Nel raccontare la morte di Raffaello Sanzio nelle sue Vite Giorgio Vasari (il celebre storico dell’arte e biografo) si sofferma sugli errori dei medici, sul cordoglio dei potenti, sulle volontà testamentarie e anche sull’allestimento del suo letto di morte. Racconta infatti che una volta morto (il 6 aprile del 1520) gli fu sistemata accanto la tavola della Trasfigurazione, la quale, scrive sempre Vasari, “nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore” a chiunque la guardasse, tanto era vivo il volto dipinto da Raffaello e tanto fortemente si avvertiva la sofferenza per la perdita dell’artista e dell’uomo.
Oggi quella tavola si trova a metà del percorso della Pinacoteca Vaticana, in una sala scenograficamente allestita con arazzi (quelli per la Cappella Sistina i cui cartoni furono commissionati a Raffaello da Leone X Medici), predelle e tre grandi pale d’altare, proprio al centro tra la Madonna di Foligno e la Pala Oddi.
La Trasfigurazione era stata commissionata a Raffaello dal cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII) in occasione della nomina a vescovo della cattedrale di S. Giusto di Narbonne, per la quale l’opera era infatti destinata assieme all’altra tavola con medesima destinazione: la Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo oggi alla National Gallery di Londra.
Un confronto analogo si era stabilito tra i due pittori nella Loggia di Galatea all’interno della Villa del banchiere senese Agostino Chigi (progettata da Baldassarre Peruzzi) tra la raffigurazione raffaellesca della ninfa in fuga con il suo corteo marino e la figura possente del Ciclope che invano l’amava, dipinta da Sebastiano del Piombo qualche mese dopo.
Anche questa volta il confronto (che è sempre, in parte, anche competizione) produce grandi risultati. Sebastiano del Piombo si avvale, oltre che del proprio talento – soprattutto coloristico, figlio della scuola veneziana – anche della mano disegnativa di Michelangelo Buonarroti, ravvisabile specialmente in relazione alle figure in primo piano. Raffaello comincia più tardi la sua tavola e infatti non riesce a portarla a termine, motivo per il quale alcune finiture non sono presenti: gli allievi non hanno voluto metter mano ad una delle ultime prove pittoriche del loro maestro.
Inedita è la combinazione delle due scene rappresentate: in alto la Trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor di fronte agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni e in presenza dei due profeti Mosè ed Elia (entrambi legati al luogo ed entrambi sempre presenti, poiché caratterizzanti, nelle scene di Trasfigurazione); in basso la guarigione dell’ossesso, presumibilmente inserita in un secondo momento e forse proprio perché permetteva anche a Raffaello di lavorare con un campionario di gesti ed espressioni, pose e relazioni tra le figure. In questo modo il confronto tra i due dipinti era agevolato dal comune terreno narrativo.
La Trasfigurazione si sviluppa in verticale, secondo uno schema già sperimentato dall’Urbinate: catturato in un primo momento dalla luce bianchissima emanata dal Cristo, lo sguardo ridiscende, quasi in cerca di risposte: si aggira tra le figure del primo piano, scorge tra la folla la figura del bambino e assiste alla sua guarigione e poi, seguendo proprio la direzione indicata dal
braccio dell’ossesso e aiutato dalla posizione delle braccia di altre due figure si solleva, trovandosi prima sul Monte, insieme agli apostoli, e poi nel cielo azzurro squarciato dalla candida figura in ascesa, fino a soffermarsi, infine, su quel viso così vivo che in quel 6 aprile 1520 contrastava dolorosamente col volto senza vita di colui che ne era stato l’artefice.