Si è conclusa con successo l’ultima mostra del 2019 di Mario Vespasiani, “Eschatology – Opere monumentali sul mistero ultimo”, in programma al Museo Michetti di Francavilla, in Abruzzo. Con questo appuntamento, l’artista visivo di fama internazionale ha alzato ulteriormente l’asticella della qualità di ciò che può essere offerto ai visitatori, che siano essi esperti o semplici curiosi. Classe ’78, marchigiano, vanta un esperienza già ultraventennale nel mondo dell’arte, avendo inaugurato la sua prima mostra appena diciannovenne ai Musei Capitolini di Roma e, ad oggi, avendo esposto su tutto il territorio nazionale, in gallerie, musei, luoghi di culto e in contesti inusuali. A 27 anni ha vinto il primo Premio Pagine Bianche d’Autore, figura nel libro Fragili eroi di Roberto Gramiccia, sugli artisti italiani del futurismo ad oggi e sul Dizionario dell’Arte Italiana edito da Giancarlo Politi. Per essere stato tra i primissimi artisti ad aver impiegato la sua impronta pittorica ai nuovi materiali e alle recenti tecnologie, cone gli iPad, è stato invitato a tenere lezioni, ad intervenire a conferenze e a partecipare a premi di grande rilievo in tutta Italia. Ha esposto nel 2011 al Padiglione Italia della Biennale di Venezia curato da Vittorio Sgarbi nella sede di Torino e qui con Imago Mundi alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Nel 2017 è stato in mostra a Venezia e Monaco di Baviera nella collettiva “Our place in space” promossa da NASA ed Esa che è proseguita l’anno successivo in un tour mondiale. Nel maggio 2019 è stato presentato al Museo d’Arte Contemporanea di Roma (MACRO) il quarantesimo libro dedicato al suo lavoro. Nel corso del tempo la sua ricerca ha interessato anche studiosi di discipline che vanno dalla teologia all’astrofisica, dall’antropologia alla filosofia, attirati dalla sua complessità del linguaggio, per l’originalità del tratto pittorico e per l’abilità di innovare costantemente i codici espressivi. La sua ricerca si è evoluta al punto che è già considerato uno dei più autorevoli artisti italiani viventi e tra i maggiori maestri del colore, ma il suo merito indiscusso è quello di saper valorizzare ciò che incontra, che siano luoghi, oggetti o persone. Dagli spazi espositivi, alle relazioni, dagli elementi di cui si circonda alle riflessioni che restituisce, ogni cosa sembra caricarsi del suo sguardo. Si esprime attraverso un alfabeto simbolico che si fonda sulle rivelazioni della mistica cristiana e sulla pratica alchemica della pittura. Attento osservatore delle leggi naturali e degli insegnamenti della sapienza orientale, il
suo lavoro va inteso come continuazione dell’opera creativa universale, da cui cogliere il sentimento spirituale. Con “Escathology”, la sua ultima “fatica”, per nulla intimorito dall’imponenza di una spazio museale dalla volumetria degna di un contesto newyorkese, Vespasiani ha dato vita ad un progetto site-specific, com’è ormai suo costume fare, attraverso un ciclo di dipinti monumentali e ha descritto mediante l’uso di metafore e simboli il rapporto “fisico” con l’opera, le urgenze del quotidiano e le sensazioni più impercettibili presenti nel profondo dell’animo. «In teologia e nelle religioni l’escatologia è una dottrina tesa a indagare il destino ultimo del singolo individuo, dell’intero genere umano e dell’universo. E in quanto legata alle aspettative fondamentali dell’uomo, influisce (o potrebbe farlo) sulla visione del mondo e sulla condotta quotidiana». Questa la riflessione da cui Vespasiani è partito per approfondire la sua personale indagine interiore in rapporto agli avvenimenti del panorama mondiale. Un tema di grande complessità, stimolato anche da due grandi dipinti realizzati da Francesco Paolo Michetti a fine ‘800 – “Le Serpi” e “Gli Storpi” – presenti al piano terra che raccontano il tema del Sacro ai suoi giorni, nelle quali gruppi di pellegrini, sfilano in processione circondati da animali e da un effetto evanescente che confonde primo piano e sfondo, religiosità e leggenda. Attraverso le sue installazioni Vespasiani ha dato vita ad un dialogo con queste opere, attualizzandone il messaggio alla nostra epoca. Le tele arrivano a sfiorare ciascuna i dieci metri di lunghezza e descrivono, nella loro impronta visionaria, due differenti momenti che possono svolgersi nella vita così come in un universo parallelo, in ogni giornata come in quella finale. Nella prima opera vengono rappresentati due pavoni, che al centro della composizione si affrontano in una sorta di scontro oppure in una danza rituale: qui l’autore porta a focalizzare lo sguardo verso le due estremità dove colori caldi e freddi si separano e dove l’aspetto florido e rigoglioso della natura si distingue da quella arida e gelida. Nell’altra opera uno sfondo montuoso vede lo svolgersi di una serie di apparizioni di figure simboliche, umane e di animali, leggendarie e geometriche. Anche in questo dipinto l’autore chiama ciascuno all’interpretazione di uno scenario a più livelli, che si svela passeggiandogli di fronte, dato che per le dimensioni induce lo spettatore alla partecipazione corporale oltre che mentale. Infatti per Vespasiani l’anima non sparisce insieme alla “creatura ospitante”, ma vive una trasformazione e, dunque, queste inedite opere si pongono come le prime luci di un aldilà visibile ad occhio nudo. La cosmologia e la teologia trovano allora in tali dipinti il loro itinerario, verso la pienezza e lo sviluppo di altre forme di vita, sorprendenti, ma in continuità con la storia che le ha precedute. Con “Eschatology” Mario Vespasiani ci fa affacciare dal quel varco, in cui risplende nella fine, la luce del nuovo inizio. Ma la grandezza delle sue opere risiede nella fusione tra universalità e soggettività che si fondono nella rielaborazione di ogni singolo visitatore: a ciascuno, secondo le proprie esperienze e conoscenze, si disvela un mondo proprio, che riesce a congiungersi con quelli degli altri grazie alla forte carica simbolica collettiva. L’opera di Vespasiani, nel ricevente, è “una” e contemporaneamente “multipla”, perché l’artista è tra i pochissimi contemporanei a far riferimento alle tradizioni spirituali e ad aver riflettuto sin dal principio della sua carriera sulle domande fondamentali dell’uomo, proponendo delle interpretazioni colte e ardite, efficaci nel sapiente uso della metafora e concependo la pittura come personale strumento di indagine sugli eventi del mondo, sia esso visibile che invisibile. Nell’attuale inflazione di immagini, le sue opere pur rappresentando realtà tangibili, non sono fedeli descrizione di un frammento di esistenza, ma indicano un’ascesa verso l’Uno, come se fossero una spinta che tende alla totalità. Nei vent’anni di ricerca Vespasiani si è distinto per quel sapiente uso del tono cromatico, capace di rendere l’esperienza visiva, più che concettuale, contemplativa, perché parla dei tempi quotidiani e della loro concezione ideale ed eterna. Difatti in un universo composto da sistemi aperti che entrano in comunicazione gli uni con gli altri, possiamo scoprire innumerevoli forme di relazione e partecipazione, e che ciascuno in base alla propria sensibilità può intuirne il significato, fino a percepire la bellezza misteriosa che regola gli eventi. Ma com’è creare avvolto da un simile patrimonio artistico, Vespasiani lo sintetizza così: «Di certo è molto stimolate, il patrimonio dell’arte mondiale ha una caratteristica che lo lega alla vita umana, la fragilità. Viene realizzato in un contesto mutevole, che cambia nei secoli e il tempo lo trasforma, agisce sulla superficie come nel significato. Comprendiamo e osserviamo questi tesori con occhi diversi dai nostri antenati, eppure non è minore lo stupore e l’ammirazione di fronte certe conquiste del pensiero e della maestria tecnica. Necessariamente qualcosa perderemo, forse aumenteranno su alcune superfici i graffi e i segni, come le rughe su noi stessi e andrà bene così, purché non siano atti di violenza. Nel frattempo nasceranno nuovi capolavori, altri musei e filantropi disposti a proteggerli. Abbiamo l’arma fondamentale dell’educazione, che farà la differenza tra un’umanità evoluta oppure
sottosviluppata. Poi ci sono le calamità naturali e quelle aggiungono altre pene, ma intanto iniziamo ad amare ciò che ci circonda, ciò che abbiamo ereditato, esattamente come fosse una persona, perché a quel punto sarà anche protetta». Dunque, il mistero della creazione e la trasmissione delle emozioni; lo studio e l’esaltazione della componente luminosa del colore e l’utilizzo di spazi inusuali; la predominanza, nei volti, degli aspetti psicologici, che rimettono in discussione le regole del ritratto. La “firma” di Mario Vespasiani è composta da tutti questi elementi, ma anche da quello fondamentale del “femminile”, nel ruolo sia di caratteristica del genio umano che come figura da cui trarre irpirazione. Emblematico è, a questo proposito, il progetto Mara as Muse, che Vespasiani ha concretizzato con grande successo insieme a colei che è diventata, oltre che storica musa, da qualche anno anche sua moglie. Mara è la metà femminile di Mario, il suo opposto e il suo specchio, non solo complice ma anche opera, presenza e sogno. I due sono protagonisti reali di una storia che porta con sè un certo fascino cinematografico, che rappresenta non solo arte e vita quotidiana, ma che accende l’immaginario, di chi osservandoli insieme – quotidianamente o quando presenziano alle inaugurazioni – non può che constatare un’opera totale nella loro stessa esistenza, fatta da quel raro equilibrio tra eccentricità e raffinatezza. La figura della Musa è presente nei racconti mitici fin dall’origine dell’umanità. Invocata da Omero, è giunta fino ai nostri tempi, ma con un significato decisamente mutato e ridimensionato. Un tempo intesa come complice dell’esecutore che la invita a guidare il “suo braccio” in un’opera composta a metà, sembra oggi essersi riconvertita, ridimensionata al massimo nel ruolo di attrice o modella che si presta dietro compenso al ruolo o al brand che è chiamata a rappresentare. Mario Vespasiani, invece, torna all’origine, anche perché la Musa è stata sempre presente nella sua opera creativa e con questo progetto non fa altro che evidenziare la naturalezza di un percorso che fonde arte e vita. Nessuna strategia, nessuna voglia di provocare come vogliono le attuali tendenze dell’arte contemporanea, bensì un’intenzione di testimoniare con decisione la parità dei ruoli pur nelle differenze, che a volte si invertono e perfino si fondono, ma rimanendo salde nelle proprie caratteristiche. “Mara as Muse” è una storia di vita quotidiana, ma che diventa un progetto senza precedenti nella storia dell’arte, nel quale la Musa è una donna vera e autentica fonte di ispirazione. Infatti oltre ai dipinti, le fotografie, i cortometraggi, gli oggetti concepiti e tutto il restante materiale rintracciabile on-line, il concetto Mara as Muse è stato documentato in tre libri, raccolti in un cofanetto,
dove nelle 500 pagine e in 250 immagini, i due giovani visionari danno vita ad un proprio universo. Cosa pensa, quindi, Vespasiani, del ruolo della donna nell’arte? «Avendo realizzato un progetto dedicato alla Musa come a sottolineare l’importanza del genio femminile nella vita di noi uomini, non posso che essere fiducioso e il fatto che oggi molte più donne siano più consapevoli della loro sensibilità e decisione, le porta a raggiungere livelli di eccellenza in ogni ambito e mi fa piacere notare che siano molte di più del passato e alcune anche bravissime, quelle che si dedicano alla pratica artistica». E, a proposito di futuro, cosa c’è in quello di Mario Vespasiani? «Penso che l’orizzonte sia sempre lo stesso – conclude – essere una persona su cui ci si possa contare. A quel punto come quando si getta un sasso in acqua, maggiore sarà il mio valore, tanta sarà la capacità generare cerchi, di allargare il raggio, e le cose, come gli eventi andranno dove vorranno. Il buon lavoro si vedrà riflesso nella capacità che ho di fare del bene prima alle persone che mi sono vicine, poi se sarò efficace arriverò a farlo al mio paese o perfino al mondo intero e magari a tutte le presenze che non vediamo ma che ci sono. E con questa spinta la mia opera potrà dirsi universale e la missione compiuta».