inizia a operare. L’adozione di tale comportamento permetterebbe, infatti, di superare la povertà dell’indagine informativa che le banche italiane solitamente conducono.
4. Un nuovo modello di valutazione dei rischi nel finanziamento alle imprese. L’evoluzione in atto nelle strutture delle banche e le esigenze di sviluppo delle imprese, impongono una serie di considerazioni che, anche nel confronto con i partners europei, conducano ad una riconsiderazione delle esigenze e dei mezzi per soddisfarle. Occorre in primo luogo considerare:
·       la numerosità dei servizi che una banca è oggi in grado di assicurare a un’impresa (servizi di gestione della liquidità aziendale e dei pagamenti, di copertura dei rischi di interesse e di cambio, di assistenza nelle operazioni di finanza mobiliare o straordinaria) è accresciuta dall’evoluzione della struttura bancaria stessa, oggi più grande e diversificata rispetto al passato;
·       la necessità di favorire gli investimenti nelle imprese diretti a potenziare il capitale permanente delle imprese, affinché costituiscano una solida base di sviluppo per competere nel mercato unico europeo;
·       lo sviluppo di rapporti di lunga durata tra le imprese e le banche, in modo tale da rinsaldare la conoscenza reciproca. In questo tipo di relazione, la banca assumerebbe la funzione di “consulente” per l’impresa e principale investitore/gestore delle risorse liquide. L’apporto anche se secondario di altre banche nel finanziamento della stessa impresa, rappresenta una circostanza non solo auspicabile, ma essenziale nel riequilibrio degli interessi e per una più attenta ponderazione dei rischi possibili. La presenza di una banca principale, con il suo bagaglio di conoscenze della singola impresa sovvenuta, costituisce un importante incentivo per un’ iniziale rapporto tra banca secondaria e impresa; tuttavia il rapporto non resisterebbe a lungo se non venisse coronato da risultati giudicati apprezzabili anche dalle “banche secondarie”.
   4.1. L’offerta di servizi. Il passaggio dalla transaction banking alla relationship banking implica necessariamente la disponibilità di una gamma sempre più vasta e completa di servizi necessari ad effettuare una “personalizzazione” del rapporto tra  la banca e l’ impresa-cliente.Si deve cioè procedere ad una riconsiderazione organizzativa che consenta di sviluppare sistemi non più centrati sul prodotto, ma sulla clientela. Alle banche sarà sempre più demandata la funzione di scegliere e di consigliare gli strumenti finanziari più adatti alle necessità aziendali, strutturandoli in modo tale da soddisfare le peculiari esigenze di liquidità, di pagamento e di impiego nella singola impresa.
                   Il ruolo della banca potrà, infatti, essere accentuato dal ricorso a forme contrattuali nuove e dall’impiego di strumenti innovativi, così come potrà essere sollecitato dalle trasformazioni dei tradizionali rapporti contrattuali e dalla loro “personalizzazione” a vantaggio del singolo cliente.
                  Assumono così importanza fenomeni come il project financing ([46]), i prestiti partecipativi ([47]), la sottoscrizione di azioni e obbligazioni o il loro collocamento sul mercato (corporate finance) ([48]). Un ulteriore sviluppo è dato poi dall’approvazione, nel corso degli anni ’90 di una serie di norme concernenti la disciplina dell’attività finanziaria e bancaria (L. 1/91 sulle SIM; L. 149/92 sulle offerte pubbliche; L. 157/91 sull’insider trading; D.lgs 385/93 Testo Unico delle leggi in materia bancaria e finanziaria; L. 344/93 istitutiva dei fondi mobiliari chiusi; L. 43/94 sulle cambiali finanziarie), che ha aperto la strada all’adozione di nuovi strumenti quali: le azioni e le obbligazioni convertibili in azioni; le cambiali finanziarie e i certificati di investimento i derivati etc. Si tratta fondamentalmente di strumenti che richiedono la capacità di assumere rischio di credito da parte delle banche, non più sulla base delle possibilità di rientro e sull’esistenza di idonee garanzie, ma sulla base di valutazioni che hanno per oggetto le prospettive reddituali e di sviluppo dell’impresa o del progetto. Intervengono, dunque, in uno stretto legame di mutua interdipendenza, valutazioni legate al rapporto banca-impresa (fiducia, conoscenza reciproca, durata del rapporto etc), considerazioni relative al mercato in cui si opera (conoscenza dell’ambiente da parte delle banche e dell’impresa; rapporti con gli altri operatori; valutazioni relative alla capacità di sviluppo del settore etc) e analisi relative alla disciplina normativa e alla struttura dei mercati (legislazione bancaria e fiscale; il grado di evoluzione del mercato dei capitali; la presenza di investitori istituzionali etc).
4.2 La politica dei prestiti. Le necessità di sviluppo delle imprese piccole e medie, in futuro, determineranno un aumento sempre più consistente dei prestiti a medio e lungo periodo. Tale esigenza, infatti, è da mettere in relazione all’aumentata richiesta di capitale permanente da investire nell’azienda, dettata dalla necessità di competere con le altre imprese europee. Sarà dunque necessario, da parte delle banche, adeguare la struttura del credito verso prestiti a media-lunga scadenza e, da parte delle imprese, a trasformare la propria domanda di credito, oggi in prevalenza rivolta all’indebitamento a breve termine.
                Le banche saranno quindi chiamate a gestire le proprie risorse in modo tale da soddisfare queste esigenze, approntando i mezzi, non solo creditizi, necessari a valutare le richieste ([49]). Le imprese, tuttavia, dovranno accogliere una innovazione non meno “rivoluzionaria” nei propri rapporti con le banche: quello di fornire un quadro dettagliato di informazioni, capace di convincere la banca della redditività del loro progetto. Le imprese di piccole e medie dimensioni dovranno pertanto dotarsi di più adeguati assetti organizzativi e amministrativi per elaborare dei piani di sviluppo adeguati e sufficienti a convincere la banca della loro pratica fattibilità. La maggiore conoscenza della struttura organizzativa, dei piani di sviluppo e dell’evoluzione finanziaria dell’impresa, dovranno in sostanza sostituire le richieste di garanzie, reali o personali,  – spesso non accessibili – che oggi, come abbiamo visto, sono alla base del rapporto banca/impresa-cliente. Infatti, il rapporto verrebbe reso più fluido dalla previsione di interventi mirati, taylored, sul singolo cliente e sulla specifica situazione. Sarà dunque prevedibile una differente modalità di utilizzo e di rimborso dei prestiti, dei piani di ammortamento e dell’utilizzo di differenti tipologie di tassi. Sarà inoltre possibile prevedere differenti politiche di finanziamento legate al successo o meno delle politiche di investimento seguite e ai risultati economici dell’esercizio. In quest’ultimo caso la possibilità di un’ulteriore espansione sarebbe favorita dal sostegno creditizio della banca principale e dall’intervento di altre banche secondarie, incoraggiate dal successo ottenuto. Sintetizzando, possiamo dire che, la capacità di credito di un’impresa dipende dalla sua capacità di produrre reddito. Se, infatti, un’impresa con buone prospettive reddituali può trovarsi in temporanea scarsezza di liquidità, cioè di flussi finanziari, che la rende non in grado di rispettare le scadenze che si presentano, è anche vero che la sua solidità, vale a dire la sua capacità di produrre reddito,  non viene per questo minacciata.  Appare pertanto essenziale procedere a un’analisi il più possibile dettagliata delle scelte di indebitamento, della composizione del debito e della destinazione dell’utile, al fine di garantire uno sviluppo equilibrato dell’impresa ([50]).
                La valutazione condotta deve pertanto riguardare un’analisi coordinata di tutte le scelte imprenditoriali, siano esse strategiche, produttive, commerciali, economiche o finanziarie, capaci di influire sull’equilibrio della gestione.
                L’analisi deve essere quindi condotta in modo globale, cioè valutata in base al complicato intreccio di relazioni instaurate dall’impresa con l’ambiente in cui è inserita, con il settore di appartenenza e con le scelte produttive adottate. L’impresa, nel corso della sua vita, deve continuamente confrontarsi con l’ambiente in cui è collocata e con un mercato in cui sono presenti altri competitori oltre che i potenziali clienti. E a questi aspetti deve porre attenzione. Contemporaneamente, essa deve apprestare un determinato sistema organizzativo, gestionale, produttivo e finanziario che ne assicuri il funzionamento e la sopravvivenza. Occorre pertanto un continuo coordinamento tra gli aspetti interni alla singola azienda, la quale deve continuamente rapportarsi ai fenomeni esteriori che abbiamo visto al punto precedente. Per tale ragione, non può mancare la considerazione di un approccio valutativo globale e progettuale. Quest’ultimo, infatti, è indispensabile per cogliere eventuali profili di rischio insiti nel rapporto e costituisce un “piano di sviluppo”, sintetico e chiaro, per incoraggiare possibili investitori ([51]).
                5. Conclusioni. Riprendendo una considerazione esposta più avanti, possiamo dire che l’approccio che qui si propone rispecchia il modello costituito dal “piano di risanamento” delle imprese in crisi, con la differenza che l’intervento coordinato banca/impresa, anticipa e cerca di prevenire l’insorgere di difficoltà economiche e finanziarie.
                Il vantaggio di un rapporto più stretto tra le banche e le imprese, in un mercato fortemente concorrenziale, è quello di consentire l’ elaborazione di strategie di intervento e di modelli di collaborazione positivi per entrambe le parti.
                Per il sistema italiano, infatti, le esperienze maturate nei paesi bank based (es. Germania e Giappone), caratterizzati da solidi e duraturi legami tra l’impresa e la main bank, possono rappresentare un proficuo bagaglio di esperienze dal quale attingere per ridisegnare e ricostruire un nuovo rapporto di collaborazione tra banca e impresa. Come evidenziato più avanti, tuttavia, tale innovazione non potrà aver luogo senza l’acquisizione di una nuova “cultura” nel modo di “fare banca” e di “fare impresa” e senza un’adeguata riqualificazione delle professionalità coinvolte.
                                                                                                          Tiziana Luise
.


[1]Si fa presente che le opinioni espresse in questo scritto sono considerazioni personali che impegnano esclusivamente l’autore.
[2]F. PARRILLO, Centralità del sistema creditizio, in Rivista Bancaria – Minerva Bancaria, 1994 n.6 p.3 e V. DESARIO, L’efficienza del sistema bancario quale presupposto della sua stabilità e per un corretto rapporto banca-impresa, in Banche e Banchieri, maggio 1984 p.397.
[3]L. EINAUDI, I metodi ed il costo dei salvataggi bancari, in Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VII, Einaudi, Torino, 1965.
[4]G. POCHETTI, Finanza Aziendale, UTET, Torino, 1989.
[5]P. BIFFIS, La banca universale italiana, in Il Risparmio, n.1, 1993.
[6]R. CORIGLIANO, Le relazioni banca-impresa. Assetto creditizio ed efficienza allocativa, Egea, Milano, 1991 e G. FORESTIERI, Rischio del credito e finanza d’impresa, in Economic Management, 1992, n.6, in cui ci si sofferma con particolare attenzione sui cambiamenti auspicabili nell’approccio valutativo, nelle metodologie di analisi e sugli interventi di carattere organizzativo.
[7]C. CLEMENTE, Commento all’art. 53 del t.u., in CAPRIGLIONE, Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, (a cura di), Milano, Cedam, 1994, p. 278.
[8]C. LAMANDA, L’evoluzione della disciplina del controllo sul sistema creditizio dalla legge bancaria ad oggi, in Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, 1986, n. 12; C. SORRENTINO, Commento all’art. 67 del t.u., in CAPRIGLIONE, cit., p. 352; V. DESARIO, In tema di ristrutturazione del sistema creditizio e di controlli sul gruppo polifunzionale, in Il controllo pubblico sull’ordinamento finanziario, Cacucci, Bari, 1995, vol. I, p. 423, e soprattutto p. 433 e 434 in cui si legge “Per contenere il livello dei rischi assunti indirettamente dalle banche capogruppo, è stato chiesto di inserire negli statuti delle società partecipate (…), penetranti regole prudenziali; allo stesso tempo, norma più stringenti del tradizionale limite di fido sono state introdotte per controllare i flussi finanziari diretti dalle aziende di credito e dalle proprie controllate bancarie alle altre società direttamente o indirettamente partecipate”, più avanti nel testo (p. 436) viene ribadita la “neutralità” della Vigilanza nei confronti della struttura societaria adottata, contribuendo a saldare lo stretto legame esistente tra l’art. 53 e l’art. 67 del t.u., “L’impostazione prevede strumenti uniformi di misurazione e di controllo dei rischi (…)associati ai diversi tipi di attività, indipendentemente dal soggetto che le svolge. In tal modo la regolamentazione applicata sia a un intermediario sia a un gruppo viene a dipendere dalla composizione del suo portafoglio. Seguendo tale impostazione, si riducono al minimo gli effetti distorsivi che possono essere provocati da differenze nelle regole prudenziali sui diversi intermediari”.
[9]Cfr. R. COSTI, Servizi di pagamento: il controllo sugli enti produttori, in Banca, borsa e tit. cr., 1993, I, p. 136 e ss.; M. PERASSI, Commento al d.l. n. 143/1991, convertito dalla L. 197/91, in Nuove leggi civ. comm., 1993, p. 1062, dello stesso autore, Commento all’art. 107, in CAPRIGLIONE, cit, p. 549
[10]Le ispezioni compiute hanno mostrato, oltre all’adozione di criteri e metodi di valutazione del rischio creditizio piuttosto carenti, una insufficiente predisposizione di strumenti informativi e di controllo interno capaci di influire gravemente sulla corretta formulazione delle scelte creditizie da parte delle banche, Cfr. Banca d’Italia, Relazione Annuale all’Assemblea dei Partecipanti, 1994, p. 330-331.
[11]M. PERASSI, Il Rapporto banca-impresa nel Testo Unico. L’intervento dell’organo di vigilanza, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, 1995, n. 38, p. 27-28.
[12]M. PERASSI, Commento all’art. 107 del t.u., cit., in cui alla p. 549 si legge: “(…) la vigilanza si esercita su banche, gruppi bancari e intermediari finanziari, indirizzando al primo comma dello stesso articolo (i.e. art. 5 t.u.), l’attività di vigilanza verso gli obiettivi complessivi della stabilità e dell’efficienza. Si crea così un regime uniforme di supervisione dell’ attività nel settore finanziario, sia che l’intermediario si trovi inserito in un gruppo bancario (ex. artt. 59 e 65 del t.u.), sia che eserciti in modo autonomo l’attività medesima”.
[13]P. DE VECCHIS, La banca nel nuovo ordinamento, in Quaderni di Ricerca Giuridica, 1995, n. 38; P. FERRO-LUZZI, Art. 9 commi 1 e 2, legge n. 281/85: prime considerazioni esegetiche, in Banca, borsa tit. cr., 1986, I, p. 425 e ss.; R. COSTI, L’identificazione dei soci delle società bancarie, in Banca, impr. soc., 1986, p. 221 e ss.; A. P. SODA, Commento sub art. 9 e 10 della legge n. 281 del 1985, in AA.VV., Codice commentato della banca, Tomo, II, Milano, p. 1366 e ss.; P. CIOCCA e F.M. FRASCA, I rapporti tra industria e finanza: problemi e prospettive, Roma, Banca d’Italia, 1986; V. VISCO, Occorre uno steccato tra finanza e industria a tutela del risparmio, in Il Sole 24 ore del 21 ottobre 1986; M. ONADO, Piccoli passi che illudono in Il Sole 24 ore del 24 marzo 1987; F. CAPRIGLIONE, Costituzione di banche e rapporto banca-industria, in Banca, borsa e tit. cr., 1988, I, p. 718 e ss.; T. DI BIASE e A. MAGLIOCCO, Commento all’art. 19, in F. CAPRIGLIONE, cit., p. 120 e ss.
[14]Recita infatti l’art. 20, c. 2, “Nei confronti delle aziende ed istituti di credito l’applicazione degli artt. 2, 3, 4 e 6 spetta alla competente autorità di vigilanza”, dove l’art. 6, c. 1 precisa che “Nei riguardi delle operazioni di concentrazione soggette a comunicazione ai sensi dell’art. 16, l’Autorità valuta se comportino la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza. Tale situazione deve essere valutata tenendo conto delle possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori, della posizione sul mercato delle imprese interessate, del loro accesso alle fonti di approvvigionamento o agli sbocchi di mercato, della struttura dei mercati, della situazione competitiva dell’industria nazionale, delle barriere all’entrata sul mercato di imprese concorrenti, nonché dell’andamento della domanda e dell’offerta dei prodotti o servizi in questione”. Su tali questioni, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato conserva una funzione consultiva nei confronti della Banca d’Italia.
[15]Per un esame dettagliato di tali norme, vds C. LAMANDA, La vigilanza sul gruppo, in Banca impr. soc., 1992, n. 3, p. 369 e ss.; per una critica alle inadeguatezze espresse dalla L. 287/90 vds. ALESSI  e OLIVIERI, La disciplina della concorrenza e del mercato, Torino, 1991, p. 144 e ss.; G.RAGUSA MAGGIORE, Le banche e la legge 10 ottobre 1990, n. 287 sulla tutela della concorrenza e del mercato, in Dir. fall., 1991, I, p. 397 e ss.; MARCHETTI, Appunti sul regime transitorio delle partecipazioni al capitale di enti di credito (art. 27, comma 7 , L. 287/90), in Banca, borsa tit. cr. 1991, I, p. 397 e ss.; BELLI e SANTORO, Il titolo V della legge antitrust: “Norme in materia di partecipazione al capitale di enti creditizi, in Dir. banca. mer. fin. 1992, 3, p. 259 e ss.
[16]Così recita il c. 1 dell’art. 19: “La Banca d’Italia autorizza preventivamente l’acquisizione a qualsiasi titolo di azioni o quote di banche da chiunque effettuata quando comporta, tenuto conto delle azioni o quote già possedute, una partecipazione superiore al 5 per cento del capitale della banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto e, indipendentemente da tale limite, quando la partecipazione comporta il controllo della banca stessa”, completa il c. 6 ” “soggetti che, anche attraverso società controllate, svolgono in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari”, costoro “non possono essere autorizzati ad acquisire azioni o quote che comportano, unitamente a quelle già possedute, una partecipazione superiore al 15% del capitale di una banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto o, comunque, il controllo della banca stessa”.  Mentre nel primo caso è ammessa la possibilità di deroga, previo parere ed esplicita autorizzazione della Banca d’Italia, nel caso contemplato dal c. 6 dell’art. 19 è, al contrario, previsto un trattamento più restrittivo che prevede la revoca o la non concessione dell’autorizzazione nel caso di accordi, in qualsiasi forma conclusi, capaci di minare la sana e prudente gestione della banca.
[17]La normativa ha individuato le soglie di autorizzazione nel: 5%, 10%, 15%, 20%, 33% e 50% del capitale della banca e le soglie di comunicazione nel: 25%, 40%, 45%, 55% e per incrementi del 5%, fino al raggiungimento del 100% del capitale della stessa. L’analisi, qui sinteticamente esposta, viene, nei casi concreti, condotta distinguendo tra partecipazioni non di controllo e  partecipazioni di controllo, nelle banche quotate o non quotate
[18]Va peraltro precisato che le Istruzioni di Vigilanza prevedono che i soggetti che partecipino al capitale della banca in misura superiore al 2% posseggano i requisiti di onorabilità previsti dalla legge e dalle stesse Istruzioni, al Capitolo VIII, sez. I. Per coloro, persone fisiche, società o enti di qualsiasi natura, che invece, partecipino al capitale della banca in misura superiore al 5%, oltre ai requisiti di onorabilità è richiesto il possesso degli ulteriori requisiti prescritti dalla legge. La prescrizione di tali criteri vale evidentemente a garantire la sana e prudente gestione selezionando i soggetti in base alla loro correttezza nella gestione degli affari ed escludendo coloro che, in precedenza, hanno mostrato di avere abusato della fiducia loro accordata nella trattazione di transazioni di natura finanziaria.
[19]A favore di una rigida separatezza tra banche e imprese vds. A. PATRONI GRIFFI, La partecipazione al capitale ed il controllo degli enti creditizi, Atti del Convegno sul Testo unico delle leggi in materia bancaria e finanziaria, organizzato da Paradigma, Milano, ottobre 1993.
[20]P. DE VECCHIS, cit, p. 21 e Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, circ. 4 del 29 marzo 1988, aggiornamento del gennaio 1994, sez. IV “Controlli sull’assetto proprietario della banca”, punto 2, p. 6-7, relativo alle “Partecipazioni superiori al 15% o di controllo”, in cui si legge “I soggetti che svolgono in misura rilevante attività di impresa, in forma individuale o sotto forma societaria, in settori non bancario e non finanziario, per legge non possono essere autorizzati ad acquisire partecipazioni superiori al 15% del capitale delle banche, o che comportino il controllo di esse (art. 19, c. 6 del t.u.). In conformità ai criteri fissati dal CICR questo divieto non si applica qualora il soggetto interessato provi che le attività svolte direttamente, diverse da quelle bancarie e finanziarie, non eccedono il 15% del totale delle attività svolte direttamente. Se il soggetto possiede, anche indirettamente, partecipazioni di controllo in società, deve essere rispettata la condizione che la somma degli attivi di bilancio delle società non bancarie controllate non ecceda il 15% del totale dell’attivo d’impresa del soggetto richiedente e di tutte le società da esso controllate”. In tale circostanza, inoltre, l’impresa che detiene una partecipazione superiore al 15% del capitale della banca, o comunque di controllo, devono sottoscrivere un “protocollo di autonomia”, che sancisca l’impegno a mantenere la separazione banca-impresa.
[21]L’ultimo comma dell’art. 27 della L. 287/90 prevedeva, infatti, specifiche regole in ordine alle partecipazioni al capitale delle banche da parte di soggetti esteri, comunitari e non. In particolare, il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del Tesoro, previa comunicazione della Banca d’Italia, poteva vietare l’autorizzazione nel caso di operazioni di acquisizione di partecipazioni da parte di enti o imprese “che non tutelano l’indipendenza degli enti creditizi con norme di effetto equivalente (…) o applicano disposizioni discriminatorie o impongono clausole aventi effetti analoghi nei confronti di acquisizioni da parte di imprese o enti italiani”. Il Titolo V, di cui l’articolo 27 faceva parte è stata comunque abrogata dall’entrata in vigore dell’art. 161 del  d.p.r. 385/93.
[22]Analoga attenzione è riservata al fenomeno dalla L. 287/90 anche se questa si sofferma a considerare soltanto gli accordi volti a regolare l’esercizio del voto e all’art. 2 stabilisce “sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante” e continua con un’elencazione delle attività vietate. Più avanti, recita il c. 1 dell’art. 7 della L. 287/90: “Ai fini del presente titolo si ha controllo nei casi contemplati dall’articolo 2359 del codice civile ed inoltre in presenza di diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono, da soli o congiuntamente, e tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto, la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle attività di un’impresa, anche attraverso: a) diritti di proprietà o di godimento sulla totalità o su parti del patrimonio di un’impresa; b) diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un’influenza determinante sulla composizione, sulle deliberazioni o sulle decisioni degli organi di un’impresa”. Tale controllo può essere acquisito, secondo il c. 2 dello stesso articolo, dalla persona fisica o dall’impresa “che, pur non essendo titolari di tali diritti o beneficiari di tali contratti o soggetti di tali rapporti giuridici, abbiano il potere di esercitare i diritti che ne derivano”.
[23]Così stabilisce il c. 1 dell’art. 139 del t.u.:”L’omissione delle domande di autorizzazione previste dall’art. 19, la violazione degli obblighi di comunicazione previsti dall’art. 20, comma 2, (…) sono punite, salvo che il fatto costituisca reato più grave, con l’arresto da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da lire dieci milioni a lire cento milioni”.
[24]T. DI BIASE e A. MAGLIOCCO, cit, pp. 126-127; MUNARI, La legge 10 ottobre n. 287/90 ed i suoi rapporti col diritto comunitario. Primi appunti, in Dir. Fall., 1991, I, p. 173 e ss.; BELLI, Commento al Testo Unico, in Italia Oggi – Documenti, 3 settembre 1993 che parla di una stretta correlazione tra la qualità di soci e la qualità della gestione nella banca, sicché “le autorità di vigilanza possono opporsi all’assunzione della partecipazione qualora non siano soddisfatte della qualità delle persone che detta partecipazione intendano detenere”.
[25]Vds. M. PERASSI, cit, p. 32 ; R. COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 258, il quale sottolinea “sembra veramente superiore a qualunque capacità interpretativa cercare di imprigionare la “fluidità” di questa disposizione”, in accordo allo spirito della Direttiva comunitaria che ha voluto porre l’accento sull’aspetto gestionale e concreto del rapporto impresa-banche, evitando di soffermarsi su un’eccessiva teorizzazione incapace di cogliere i rapporti e le situazioni reali.
[26]R. COSTI, L’identificazione dei soci delle società bancarie, in Banca impresa e soc., 1986, I, p. 227; A.P. SODA, Commento sub. art. 9 e 10 della legge 4 giugno 1985 n. 281, in AA.VV. Codice commentato della banca, Milano, 1990, I, p. 1377 e ss.; A. TIDU, Commento all’ art. 21, in F. CAPRIGLIONE, cit, p. 132 e ss.  
[27]M. PORZIO, I rapporti banca-impresa nella normativa vigente, in Rassegna economica, 1987, p. 917; F. BELLI, Note a margine della nuova normativa di vigilanza sul rapporto banca individuo, in Dir. banca. e merc. fin., 1988, p. 472; T. BIANCHI, Le partecipazioni bancarie, in Banche e banchieri, 1981, p. 487; R. COSTI, Le partecipazioni delle aziende di credito, in Giur. comm., 1982, I, p. 123.
[28]P. BIFFIS, La banca universale italiana, in Il risparmio, 1993, pp. 1 ss.; R. MASERA, Intermediari, mercati e finanza d’impresa, Laterza, Bari, 1991; M. DE CECCO, Le imprese fra banca e finanza, in L’industria, 1988, p. 5 e ss.; R. COSTI, L’ordinamento bancario, cit, p. 533 e ss.
[29]L’art. 10 afferma infatti che “la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa”. Va peraltro sottolineato che già il c. 1 dell’art. 1 del d.p.r. 27 giungo 1985 n. 350, che recepiva nel nostro ordinamento la Prima Direttiva CEE, aveva affermato che l’attività bancaria “ha carattere d’impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano”.
[30]R. COSTI, cit., a p. 540 evidenzia che le ragioni di tale separatezza “stanno soprattutto nella preoccupazione che l’industria controllata da una banca diventi una semplice “sezione” industriale di quest’ultima, sottratta allo scrutinio del merito di credito e quindi in condizioni di ingiustificato vantaggio anche nei confronti delle imprese industriali concorrenti. Questo pericolo è meno evidente quando la partecipazione sia di minoranza: in questo caso si pongono soprattutto problemi di smobilizzo e quindi di liquidità, ma non anche di distorsione nell’allocazione del credito bancario”.
[31]Le Istruzioni di Vigilanza, infatti, evidenziano che “Le imprese in cui acquisire partecipazioni dovranno essere selezionate dalle banche e dai gruppi bancari sulla base sia dei complessivi vantaggi economici e patrimoniali ad essi rivenienti dalle relative operazioni sia dalla necessità di evitare che le nuove opportunità si traducano, per il partecipante, in un grado eccessivo di immobilizzo dell’attivo. Sul piano della stabilità della banca, la disciplina delle partecipazioni concorre con quelle più generali dei fondi propri, del coefficiente di solvibilità, dei grandi fidi e dei rischi di mercato, che realizzano forme di copertura patrimoniale e di tutela prudenziale” (Banca d’Italia, circ. 4 del 29 marzo 1988, aggiornamento del giugno 1993, Capitolo XVIII, p. 1, relativo alle partecipazioni delle banche e dei gruppi bancari). La ragione di tale cautela è infatti spiegata chiaramente più avanti, alla p. 7 dello stesso Capitolo, dove  si legge ” Rispetto alle altre forme tipiche di finanziamento, l’acquisizione di partecipazioni comporta l’assunzione di maggiori rischi connessi non solo con la circostanza che il rimborso dei diritti patrimoniali avviene in via residuale rispetto ai creditori ordinari, ma anche con la possibile fluttuazione del valore delle azioni in relazione alle prospettive economiche dell’impresa affidata”. Per una valutazione analoga vds. L. CLEMENTE, La banca “verso l’impresa: grandi fidi e legame partecipativo, in Rivista Bancaria-Minerva Bancaria, settembre-ottobre 1995, n. 5, p. 52 e ss. e G. CASTALDI, il riassetto della disciplina bancaria: principali aspetti innovativi, in Quaderni di Ricerca Giuridica n. 36, marzo 1995 p. 22.
[32]Limiti precisi sono stabiliti nelle Istruzioni di Vigilanza riguardo alle possibili assunzioni di partecipazioni in imprese non finanziarie:
1.   Vi è un limite complessivo del 15% del patrimonio di vigilanza della banca, al fine di non determinare un eccessivo immobilizzo dell’attivo;
2.   un limite di concentrazione del 3% del patrimonio di vigilanza per gli investimenti in una singola impresa o gruppo di imprese;
3.   un limite di separatezza del 15%.Vale a dire che la partecipazione di una banca in un’impresa non può superare il limite del 15% del capitale dell’impresa stessa, al fine di garantire la “separatezza” dei reciproci interessi.
      Nel computo di tali limiti, infatti, vanno considerate tutte le azioni, a qualunque titolo detenute, che comportino il possesso del diritto di voto in capo al detenente.
Tali limiti subiscono delle variazioni nel caso di:
·      Banche abilitate, vale a dire, le banche di primaria importanza che possiedono un patrimonio di vigilanza non inferiore a 2.000 miliardi e con una situazione patrimoniale soddisfacente rispetto al coefficiente di solvibilità; caratterizzate da un’ampia esperienza maturata nel comparto dell’assistenza finanziaria alle imprese e, quindi, dal possesso di capacità e di tecniche adeguate nel selezionare le domande di credito da parte delle imprese. Per queste, ove decidano d chiedere l’autorizzazione per superare i limiti ordinari, i “tetti” sono rispettivamente del: 50%, del 6% e del 15%.
·      Banche specializzate, ossia, banche di primaria importanza che hanno una struttura del passivo caratterizzata da una raccolta prevalentemente a medio e lungo termine con preclusione di quella a vista (oggi sono solo due: Mediobanca e Crediop). Queste ultime, se lo richiedono, possono essere autorizzate ad acquisire partecipazioni superiori ai limiti indicati, vale a dire, rispettivamente, del 60%, del 15% e del 15%.
[33]Nella Relazione della Banca d’Italia del 1993, pp. 312-313 viene evidenziato che il ricorso agli investimenti azionari da parte delle banche nel capitale delle imprese assume un aspetto graduale e ristretto alle principali banche del sistema, sicché, su un potenziale di partecipazione di 44.300 miliardi, nel 1993, si è registrato un utilizzo solo di 5.000 miliardi. Le ragioni di tale cautela sono infatti da ricercare nella forte crisi del sistema industriale e al mancato varo di meccanismi che consentano lo smobilizzo degli investimenti sul mercato mobiliare. La tendenza negativa appare confermata dalle Relazione della Banca d’Italia del 1994, cfr. p. 312 e ss.
[34]A. BAGLIONI, Banca universale e gruppo polifunzionale, in Banche e banchieri, n.2, 1994, p. 98; P. DESIATI, Considerazioni sulla riforma bancaria: operatività e rapporti con il sistema produttivo, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, marzo-aprile 1996 n.3-4 p. 205 e ss. e P. CIOCCA, Banca Finanza Mercato, Einaudi, Torino, 1991 pp. 85-86, in cui, a proposito dell’efficienza allocativa nella relazione imprese-progetto di investimento, viene sottolineata la centralità delle banche, le quali, “(…) attraverso rapporti di fido capaci di penetrare negli aspetti più interni dell’attività delle imprese, (possono) disporre di un patrimonio di informazioni più ricco, per quantità e qualità, di quello a cui hanno accesso gli anonimi ancorché efficienti mercati: (esse sono) quindi meglio attrezzate a vagliare il merito di credito dell’impresa”.
[35]F.M. FRASCA, Il rapporto banca impresa e la nuova normativa sulle partecipazioni, in Bancaria, 1994, n. 5, p. 14, in cui viene sottolineata la possibilità di un rafforzamento delle relazioni di clientela e l’attivazione di un collegamento tra la finanza delle imprese e il mercato dei capitali.
[36]Le Istruzioni di Vigilanza (cit, Capitolo XVIII, p. 12), infatti, raccomandano in questi casi una attenta considerazione della situazione, in modo tale da valutare la complessità e l’elevato rischio della decisione. Alle banche viene quindi raccomandato di considerare attentamente la convenienza economica di tale decisione, che risulta vantaggiosa solo se la crisi dell’impresa ha una durata temporanea, riconducibile a fattori di natura essenzialmente finanziari e non di mercato. Solo se la difficoltà può essere superata nel medio periodo, la conversione dei crediti in partecipazione viene accordata, altrimenti no. L’intervento della banca assume così un carattere di salvataggio operato secondo un preciso programma di sviluppo, che comprende:
·      la redazione di un programma di risanamento che preveda un piano di recupero non superiore ai cinque anni;
·      che il piano venga proposto da un gruppo di banche, che comprendano un’elevata quota dell’esposizione complessiva;
·      che almeno una delle banche sia di primaria importanza o, in mancanza, il piano sia sottoposto alla revisione di un soggetto di elevato standing;
·      che il soggetto di cui al punto precedente proceda al monitoraggio dei progressi compiuti e verifichi il conseguimento degli obiettivi prefissati;
·      che l’acquisizione di partecipazioni riguardi azioni di nuova emissione;
·      che la partecipazione avvenga nei limiti previsti dalle norme in materia di partecipazioni.
[37]Per un’analisi approfondita degli squilibri creati da tale approccio vds. B. IACCARINO, Il passaggio dal merito di credito all’analisi del rischio creditizio nella nuova banca europea, in Rassegna Economica, n. 4, ottobre-dicembre 1995, p. 936 e ss, ma soprattutto l’attenta analisi di A. GENERALE e G. GOBBI, Il recupero dei crediti: costi, tempi e comportamenti delle banche, in Temi di discussione della Banca d’Italia, n. 265, marzo 1996..
[38]Nella Relazione annuale del 1993, alle pp. 310-311, la Banca d’Italia ha effettuato una valutazione comparativa della diffusione della prassi dei fidi multipli in alcuni paesi, tra cui Stati Uniti, Giappone, Regno Unito e Italia. Nel caso dell’Italia, emerge che, su un campione di 1.500 imprese non finanziarie solo un terzo è ad “alta concentrazione di rischio”, in quanto un’ampia quota del debito è concessa da un’unica banca. La durata del rapporto, inoltre, è particolarmente basso, visto che solo il 18% del campione mantiene un legame con la stessa banca per oltre 5 anni. Un altro dato interessante emerge, inoltre, dall’analisi effettuata da T. PADOA-SCHIOPPA, cit.,il quale evidenzia che, su un campione di 134 banche, solo 20 concedono più del 50% del credito ad un’impresa che lo richiede. Tuttavia, nell’ultimo biennio si sono verificati dei cambiamenti comportamentali che manifestano un’inversione di tendenza. Rileva, infatti la Relazione annuale della Banca d’Italia per l’anno 1994 (Roma, 1995, p. 214) che, nel corso del 1994, è proseguita la riduzione del numero medio di affidamenti per cliente; ciò è risultato particolarmente evidente per la clientela con un credito accordato superiore a 200 miliardi, che risulta in media affidata da 26 banche, quasi quattro in meno rispetto all’anno 1993.
[39]T. PADOA-SCHIOPPA, Profili di diversità nel sistema bancario italiano, in Bollettino Economico, n. 22, febbraio 1994, p. 35* e ss.; P. MARULLO REEDTZ, A. CEOLA, A. GEREMIA, C. SCARENZIO, La prassi dei fidi multipli e l’evoluzione del rapporto banca-impresa, Milano, 1994; P. BIFFIS, La banca universale italiana, in Il Risparmio, n. 1, 1993. Per avere delle cifre precise sull’ampiezza del fenomeno degli affidamenti multipli, si può consultare l’apposita rilevazione effettuata dalla Banca d’Italia in materia di “relazione di credito tra banca e impresa”, in Relazione annuale, anno 1993, Roma, 1994, p. 310. In essa emerge che il complesso delle imprese affidate opera mediamente con 2,6 banche, segnalando un aumento direttamente proporzionale all’accrescersi della grandezza dei fidi e alle dimensioni delle imprese stesse. In quest’ultimo caso, recenti studi mostrano la diffusione degli affidamenti multipli anche in presenza di ridotte dimensioni aziendali, per esempio nella provincia di Modena. Cfr. C. BISONI, L. CANOVI, E. FORNACIARI, A. LANDI, Banche e imprese nei mercati finanziari locali, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 95 e ss.
[40]B. ROSSIGNOLI, Fidi multipli e relazioni di clientela, in Rivista milanese di economia, n. 44, 1992; M. MATTEI GENTILI, Il fido multiplo e la nuova regolamentazione dell’attività bancaria, in Banca Notizie, n. 3, 1993.
[41]A. CONFALONIERI, Aspetti dell’attività bancaria, Giuffrè, Milano, 1970 p. 228 ss.; R. BOTTIGLIA, Gestione dei prestiti e politiche di mercato nelle aziende di credito, Cedam, Padova, 1990, p. 75 e ss; G. FORESTIERI e B. ROSSIGNOLI, I prestiti, in AA.VV., La gestione della banca, EGEA, Milano, 1990, p. 225 e ss.
[42]Banca d’Italia, Relazione annuale, anno 1993, cit., p. 310.
[43]G. DELL’AMORE, Economia delle aziende di credito,  vol. I, I prestiti bancari, Giuffrè, Milano, 1965, p714-720; T. BIANCHI, I fidi bancari. Tecnica e valutazione dei rischi, Va edizione, UTET, 1977, Torino, p. 100-107.
[44]Un’evoluzione della tendenza generale verso questo modello è messo in evidenza da R. BOTTIGLIA, Modelli di valutazione del rischio di credito nel nuovo scenario bancario e finanziario, in Economia e diritto del terziario, n. 3, 1994 p. 1180, il quale nota che “Nel corso del passato decennio, in verità sono state introdotte nuove tecniche di valutazione e si è proceduto, presso buona parte delle istituzioni bancarie, a sensibilizzare maggiormente gli analisti fidi sia a considerare dati ed indicatori di efficienza economica delle imprese, sia a vagliare più attentamente le condizioni dei mercati in cui queste operano. Nelle procedure di valutazione dell’affidabilità sono entrati nuovi strumenti, si è dato maggior spazio all’analisi settoriale-ambientale, si è iniziato a considerare, seppur molto limitatamente, l’aspetto prospettico. Sono poi indubbiamente migliorate sia le procedure di monitoraggio dei rischi, sia l’accesso a fonti informative esterne e banche dati, tra cui vale la pena di ricordare soprattutto la Centrale dei Bilanci”.
[45]Contra, vds. Tendenze Monetarie, “L’emergenza sofferenze: gestione attiva e tecnologia della prevenzione”, Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana, n. 70, 1994, p. 12-13. Per un’analisi a sostegno delle posizioni espresse in questo scritto, cfr. R. CORIGLIANO, Le relazioni banca-impresa. Assetto creditizio ed efficienza allocativa, 1991, Egea, Milano e G. FORESTIERI, Rischio del credito e finanza d’impresa, in Economia e Management, , 1992, n. 6, in cui ci si sofferma particolarmente sui cambiamenti auspicabili nelle tecniche di valutazione, sui metodi di analisi e sugli interventi a carattere organizzativo.
[46]Il project financing è uno schema di finanziamento che permette di mantenere una relativa autonomia tra l’opera o il progetto da realizzare e i promotori che partecipano finanziariamente alla sua realizzazione (banche, grandi imprese, enti pubblici etc). Attualmente ha trovato impiego in progetti in cui era necessario raccogliere un patrimonio elevato per finanziare il potenziamento delle infrastrutture (impianti industriali, vie di comunicazione etc). Esso si dimostra di particolare utilità nei casi in cui il costo del progetto è talmente elevato da non consentire l’intervento di un solo (o di pochi) investitori. In tali casi, infatti, è prevista la costituzione di un’entità giuridica autonoma che provvede alla gestione dei finanziamenti. Questi ultimi sono strutturati, per quanto riguarda la durata e le modalità di utilizzo e di rimborso, in modo tale da risultare compatibili con le caratteristiche del progetto in termini di durata e di capacità economico-finanziarie.
Le banche possono intervenire in qualità di finanziatrici o di promotrici, possono costituirsi come garanti rispetto ad alcuni rischi specifici connessi al progetto o possono provvedere alla collocazione dei titoli obbligazionari emessi per finanziare il progetto.
[47]I prestiti partecipativi si distinguono in quanto sono:
     caratterizzati da una durata medio-lunga (da 4 a 7 anni);
     individuabili per il particolare rapporto esistente tra il finanziamento concesso e tra il capitale proprio dell’impresa; l’impresa, infatti, si obbliga a determinare un aumento del capitale sociale (anche progressivo) per importi rapportati all’ammontare del finanziamento e alla dinamica dei rimborsi prevista dal piano di ammortamento del prestito partecipativo (per un esame dettagliato di tale rapporto vds. A. OMARINI, Il capitale proprio, un fabbisogno per banca ed impresa, in Banche e Banchieri, n.8/9, 1993) ;
     fondati su uno stretto rapporto tra il tasso di interesse praticato e l’andamento reddituale dell’azienda beneficiaria. Viene cioè determinato un tasso base (fisso) e un’integrazione variabile del tasso base, proporzionale al reddito dell’impresa registrato durante la durata del prestito. In tal modo viene a costituirsi un diritto di partecipazione delle banche agli utili dell’impresa, che stimola le banche a prestare una maggiore attenzione ai risultati economici che l’azienda è, in prospettiva, capace di produrre.
[48]fra gli strumenti di corporate finance possiamo citare: i servizi di consulenza ed assistenza per la quotazione in borsa dell’impresa; la garanzia di sottoscrizione ed il collocamento dei valori mobiliari attraverso piazzamenti privati od offerte al pubblico; la consulenza per operazioni di fusione, acquisizioni o cessioni; la consulenza nelle operazioni di finanza straordinaria, nelle ricapitalizzazioni e nelle emissioni obbligazionarie; la consulenza per le ristrutturazioni e il risanamento; nelle operazioni di indebitamento a medio o lungo termine dell’azienda.
[49]Vds I. BASILE, Sviluppo dei mercati derivati e rapporto banca-impresa, in Notiziario Economico della Banca San Paolo di Brescia, n.3, 1996, p. 43, il quale sostiene “Il passaggio da forme di transaction banking a forme di relationship banking garantisce infatti alla banca un accesso privilegiato all’informativa interna che, nell’interesse comune, viene condivisa e non negoziata con l’impresa, a dispetto del tradizionale antagonismo. Una più attenta conoscenza della realtà aziendale consente all’intermediario di svolgere un ruolo di assistenza finanziaria ad ampio raggio, non limitandosi a svolgere una funzione di puro finanziamento, ma abbinando ad essa funzioni di investment banking, merchant banking risk management“.
[50]C. DEMATTE’, La valutazione della capacità di credito nelle analisi di fido, 1974, Vallardi, Torino; P. MOTTURA, Condizioni di equilibrio finanziario della strategia d’impresa, in Finanza, Marketing e Produzione, 1987, n. 1.
[51]G. AULETTA ARMENISE, Despecializzazione e nuove politiche dei prestiti nelle banche, in Mondo Bancario, n. 5 settembre-ottobre 1995, p. 16.

Related Posts

di
Previous Post Next Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

0 shares