Il punk tra musica e sottocultura: estetica e linguaggio (parte II)

Alla parola “punk”, il dizionario attribuisce i significati di “legno marcio”, “sciocchezza”, “robaccia”, “marcio”, “fradicio”: l’intento della sottocultura evidentemente non era quello di ricercare approvazione e consensi, ma anzi quello di impressionare e intimorire il pubblico e tutto, dai contenuti al linguaggio, doveva servire precisamente questo scopo. Il punk doveva creare caos: “Siamo i fiori nella vostra spazzatura” avrebbe specificato Johnny Rotten (Johnny “il marcio”, appunto), leader dei Sex Pistols.

Esaminare l’estetica del movimento che ha sconvolto l’Inghilterra a partire dagli anni Settanta significa necessariamente analizzare le contraddizioni del glam rock e considerare il punk uno sforzo per porvi rimedio: laddove il primo infatti fondava la propria ragion d’essere nell’altezzosità, nel gusto e nella pomposità degli artisti, il punk puntava sulla celebrazione della classe operaia e della rozzezza, ricorrendo tuttavia a tale scopo allo stesso linguaggio superbo e a tratti presuntuoso dei cantanti glam, “restituendo metaforicamente il carattere della working class nelle catene e nelle guance incavate, nei vestiti ‘sporchi’ (giacche macchiate, camicette sexy trasparenti) e nel modo di parlare rude e rapido”. Il punk raccontava una generazione allo sbando, ma lo facevano in maniera beffarda e canzonatoria, prendendo in giro sé stesso mediante pose plastiche e articoli sadomaso. L’obiettivo era ribaltare le ostentazioni di eleganza e di intellettualismo proprie del glam rock – e più in generale del rock – con un’estetica indecente e quasi bambinesca. L’intenzione di destare paura divenne presto la cifra stilistica della sottocultura, tanto da impregnarne l’intero sistema estetico-ideologico: “Il concetto di terrore offriva una chiave per tutto un linguaggio segreto: un interno semantico esotico che era irrevocabilmente chiuso ai sentimenti di cristiana simpatia dei bianchi (cioè i neri sono proprio come noi), mentre la sua reale esistenza confermava le peggiori paure del bianco sciovinista (cioè “i neri non sono affatto come noi”)”. Ecco allora che il reggae, con la sua capacità di insidiare l’emotività dei bianchi e di mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza della cultura inglese, divenne l’orizzonte verso cui rivolgere lo sguardo, come testimoniato dalle immagini di “anarchia” e “distruzione” che pullulano nei testi delle canzoni (si ricordi a tal proposito “Anarchy in the U.K”, dove i Sex Pistols gridano a squarciagola “Io sono un

anticristo / sono un anarchico / […] io voglio distruggere / anarchia per il Regno Unito” e “God Save The Queen”, in cui esemplificative sono i versi “Dio salvi la Regina / il regime fascista / […] Non c’è futuro / nel sogno dell’Inghilterra”).

Il punk affondava le proprie radici nel nichilismo e nell’estraneazione dell’io e riproduceva i valori tipici dell’età contemporanea, quali la depressione, la mancanza di lavoro, il mezzo televisivo, la cultura occidentale, nella forma di oggetti simbolici da esporre (spille, espressioni sconce etc.): esso si condannava così in maniera deliberata e intenzionale a una vita di emarginazione tale da non poter “né promettere un futuro né spiegare un passato” (a differenza della cultura rastafariana dove l’isolamento assumeva contorni ben definiti, in piena sintonia con il vissuto dei “neri”). La “cresta” tipicamente punk – con chili di vaselina a fare da collante – e la sua somiglianza rispetto ai dreadlock è un chiaro esempio di quanto l’affinità con il mondo black e reggae fosse spesso chiara e manifesta.

Tra le caratteristiche principali della sottocultura punk figura poi l’utilizzo della tecnica del “bricolage”, consistente nella trasposizione di un dato elemento da un contesto – quello di nascita e sviluppo – a un altro – quello di destinazione –, tanto a livello di contenuto (ideologia, cultura) quanto a livello di forma (stile, estetica), tramite il “cut up”. Tale spostamento implicava la combinazione di oggetti estremamente diversi tra di loro che pure si ritrovavano ad assumere un significato del tutto inedito nel nuovo quadro di riferimento: si pensi all’equipaggiamento del bondage e del fetish, preso in prestito direttamente dal cinema per adulti per calcare le strade cittadine tra lo sbigottimento generale degli astanti; o anche alle varie lamette e gonne di gomma, lurex e plastica, nonché alle spille di sicurezza, che dal loro tradizionale contesto di riferimento – le mura abitative – si ritrovarono infilzate nelle guance dei giovani inglesi. Non è un caso infatti che il punk nacque proprio tra le quattro mura del negozio Sex, situato al 430 di King’s Road, frutto dell’estro e della fantasia sfrenata di Vivienne Westwood e Malcom McLaren: “Allineate sulla parete [del negozio] e sulle sbarre fisse al muro c’erano maschere in gomma elastica, strizzacapezzoli, fruste, catene, gonne in pizzo e gomma e stivali con incredibili tacchi a spillo lunghi più di una spanna”. L’obiettivo della stilista era quello di “scioccare e demistificare i simboli”, nella piena consapevolezza che fosse possibile “razionalizzare qualcosa al punto di renderlo ridicolo”: così, se il mondo della moda imponeva alle giovani donne un trucco sobrio e naturale, la Westwood le esortava a colorare i propri occhi con abbondante mascara e kajal, in modo tale da rendere i loro volti quasi degli “studi sull’alienazione”; le tinte dei capelli si facevano più vistose e andavano a completare un quadro fatto di “pantaloni a tubo di cuoio o magline di mohair rosa shocking”. Non si trattava semplicemente di un’espressività e di uno stile diversi, ma di un modo completamente insolito di intendere il concetto stesso di “estetica”. Anche nel ballo, la sinuosità e la grazia dei movimenti cedevano il passo alla “posa”, al “pogo” e al “robot”: se nella prima, nonostante essa prevedesse il coinvolgimento di due individui, “la ‘coppia’ era in genere dello stesso sesso e il contatto fisico era escluso poiché il rapporto rappresentato nel ballo era di tipo ‘professionale’”, nel “pogo” invece non era prevista alcuna forma di compresenza fisica, i movimenti erano monotoni, meccanici ed esasperati proprio come la musica; differentemente dai primi due, il “robot” era più energico e prevedeva l’assunzione di pose plastiche dalla durata indefinita, proprio come degli automi.

Originariamente, i punk “riuscirono a sostituire […] il concetto borghese di spettacolo o il concetto classico di ‘arte alta’ con l’armamento familiare degli attacchi frontali, e quindi a diffondere tali atteggiamenti con il pretesto della musica”: i concerti erano all’insegna dell’irriverenza e della sfrontatezza, il rapporto tra cantante e pubblico si faceva più diretto, spesso fisico, al punto che non di rado i locali delle esibizioni diventavano dei veri e propri ring (durante un concerto dei Clash al Rainbow Theatre nel 1977 addirittura volarono le sedie).

Una delle peculiarità più interessanti del linguaggio punk riguarda poi la carta stampata, con le “fanzine” (si pensi a “Sniffin Glue”), ossia riviste pubblicate a un costo esiguo – coerentemente con la mission della sottocultura– e vendute da piccoli rivenditori al dettaglio. Il lessico utilizzato era piuttosto immediato e a tratti triviale (erano presenti anche parolacce) tale da risultare fruibile soprattutto per la classe operaia, e non mancavano spesso errori grammaticali, giustificati dall’impellenza di pubblicare una notizia il prima possibile.

Il punk trae la propria linfa vitale dal desiderio irrefrenabile di contestazione e capovolgimento dello status quo: “Le varie unità stilistiche adottate […] erano indubbia espressione di un’aggressività, di una frustrazione e di un’inquietudine genuine. Ma tali proposizioni, non importa quanto bizzarramente costruite, erano fuse in un linguaggio che era accessibile a tutti, un linguaggio corrente”. La popolarità ottenuta della sottocultura si legava indissolubilmente all’estrema godibilità e facilità di fruizione, soprattutto nella prospettiva di una classe sociale, quella operaia, che aveva sempre vissuto ai margini della società e che ora trovava nell’isolamento volontario e consapevole quasi un motivo d’orgoglio: d’altronde, “i ragazzi vogliono morte e miseria. Vogliono rumori minacciosi perché questo li scuote dall’apatia”, gridava con violenza Johnny Rotten.

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