Il punk tra musica e sottocultura: la genesi (parte I)

Il 1976 è l’anno in cui in Inghilterra due avvenimenti di diversa portata e significato sconvolsero l’opinione pubblica inglese: il caldo torrido che deteriorava le fondamenta delle case e il “Notting Hill Carnival”, una manifestazione di colori, musica e balli caraibici che, seppur tendenzialmente pacifica, quell’anno si distinse per una violenza incontrollata, con frotte di neri irrequieti e aggressivi che scaraventavano mattoni, e agenti di polizia che rispondevano alla violenza sconfinando non di rado nell’abuso di potere – molteplici furono gli arresti discutibili –. Più che una protesta a sfondo razziale, i tafferugli di Notting Hill si connotarono come una battaglia contro lo status quo, posta in essere da giovani neri ormai esasperati da anni di soprusi da parte delle forze dell’ordine.

Nel clima afoso e irrequieto di quei mesi, le pagine dei quotidiani inglesi presentarono per la prima volta ai lettori la parola “punk”. Lo stabile vittoriano situato al 430 di King’s Road, nel World’s End di Londra, vide la nascita di uno stile che – pur nella sua originalità – si poneva come sintesi estrema di un melting pot di forme e linguaggi giovanili solo formalmente incompatibili. Risulta pertanto dubbia la genesi del punk: ci sono David Bowie e il glitter rock, il protopunk americano incarnato dai Ramones e Iggy Pop; non mancano poi il pub rock londinese d’ispirazione mod (Gorillas) e il rhythm and blues di Lew Lewis, in un vortice irrefrenabile che unisce il reggae al northern soul. Dalla sinergia di elementi tanto contraddittori nacque il punk e la sua inafferrabilità: “il glamour rock forniva narcisismo, nichilismo e ambiguità sessuale. Il punk americano offriva un’estetica minimalista […], il culto della Strada e una tendenza all’autolacerazione. Il northern soul […] apportò la propria tradizione sotterranea di ritmi veloci e sussultanti, assoli di danza e anfetamine; il reggae la propria aura esotica e pericolosa di identità proibita, la propria autocoscienza, il proprio terrore e la propria disinvoltura. Il rhythm and blues indigeno rafforzava la sfrontatezza e la velocità del northern soul, riportava il rock alle origini e produceva un’iconoclastia assai sviluppata”. Quel caos di rumori e disordine che era il core della sottocultura e della musica punk fu trasposto abilmente anche nell’estetica del movimento, ugualmente disorganica e sconclusionata. Grazie all’arte del cut up e del bricolage, i tagli corti caratteristici dei mod andavano a completare un quadro fatto di top sadomaso e anfibi, con una spontaneità e una disinvoltura spudorate e insolenti.

Il punk si pone come elemento di sintesi massima tra rock e reggae. “Le visioni dell’apocalisse superficialmente fuse nel punk provenivano da fonti essenzialmente antagoniste – l’avanguardia letteraria e il cinema underground – ovvero, da un’estetica consapevolmente profana e terminale”. Se artisti come Patti Smith e David Bowie ammisero di sentirsi profondamente condizionati dall’ars poetica di Borroughs, i giovani punk anglosassoni, appartenenti perlopiù alla classe lavoratrice, non si lasciarono suggestionare, a prima vista, da opere letterarie o autori di sorta. Malgrado ciò, forme tipiche dell’“avanguardia letteraria” e del “cinema underground” (“attraverso Warhol e Wayne County in America, attraverso i gruppi delle scuole d’arte come gli Who e i Clash in Gran Bretagna”) risultano comunque individuabili nel linguaggio punk, sebbene non in modo limpido e manifesto. Fu all’incirca negli anni Settanta che tali influenze iniziarono a sposare l’estetica nichilista (vizi, immoralità, bisessualità, individualismo, solipsismo) e l’esaltazione del dandy “che annega nella propria opera” soggiogò il rock (“Performance” di Mick Jagger ne è un chiaro esempio). Il punk rappresenta l’acme di questa rivoluzione: il nichilismo, con il suo umore decadente, permeava il movimento nella sua interezza e ogni elemento – dalla musica, all’estetica e al linguaggio – manifestava un totale ed esasperato estraniamento da sé stessi. Era questa, pertanto, l’esasperazione massima del rock.

Altro punto di riferimento della sottocultura punk è – come detto – il reggae, il quale affonda le proprie radici in un contesto geografico e culturale estremamente preciso: l’esistenza e la realtà dei neri in Giamaica e in Inghilterra. Per dirla con Mark Kindel, “mentre il jazz e il rock riflettono spesso una frenesia anfetaminica, il reggae è sintonizzato sulla lentezza della ganja”. Coloro che più di tutti assorbirono – facendolo proprio – l’apparato estetico, linguistico e musicale del reggae furono i Clash: “l’uniforme da combattimento cachi stampata con le figure delle leggende caraibiche dub e heavy manners, i pantaloni stretti di tessuto ingualcibile, le scarpe e le ciabatte nere, anche i cappelli tipo gangster americano, furono tutti adottati in tempi diversi dai vari membri del gruppo”.

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