Le parole per dirlo.

Le parole che utilizziamo nominano, indicano, definiscono, descrivono gli oggetti, le situazioni, le caratteristiche, le persone, il proprio tempo e la realtà che abitiamo. È naturale, quindi, che con la presenza delle donne in cariche, che prima erano occupate esclusivamente da uomini, vengano utilizzati termini specifici. Come “rettrice”, “avvocata”, “ingegnera” e così via. E’ solo una questione linguistica?

 

Il linguaggio è fluido. Si disegna e si ridisegna sulla base dell’uso che se ne fa, dei significati che vi si attribuiscono, delle esigenze di indicare le cose e le persone nella propria esperienza quotidiana. Basta pensare ai neologismi che vengono coniati per definire gli oggetti creati dall’ingegno umano, alle parole straniere per indicare ciò che è sconosciuto in una cultura e presente in un’altra, alle contaminazioni linguistiche presenti nella lingua o nei dialetti che utilizziamo oggi. Come “blu” o “marrone” che derivano dal francese, “bunker” o “doberman” dal tedesco, “emoji” e “karaoke” dal giapponese, o per il numero imprecisato di termini di derivazione inglese che utilizziamo tutti i giorni (per es. “bipartisan”, “exit poll”, “jobs act”, “customer care”, “job posting”, fino al recentissimo “recovery fund”! ).

La lingua segue l’evolversi del contesto economico, sociale, culturale e politico delle società nelle diverse epoche. Si adegua per accompagnarne gli sviluppi; inventa o modifica le parole per raccontarla.

È di pochi giorni fa la notizia della nomina della prima donna al Rettorato di una delle Università più antiche d’Europa, l’Università “La Sapienza” di Roma. Dopo 717 anni, la prof.a Antonella Polimeni, è stata nominata “Rettrice” dell’Ateneo. Qualche persona ha espresso perplessità sull’uso del termine “Rettrice”: è inusuale, inesistente, complessivamente “strano” all’orecchio di chi è abituato al termine “Rettore”. Potremmo dire che è poco adoperato e suona come “nuovo” appunto perché non sono molte le donne che ricoprono questa carica. Nel caso dell’Ateneo romano sono trascorsi più di 700 anni dalla fondazione prima che il termine potesse essere utilizzato. La carica di Rettrice è quindi un segno dei tempi, in quanto non è la parola che è inusuale, ma è la nomina di una donna a tale carica a essere (stata) inusuale per molti secoli. Usarla, quindi, significa prendere atto e descrivere un fenomeno sociale e culturale in divenire e assecondare la necessità che anche il linguaggio segue questo flusso. Per amore di precisione, occorre dire che la suddetta nomina “svela” anche la necessità di un’altra evoluzione linguistica e nell’uso comune delle parole: quella di “medica”. Eh si, perché la prof.a Polimeni era la Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia, ossia una “professoressa” (termine che fa già parte della lingua comune) e anche una “medica” (termine ancora poco usato).

Precisiamo subito una cosa: i termini al femminile non sono un neologismo, perché la parola per definire un titolo, una carica, una specializzazione, una professione etc esiste già, benché declinato prevalentemente al maschile, piuttosto, rappresenta una declinazione meno utilizzata per mancanza di occasioni nelle quali impiegarla!

L’Accademia della Crusca, su questo argomento, ossia il processo in fieri della lingua italiana e la declinazione delle parole al maschile e al femminile, ha effettuato una approfondita riflessione che tiene conto non solo degli aspetti linguistici, ma dei sottesi legami con profili e implicazioni economiche, sociali e culturali. L’analisi prende in considerazione il contributo di Alma Sabatini “Il sessismo nella lingua italiana”, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, mettendo in evidenza come la figura femminile venga spesso svilita dall’uso di termini stereotipati e dal processo di svalutazione associata a quei termini. La negatività collegata a essi condiziona pertanto la scelta di utilizzare le declinazioni femminili di titoli, cariche e termini, da parte delle stesse donne. Inoltre, nelle lingue, come l’italiano, in cui le parole vengono declinate al maschile e al femminile, spesso il primo finisce per assolvere a una funzione apparentemente includente e inclusiva della seconda, finendo per assorbirlo e quindi a cancellarne la specificità.

Nonostante l’adozione di interventi mirati a incoraggiare l’uso della opportuna declinazione maschile o femminile, come quella promossa nel 2007 dalla Direttiva “Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche”, in cui si invita a utilizzare nei documenti di lavoro un linguaggio non discriminante e a promuovere percorsi formativi sulla cultura di genere, vi sono ancora forti resistenze in tale processo.

Sia nel linguaggio comune, sia nelle pubblicazioni e nel linguaggio istituzionale restano abitudini, mancanza di sensibilità e vischiosità nell’affermazione dei termini (cariche, titoli, ruoli) declinati al femminile.

Perché questa resistenza?

Le ragioni proposte sono diverse.

C’è chi lamenta una presunta “bruttezza” del termine al femminile. Certamente, parole poco utilizzate o sconosciute destano una iniziale perplessità o suonano un po’ “strane” a un orecchio non abituato.

C’è incertezza sulla “liceità grammaticale e linguistica” circa la possibilità di utilizzare le declinazioni al femminile di alcune parole, come “avvocata”, “architetta” etc.

C’è anche la convinzione che il termine al maschile sia indifferentemente utilizzabile sia per le donne sia per gli uomini, in quanto riferito alla carica piuttosto che al genere della persona che la ricopre. Una sorta di “neutro” in una lingua, come l’italiano, dove questo non esiste. Eppure, questa affermazione circa l’”universalità” del termine maschile come valido per tutte le professioni è contraddetto dalla presenza di parole che invece sono declinate rispetto al genere, come “maestra”, “sarta”, “bidella” etc. Parole che sono presenti da molto tempo nella lingua comune. Basta pensare alla “Maestrina dalla penna rossa” del libro “Cuore”. “Maestra” dunque non “maestro”.

Come mette in evidenza la stessa Accademia della Crusca, chiamata plurime volte a pronunciarsi sulla liceità o meno di declinare al femminile le parole indicanti le professioni, “le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche”

https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/infermiera-si-ingegnera-no/7368).

Insomma, più che la purezza linguistica, ciò che frena l’uso della declinazione al femminile è una resistenza al cambiamento sociale e culturale e a un più marcato equilibrio di genere nel mondo contemporaneo. Più che linguistico, si tratta di un aspetto legato alla relazione.

Abbiamo detto, all’inizio di questo articolo, che la lingua è lo strumento attraverso il quale immaginiamo, parliamo, co-costruiamo la realtà in cui viviamo in interazione con i nostri interlocutori e le nostre interlocutrici. Pertanto, utilizzare determinati termini, o al contrario non utilizzarli, esprime indirettamente la volontà di mantenere inalterata una certa realtà di riferimento, quella più familiare e più conosciuta, e forse anche più rispondente alla propria posizione all’interno della struttura di ruoli e di status di una società, per evitare che essa venga alterata e assuma forme diverse, generatrici di incertezze e di timori anche inconsci.

Sempre più spesso, nei programmi di gestione delle risorse umane da parte delle imprese, vengono organizzati corsi di formazione per sensibilizzare a un linguaggio inclusivo e rispettoso delle differenze di genere. In questi corsi, tenuti da psicologi e psicologhe, sociologi e sociologhe, formatori e formatrici viene insegnato esattamente questo……a utilizzare entrambe le declinazioni, maschile e femminile, quando si parla, per rispettare e includere entrambi i generi. Certamente, questo rende più lunghi i testi scritti e comporta la necessità di utilizzare periodi più complessi anche nel linguaggio orale, ma rende sicuramente più “accolte e accolti” tutte e tutti coloro che partecipano allo scambio comunicativo.

In mancanza del “neutro” come nel latino e in inglese….

E al posto di altri segni utilizzati nelle forme scritte, come asterischi, chiocciole, la “u”, la “x”, le barre etc.

C’è però anche un’ulteriore proposta.

In un recente scritto (“Femminili singolari”, edizione Effequ, 2019), la sociolinguista Vera Gheno, proprio in tema di inclusività della lingua, propone l’utilizzo dello “schwa”, graficamente indicato come una “e rovesciata” (ə), mentre foneticamente suona come una leggerissima e indefinita combinazione di “a” e “o”. Questo, per ripetere le parole dell’autrice, non tanto per introdurre una forma “neutra” che finirebbe per escludere entrambi i generi, quanto per “esprimere la pluralità mista in maniera sintetica”.

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