L’amicizia come antidoto alla società moderna

L’uomo moderno vive una profonda scissione: da un lato, abita una società che impone sistemi di pensiero omologanti e modelli seriali con la violenza propria dei fascismi, in quanto l’adesione ad essi è il metro per misurare la “normalità” della persona e includerla nello spazio sociale di massa, l’allontanamento e il grado di distacco dai parametri imposti sanciscono, non l’autonomia e la libera espressione, ma la condizione di “diverso” rispetto all’ordine costituito, fuori dagli schemi rassicuranti e controllabili, e provocano l’esclusione, se non la discriminazione.

Dunque ogni giorno l’uomo moderno indossa la maschera che il mondo esterno ha forgiato per lui, senza alcuna aderenza al volto, e quando compie il gesto di sfilarla piomba nell’altro lato, quello della solitudine del privato, fatta di domande e desideri inespressi perché incomunicabili alla massa sociale, e in questa solitudine avverte il vuoto e l’angoscia della sistematica negazione della propria identità che si consuma quotidianamente.

Come sottrarsi a questa dinamica? La lezione arriva dagli antichi: i Greci in mezzo alla cifra di singolare e plurale, avevano posto il “duale”, lo spazio dei due, dell’amicizia, luogo in cui non tiranneggiano i parametri socialmente condivisi e dove il vuoto di identità è riempito, l’angoscia smorzata.

“Amico” infatti è colui che soddisfa il nostro bisogno di narrazione, di ricerca di significato, che intravede il volto oltre la maschera, riconoscendo la nostra identità senza il filtro deformante del modello o del pregiudizio, ed accettandola perché “umana”, dunque affine alla propria.

Ecco che l’amicizia rivendica come unica prerogativa l’umanità e si pone solo sotto il suo dominio, includendone qualsiasi espressione, forma, orientamento, escludendone i negatori “fascisti” moderni.

Questi temi e la loro dialettica sono magistralmente messi in scena nell’ opera cinematografica “Philadelphia” di Jonathan Demme. I due protagonisti del film Andrew Becket, interpretato da Tom Hanks, e Joe Miller, a cui dà il volto Denzel Washington, appaiono l’uno il controcanto dell’altro: il primo è bianco e brillante avvocato associato a un prestigioso studio legale cittadino, il secondo è nero e anch’egli avvocato ma dalle mediocri prospettive. Si conoscono come avversari nelle aule di un tribunale e nel corso della storia la distanza tra i due sembra divaricarsi fino all’estremo: Joe rientra in quelli che sono i parametri socialmente e culturalmente condivisi e accettati, dunque inclusivi, è eterosessuale e sposato; Andrew si configura come il “diverso” per antonomasia: è omosessuale e affetto da HIV, dunque malato, escluso dalla comunità dei sani. Infatti, scoperte dai soci le sue tendenze sessuali e la malattia, viene licenziato. Andrew decide di adire le vie legali e citare in giudizio i suoi ex datori di lavoro per discriminazione. Dopo il rifiuto di numerosi avvocati di patrocinare la causa, si rivolge al suo, ormai ex, avversario. Joe si mostra riluttante, durante l’incontro pone una distanza di sicurezza tra sé e il malato e rifiuta l’offerta, prigioniero di pregiudizi meschini.

Ma quando, in una biblioteca cittadina, Joe si imbatte casualmente in Andrew, intento a sfogliare manuali di diritto ormai deciso a difendersi da solo, ecco che riconosce in quella figura ricurva, smagrita, umiliata, ma così fiera e indomita, l’uomo, il simile e il lampo del riconoscimento lo porta a risolversi a diventare il suo avvocato: annulla la distanza fisica, siede accanto a lui e in quello spazio duale nasce un’amicizia, in quello spazio leggono insieme le parole di una sentenza della Corte Suprema sulla legge di riabilitazione del 1973, che sancisce come la sola società giusta e sana sia una società che abbia come criterio fondante l’inclusione e proibisca la discriminazione, specie contro i malati, in quanto essa determina ” la morte sociale che precede e accelera la morte fisica. Questa è l’essenza della discriminazione: il fomentare giudizi su un gruppo con presunte caratteristiche “.

I due controcanti si fanno unico canto di battaglia contro la prepotenza discriminatoria dei normali. Ed è proprio al canto, di Bruce Springsteen che del film ha curato le colonne sonore, che è affidato il senso ultimo dell’opera nel brano “Streets of Philadelphia”, lungo monologo rivolto ad un amico, vincitore dell’Oscar alla miglior canzone.

Related Posts

di
Previous Post Next Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

0 shares