La presenza di immigrati musulmani porterà alla costituzione di una banca islamica in Italia? (1).

La presenza di immigrati musulmani porterà alla costituzione di una banca islamica in Italia? (1).

Sommario: 1) Alcune premesse sul comportamento degli immigrati verso il risparmio; 2) L’ordinamento bancario italiano e i fondamenti dottrinari della prassi bancaria islamica; 3) Il comportamento delle banche italiane nel finanziamento alle imprese; 4) Alcuni contratti tipici della prassi bancaria islamica; 5) Pagamento degli interessi o partecipazione agli utili?; 6) Compatibilità del modello bancario islamico con le disposizioni di cui al Testo Unico bancario del 1993.

1) Alcune premesse sul comportamento degli immigrati verso il risparmio.

Il fenomeno dell’immigrazione in Italia è piuttosto recente e comporta la necessità di prendere in considerazione una serie di problematiche sociali, culturali, giuridiche ed economiche

Non è qui il caso di iniziare una disquisizione a favore o contro l’immigrazione, di rimarcare la sua rilevanza circa il livello degli ingressi nel Paese (legali o illegali), riguardo la necessità di una regolamentazione o l’adozione di criteri di contingentamento numerico. Non è questo il luogo o il momento per effettuare una disamina a livello di diritto penale o di politiche di accoglienza degli immigrati giunti, per le vie più diverse, nel nostro Paese. Partiamo invece dal presupposto che il fenomeno esista e cerchiamo di vedere qual è il rapporto di queste comunità con il risparmio e le sue canalizzazioni.

L’immigrato che arriva in Italia, ricorda molto gli italiani che, fino agli inizi di questo secolo, attraversavano gli Oceani o varcavano le Alpi, per andare in cerca di lavoro e di migliori opportunità di vita. Si tratta di persone che arrivano e si stabiliscono in un contesto culturale, etnico e sociale diverso da quello originario, che conservano i propri schemi culturali con cui interpretano la realtà circostante e che mantengono saldi legami affettivi, etnici e di identificazione con il Paese di provenienza.

L’immigrato arriva nel Paese di destinazione non per “svestire” la propria cultura e indossarne un’altra, ma per cercare delle diverse opportunità che gli consentano di migliorare le proprie condizioni di vita. Ciò significa che le opportunità nuove e diverse che acquisirà avranno un rilievo non soltanto economico, ma investiranno i suoi rapporti con il Paese ospitante, con l’immagine e la concezione di sé e con i rapporti che conserverà all’interno della comunità etnica, linguistica e religiosa. Ciò è tanto più vero oggi che la fisionomia dell’immigrazione è profondamente mutata. Infatti, se nel secolo scorso, e all’inizio di questo, il flusso di emigranti si dirigeva principalmente verso aree scarsamente abitate (es. Nord America, Australia e, parzialmente, il Sud America) con l’intenzione di “stanziarsi” in queste zone, ossia, di fissarvi stabilmente la propria residenza, ciò avveniva, appunto, per l’assenza di consistenti popolazioni autoctone, e quindi senza la necessità di confronti e di acculturazione. L’immigrazione di oggi, invece, ha un carattere più “temporaneo”. Ci si sposta, nella maggior parte dei casi, con l’intenzione di soggiornare all’estero per un tempo limitato, (due, cinque, dieci anni), spesso viaggiando e spostandosi frequentemente tra il Paese di emigrazione e quello di immigrazione o cambiando più volte Paese di immigrazione (a seconda delle diverse opportunità di lavoro, della presenza di parenti o gruppi amicali, etnici o comunitari, della facilità di ottenere visti d’ingresso o permessi di lavoro e di soggiorno etc). Per il Paese di immigrazione, questa situazione permette di non doversi preoccupare dell’“assorbimento” dei nuovi arrivati. Ciò comporta l’impostazione di una politica rivolta solo alla previsione di servizi come: l’allestimento di alloggi e centri di accoglienza, la predisposizione di piani aggiornati circa l’offerta di lavoro per i lavoratori immigrati etc; di politiche cioè concernenti il semplice “impiego” delle forze di lavoro provenienti dall’estero, ma non il loro “inserimento”. Per i Paesi di emigrazione, invece, si tratta di sopperire alle difficoltà di esportazione dei propri prodotti manifatturieri o delle proprie materie prime, tramite l’invio di lavoratori all’estero. La partenza di queste persone, pertanto, non segna una rescissione completa e permanente dei rapporti con la propria comunità di provenienza, ma una semplice reimpostazione a distanza dei legami.

In questa situazione, pertanto, assume un ruolo importante la questione delle rimesse e del flusso di capitali che transitano nel circuito ufficiale e non. Una volta trovato lavoro nel Paese di immigrazione e dopo essere riuscito a consolidare la propria posizione economica e professionale, infatti, l’immigrato, tramite il flusso delle rimesse, incide profondamente nel suo tessuto sociale. Entra a far parte dell’ingranaggio economico del Paese ospitante, dove vive, lavora e risparmia, e rinforza i propri legami con il Paese di provenienza. In quest’ultimo caso, si tratta di un rapporto che investe la sfera economica, quella sociale, quella familiare e comunitaria e quella etnico-culturale.

Dall’interessante ricerca condotta dalla Cariplo e dall’I.S.MU, nel 1996 (2), è possibile tracciare un identikit dell’immigrato che più contribuisce ad alimentare il flusso delle rimesse. Dalla ricerca emerge che, in prevalenza, risparmia soprattutto l’immigrato che risiede nel Paese da più tempo; colui che ha famiglia; le persone intorno ai quaranta-cinquant’anni di età e alcune comunità nazionali specifiche (es. filippina e senegalese).

I trasferimenti finanziari, in particolare, possono seguire più direzioni:

1. trasferimenti ufficiali che risultano registrati nelle statistiche e nelle bilance dei pagamenti del Paese di insediamento e di quelli del Paese d’origine. In questo caso, i movimenti avvengono principalmente attraverso le banche, gli sportelli postali e gli altri servizi finanziari;

2. trasferimenti non ufficiali, che avvengono attraverso il trasporto del denaro direttamente dagli immigrati in occasione di viaggi nel proprio Paese, alle reti informali di raccolta organizzate dagli immigrati stessi sfruttando i legami familiari o commerciali e le solidarietà comunitarie e di villaggio;

3. trasferimento di beni acquistati e riportati nei Paesi d’origine direttamente dagli immigrati (es. piccoli elettrodomestici, pezzi di ricambio, veicoli, oggetti per la casa etc);

4. trasferimenti tramite un sistema di “compensazione” finanziaria, per cui l’immigrato paga nel Paese d’approdo e con valuta dello stesso le fatture e gli acquisti di suoi compatrioti non residenti, mentre questi ultimi depositano su un conto corrente nel Paese di origine (un conto appartenente all’emigrato o alla sua famiglia) la somma corrispondente in valuta locale aumentata del tasso di interesse che tiene conto della differenza tra tasso di cambio ufficiale e tasso al mercato nero.

Le prime due fonti raccolgono il maggior numero delle evidenze e costituiscono i canali privilegiati per il trasferimento. Dai dati raccolti risulta che negli ultimi quattro anni vi è stato un aumento più che ragguardevole nel volume dei trasferimenti, provenienti soprattutto dalle città di Milano, Firenze e Roma. La destinazione privilegiata di questi trasferimenti riguarda l’Asia, in particolar modo Filippine, Cina e Hong Kong e l’area africana, soprattutto Marocco, Senegal ed Egitto. E’ interessante notare che detti trasferimenti, quantitativamente, sono collegati solo parzialmente alla consistenza numerica della comunità di immigrazione. Infatti, le abitudini ad una maggiore o minore propensione al risparmio e al relativo impiego sembra essere più legata a considerazioni culturali ed etniche anziché alla consistenza quantitativa della comunità immigrata. Così, a fronte di un’alta presenza africana non corrisponde un flusso proporzionale delle rimesse, a differenza della comunità asiatica che, benché numericamente più contenuta, registra una maggiore propensione al trasferimento dei capitali.

Per gli immigrati, infatti, il risparmio non costituisce un obiettivo secondario della propria attività lavorativa, un “di più” rispetto alla mera sopravvivenza quotidiana, ma rappresenta, al contrario, un obiettivo prioritario della propria decisione di emigrare. Per la gran parte degli immigrati, la permanenza nello Stato di emigrazione è circoscritta e costituisce l’occasione per accantonare somme di denaro necessarie a permettergli, al ritorno in patria, un’esistenza dignitosa e un’ascesa lungo la scala sociale. E’, infatti, il risparmio che l’immigrato cerca di massimizzare e non il consumo.

Dalla ricerca milanese, comunque, il dato che emerge e che qui ci interessa considerare con maggiore attenzione è il numero crescente di immigrati che decide di investire e/o depositare i soldi risparmiati in Italia. A mettere in atto tale comportamento sono soprattutto coloro che risiedono in Italia da più lungo tempo e che quindi hanno acquisito una posizione socio-professionale stabile.

E’ così possibile delineare due profili diversi del comportamento di risparmio degli immigrati:

1. quella di coloro che sono giunti da meno tempo in Italia, di età più giovane e non coniugate. Spesso si tratta di persone alla prima esperienza di emigrazione, che tendono all’“accumulazione” del denaro per l’invio nei Paesi d’origine. Qui risiede la loro famiglia, per la quale le rimesse costituiscono spesso la fonte principale di sostentamento, attraverso cui si rafforza anche l’intensità del legame affettivo e di identificazione del proprio “Io”;

2. quella di coloro che risiedono da più lungo tempo in Italia, le persone coniugate e quelle appartenenti a comunità etniche legate più strettamente da organizzazioni culturali, religiose o di assistenza (es. filippini, cinesi e senegalesi) che decidono di scindere la destinazione del proprio risparmio tra il Paese d’origine e l’investimento in Italia (es. per l’avvio di un’attività in proprio, per l’acquisto dell’abitazione, per l’acquisto di beni durevoli etc).

Si tratta, cioè, di comportamenti legati alla diversità del tipo di “immigrazione” che viene posto in essere. Il primo è tipico di un’immigrazione temporanea e finalizzata all’acquisizione di risorse economiche da destinare in Paesi diversi da quelli in cui hanno avuto origine (in questo caso il tasso di trasferimento è molto elevato), il secondo, invece, caratterizza un’immigrazione di più lunga durata e un legame più intenso tra l’immigrato e la comunità locale di inserimento, tipico di un’immigrazione di maggiore durata. Tra queste due fasce si evidenzia anche un diverso comportamento concernente le modalità attuative dei trasferimenti: mentre gli appartenenti al primo gruppo, si indirizzano prevalentemente al trasferimento diretto o alla rete parentale o amicale, coloro che appartengono al secondo gruppo si rivolgono prevalentemente ai canali bancari e postali.

Tra coloro che si rivolgono al sistema bancario le difficoltà maggiori emergono a proposito della scarsa conoscenza delle procedure, dei meccanismi di accesso, delle modalità operative, dell’uso della lingua italiana e degli ostacoli di carattere giuridico/formale. Si tratta di persone che, o non hanno mai avuto rapporti con il sistema bancario, sia esso di tipo occidentale o di altra tipologia, sia di persone che si sentono parte di un diverso modo di amministrare i risparmi e che mal si adattano a una realtà nuova, sconosciuta, reciprocamente diffidente e lontana da loro. Nel primo caso, è necessario superare l’ignoranza e la mancanza di fiducia verso l’istituzione bancaria, operando un intervento di tipo educativo sulle funzioni e i vantaggi che la banca può svolgere nel trasferimento delle rimesse. Nel secondo caso, invece, si tratta di attivare un processo di “avvicinamento”, innanzitutto “culturale”, al fine di comprendere la genesi delle barriere di comunicazione che si frappongono tra la banca e il potenziale cliente. Occorre pertanto acquisire l’abitudine a conoscere i tratti caratteristici del loro modo di interpretare la realtà per essere in grado di capire dove e in che modo l’accesso degli immigrati all’interno del circuito creditizio, economico e sociale, viene ad arenarsi. Non bisogna infatti dimenticare che questa opera di “studio” e di “avvicinamento” deve essere compiuta in primo luogo da parte del sistema bancario italiano, in quanto, se molti di questi immigrati provengono da Paesi che hanno conosciuto fenomeni di colonizzazione e di contatti più o meno forzati con la cultura occidentale e quindi la “conoscono” e ne hanno esperienza, noi invece ci troviamo a vivere a fianco di persone di cui non comprendiamo la cultura e le abitudini.

Tra i settori più importanti da considerare in questo tentativo di avvicinamento occorre annoverare il funzionamento del sistema bancario e finanziario (3) e, in particolare, la compatibilità del sistema bancario islamico con quello occidentale.

2) L’ordinamento bancario italiano e i fondamenti dottrinari della prassi bancaria islamica.

Il cardine del sistema bancario islamico può essere riassunto facendo riferimento a due principi tra loro collegati: il divieto del prestito ad interesse (riba) e la pratica dei prestiti partecipativi, con il conseguente coinvolgimento nelle sorti dell’investimento in modo proporzionale al capitale impegnato. Il sistema bancario islamico, poiché religiosamente ispirato, impone l’adozione di criteri e di modalità operative che vedano il coinvolgimento attivo delle parti, scoraggiando gli impieghi e i comportamenti parassitari, in modo da dare origine a una sorta di “insegnamento morale” accanto all’impiego economico delle risorse disponibili. E’ un sistema saldamente legato al carattere comunitario e “localistico” degli investimenti e alla diffusione di compartecipazioni, anche se di modeste entità, che vedano l’impegno diretto dei finanziatori, degli intermediari e degli imprenditori.

Il carattere “morale” e “religioso” può costituire un punto di inizio per rintracciare una base comune tra il sistema islamico e le prime esperienze bancarie europee. Anche la Chiesa cattolica ha infatti manifestato una lunga avversione al prestito ad interesse a causa della tutela dei poveri e di coloro che per vivere si affidano alla provvidenza. I poveri erano considerati l’immagine vivente di Cristo e, in particolare, essi venivano identificati con la classe dei contadini che, per la sopravvivenza della propria famiglia, erano spesso costretti a richiedere denaro in prestito. Il prestito al contadino, pertanto, veniva connotandosi più come opera di carità a favore del povero, che come investimento suscettibile di essere rimborsato.

Agli inizi del millennio, tuttavia, la società cambiò la propria fisionomia e la struttura economica ed emersero necessità prima sconosciute. In particolare, acquisirono rinnovato vigore i traffici commerciali e finanziari che da tali sviluppi vennero originati. A richiedere i prestiti, in sostanza, non furono più soltanto i contadini legati all’autoproduzione, ma i commercianti dediti allo scambio di beni per l’acquisizione di nuove risorse da impiegare. L’opera della finanza era quella di fornire le risorse economiche necessarie ai produttori e ai commercianti per accrescere il proprio ruolo ed incrementare i guadagni nascenti dagli scambi commerciali. In questo modo, il prestito di denaro andava a vantaggio di persone tutt’altro che povere. La nuova situazione pertanto esigeva una revisione della pratica finanziaria fino ad allora operante. Venute meno le remore morali ed etiche che impedivano il prestito ad interesse e che avevano a lungo frenato anche la crescita degli operatori finanziari, la nuova realtà vedeva la partecipazione di individui intenti ad accrescere le proprie finalità lucrative e l’emergere di istituti finanziari sempre più intenzionati a partecipare al gioco a pieno titolo. Ad accrescere l’insistenza di questi ultimi, vi era la concorrenza esercitata dai banchieri ebrei (che operavano con il pieno accordo della Chiesa cattolica) e la spinta innovatrice sorta con la Riforma protestante. Così, se in un primo tempo le esigenze dei trafficanti commerciali e dei produttori diedero slancio alla funzione di finanziamento, quest’ultimo fu costretto, ai suoi albori, ad operare attraverso una varietà di strumenti di finanziamento che vedevano un coinvolgimento diretto della banca nel rischio delle attività finanziarie.

Sia nel modello occidentale, sia nel modello islamico, gli intermediari finanziari hanno dovuto operare tenendo presente due importanti esigenze: quella di provvedere alla raccolta delle disponibilità economiche eccedentarie e quella di impiegare tali risorse in modo produttivo, conciliando le esigenze quantitative e temporali. Per fare questo, in particolare, il modello occidentale ha privilegiato alcuni importanti momenti:

 la certezza della restituzione. Al fine di essere agevolata nel momento della raccolta delle risorse, gli intermediari finanziari, d’accordo con le autorità politiche, hanno elaborato una serie di garanzie volte a tutelare la certezza della restituzione (specie a vista) delle somme affidate;

 la remunerazione dell’investimento, ossia, la corresponsione di una somma aggiuntiva rispetto a quella versata, non solo e non principalmente a scopo lucrativo, ma a garanzia della parità del potere d’acquisto della somma;

 l’elaborazione di una serie di misure volte ad incoraggiare il deposito delle somme presso istituti di credito, stabili e regolarmente costituiti, al fine di creare importanti riserve di ricchezza a vantaggio dei traffici commerciali e degli interessi pubblici alla libera e immediata disponibilità di somme di denaro (es. in caso di guerre).

Le esigenze di stabilità dell’intermediario finanziario rappresentano la caratteristica peculiare dell’ordinamento giuridico italiano che, specie a seguito degli avvenimenti dei primi anni di questo secolo, hanno caratterizzato la nostra legislazione bancaria. Si è diffusa, cioè, la tendenza a porre una netta separazione tra attività imprenditoriale e partecipazione delle banche al rischio d’impresa. La funzione della banca, in sostanza, è rivolta principalmente, non a finanziare le imprese attraverso un coinvolgimento diretto, ma a fungere da “garante” per i risparmiatori circa la restituzione delle somme depositate. A tale proposito, basta considerare la formulazione del 1 comma dell’art. 10 del d.lgs. 385/93 (Testo Unico delle leggi in materia creditizia e finanziaria) che così recita: “La raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria”, che viene opportunamente completato dal 1 comma dell’articolo successivo, secondo cui, “Ai fini del presente decreto legislativo è raccolta del risparmio l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, sia sotto forma di depositi sia sotto altra forma”. Fanno eccezione le assunzioni di quote di rischio nelle operazioni finanziarie e gli investimenti in titoli di rischio emessi dalle società finanziarie per i quali, tuttavia, è prevista un’accurata e dettagliata disciplina agli artt. 129 e 106 e ss. dello stesso T.U..

Le differenze nelle esperienze storiche e le considerazioni legate alla diversità degli obiettivi e delle modalità operative del sistema bancario occidentale e di quello islamico rendono pertanto necessario esaminare accuratamente i punti di contatto e le diversità tra i due tipi di ordinamento. In particolare, occorre soffermarsi sulla possibilità che una banca islamica possa operare in Italia, alla luce dell’ordinamento vigente.

Il T.U. enuncia all’art. 14 i criteri fondamentali in presenza dei quali la Banca d’Italia autorizza l’attività bancaria, prescrivendo norme dettagliate circa la forma sociale, il capitale versato, l’adeguatezza del programma di attività, i requisiti di onorabilità e professionalità dei partecipanti e degli amministratori, oltre a restringere l’attività bancaria alla raccolta presso il pubblico di fondi rimborsabili e all’esercizio del credito. A queste attività, esplicitamente riservate alla banca (art. 10), se ne aggiungono altre: il leasing finanziario, i servizi di pagamento, l’emissione e la gestione di mezzi di pagamento (es. carte di credito, lettere di credito, travellers cheques, assegni, cambiali etc), strumenti finanziari a termine (futures), contratti su tassi di interesse e di cambio (swaps), valori mobiliari, consulenza finanziaria alle imprese, gestione dei patrimoni etc.

Ciò significa che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 11 e 14 del T.U., la Banca d’Italia non potrebbe concedere l’autorizzazione alla costituzione di una banca che abbia tra i suoi scopi istituzionali quello della raccolta di fondi senza obbligo di rimborso e l’erogazione di finanziamenti nella forma della partecipazione al capitale, e quindi al rischio dell’impresa finanziaria, la cui remunerazione avvenga sulla base dei profitti ottenuti, con eventuale partecipazione alle perdite subite. Ciò, infatti, contrasterebbe con le aspettative e lo spirito delle leggi bancarie che si sono succedute nel tempo nel nostro Paese e che si ispirano alla certezza della restituzione delle somme depositate. Il venir meno di tale certezza, potrebbe, infatti, determinare una grave dissonanza, tale da pregiudicare il clima di fiducia su cui l’intero sistema bancario si trova ad operare. La banca islamica, in altri termini, potrebbe rappresentare un’alternativa valida e convincente per quei risparmiatori già abituati a tale tipo di modalità operativa, ma costituirebbe una novità non priva di pericolose “sorprese” in un contesto ambientale e culturale abituato a modalità completamente diverse. Il T.U. raccoglie, infatti, una serie di disposizioni a salvaguardia del risparmiatore e di una sua corretta informazione che non si ferma all’art. 11, ma viene sostanzialmente ampliato dagli artt. 115 e ss. il cui Titolo, non a caso, è “Trasparenza delle condizioni contrattuali”. L’intero corpus del T.U. , infatti, raccoglie una dettagliata serie di norme volte a rendere concrete nel nostro ordinamento le finalità di protezione e di incentivo al risparmio, contemplati dall’art. 47 della Costituzione, alla ricerca dell’equo contemperamento della tutela del risparmiatore e dello sviluppo del sistema creditizio secondo regole certe e trasparenti. A quest’ultimo proposito, la legge bancaria sembra dare una soluzione definitiva all’annosa questione circa la contemplabilità di forme di raccolta che prevedano, non la restituzione delle somme depositate, ma il loro impiego in capitale di rischio, quali azioni e quote di partecipazione. La soluzione restrittiva adottata dal T.U. risolve in modo inconfondibile tale dubbio, sorto in assenza di un’esplicita statuizione legislativa (4), recependo le conclusioni evidenziate dalla direttiva 780/77/CEE che precisa, al quinto considerando, che alle banche è consentito “raccogliere fondi rimborsabili…sia sotto forma di depositi sia sotto altre forme…”.

Chiarito questo punto, ossia, evidenziate le caratteristiche basilari affinché un soggetto possa trovare nel nostro ordinamento i requisiti minimi per essere considerato “banca”, dobbiamo vedere se è possibile configurare la presenza di un intermediario che, accanto alla raccolta di fondi rimborsabili presso il pubblico e l’erogazione del credito, eserciti anche la raccolta tramite operazioni di rischio e investimenti in imprese finanziarie. A questo riguardo, non sembra potersi configurare un ostacolo di carattere normativo. Il T.U. contempla infatti numerosi articoli che, accanto all’attività di raccolta e di erogazione del credito, prevede per le banche la possibilità di svolgere “ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina propria di ciascuna, nonché attività connesse e strumentali” (art. 10, comma 3). Naturalmente, dette attività dovranno essere svolte nel rispetto della normativa e dei regolamenti di vigilanza emanati dalla Banca d’Italia e dagli altri organismi di Vigilanza (es. Consob). Tali norme, in sostanza, sono volte a neutralizzare i pregiudizi potenzialmente negativi per l’intero sistema creditizio e finanziario derivante da un’insufficiente liquidità degli intermediari o da una gestione eccessivamente disinvolta dei fondi raccolti. In questi casi, infatti, limiti particolarmente stringenti deriverebbero alla banca dalla previsione, piuttosto severa, dei criteri concernenti l’investimento dei fondi e i limiti alle attività di partecipazione. Basta a tale proposito considerare le previsioni contenute all’art. 19 del T.U. che dettano precisi limiti alla partecipazione delle banche in imprese non finanziarie e viceversa.

3) Il comportamento delle banche italiane nel finanziamento alle imprese.

Memore delle conseguenze negative dei massicci investimenti operati dalle banche nel capitale di rischio delle imprese negli anni ‘20 e ‘30, la legge bancaria del 1936 ha apportato significativi limiti a detta commistione e ha consentito di sperimentare un periodo di notevole stabilità del sistema bancario. Di tale stabilità, nonostante i limiti e le carenze, hanno beneficiato gli operatori, i risparmiatori e gli imprenditori, generando un aumento degli investimenti e la crescita del sistema economico (5).

La riforma del sistema bancario, che ha trovato compimento con il d.p.r. 385/93 ha recepito questi insegnamenti pur apportando modifiche consistenti all’assetto del sistema, legate alle profonde trasformazioni intervenute nel corso degli anni (6).

Se, infatti, all’art. 10 del T.U. è stato ribadito il carattere d’impresa dell’attività bancaria (7), è anche vero che è stata promossa la despecializzazione temporale e operativa delle banche, sottoponendola al rispetto dei principi cardine della sana e prudente gestione, rinvenibili all’art. 5 T.U.. Pertanto, è necessario procedere a un’attenta analisi degli investimenti e a una politica di diversificazione del rischio per evitare il pericolo di rimanere coinvolti nelle sorti delle imprese-clienti. Investire eccessivamente nel capitale di rischio di una stessa impresa significa per le banche “scommettere” sul futuro dell’impresa partecipata e legare le proprie scelte di credito a valutazioni non indipendenti, ma condizionate dalle esigenze della partecipazione (8) e dall’andamento borsistico delle azioni dell’impresa.

La materia della partecipazione delle banche nel capitale delle imprese è regolata nel T.U. agli art. 53 e 67. Il comma 1 dell’art. 53 prevede infatti l’emanazione, da parte della Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR, delle disposizioni di carattere generale in tema di: adeguatezza patrimoniale, contenimento del rischio nelle diverse forme, partecipazioni detenibili e organizzazione amministrativa, contabile e di controlli interni. Si tratta di disposizioni riportate integralmente all’art. 67 in riferimento ai gruppi bancari e completate dalla normativa secondaria.

Nella normativa di Vigilanza, emanata dalla Banca d’Italia (9), viene innanzitutto sottolineato che l’acquisizione di partecipazioni rappresenta una nuova opportunità di assistenza finanziaria alla clientela, diversa e complementare alla gamma di strumenti di sostegno finanziario alle imprese. Tuttavia, in relazione ai maggiori rischi insiti nella natura stessa di tale rapporto, si richiama la necessità che le banche si dotino di strutture e di procedure interne idonee a presidiare i rischi insiti in tale forma di sostegno. Viene inoltre ribadita l’attenzione posta dalla Banca d’Italia, nel valutare le richieste circa i limiti massimi di operatività in tale ambito, all’esperienza maturata dalle banche nel comparto dell’assistenza finanziaria alle imprese e ai risultati conseguiti e alla capacità del banchiere di selezionare le stesse in base alla loro capacità imprenditoriale, scegliendo tra queste le più meritevoli. Si tratta perciò di un giudizio di valutazione che viene pronunciato da un’impresa (la banca, così come è definita all’art. 10 del T.U.) nei confronti di un’altra impresa e che ha ad oggetto il merito creditizio e di fiducia nell’efficiente operatività del prenditore del credito (10).

La disciplina inoltre pone alcuni limiti (complessivi, di concentrazione e di separatezza) validi per tutte le banche e stabilisce le caratteristiche delle istituzioni che possono essere ammesse a derogare a tali limiti, in quanto si caratterizzano per l’esperienza maturata e per l’adeguatezza della struttura organizzativa destinata a selezionare la clientela (11)(12).

Qualora la situazione tecnica e organizzativa complessiva della banca non garantisca l’esercizio appropriato di questa funzione, la Banca d’Italia si riserva di revocare l’autorizzazione concessa.

A seguito della despecializzazione bancaria e della liberalizzazione, la capacità delle banche di stare sul mercato e di incrementare il proprio patrimonio dipenderà sempre più dal possesso di adeguati strumenti di valutazione dei rischi e del merito creditizio, esperienze che, per le caratteristiche fino ad ora considerate sono più vicine alle banche islamiche che non alle nostre.

L’ampliamento degli strumenti offerti e la capacità di instaurare legami più intensi e duraturi con le imprese, collegati con una più accentuata esperienza, sono le caratteristiche indispensabili per procedere ad una efficiente selezione della clientela (13). Alle banche è demandato quindi il compito di rivedere le proprie “politiche” verso la clientela, al fine di impostarle in maniera tale da soddisfare le nuove aspettative del mercato. E’ dunque necessario imparare a modellare politiche creditizie non più basate sul “merito del credito”, ma sull’ “analisi del finanziamento” delle imprese e sulla loro possibilità di successo.

Il finanziamento delle imprese in Italia si è caratterizzato secondo gli schemi della “specializzazione” operativa e temporale dell’attività delle banche, regolata dalla Legge bancaria del 1936, cioè prevalentemente a titolo di credito, senza intervenire nel capitale di rischio delle imprese. La specializzazione temporale, inoltre, ha suddiviso l’intervento tra il comparto dei prestiti a breve termine (riservato alle aziende di credito) e quello a medio-lungo termine (lasciato agli istituti di credito speciale), contribuendo alla frantumazione dell’intervento e svincolandolo da un’analisi “globale” dell’impresa debitrice.

Il modello di valutazione dell’affidabilità bancaria che ha trovato diffusione nel nostro sistema creditizio si è basato fondamentalmente su due fattori che servono a delineare il legame profondo tra le politiche dei prestiti e i procedimenti di selezione della clientela.

Il primo è da rintracciare nell’attenzione posta prevalentemente all’ accertamento dell’esistenza di garanzie sufficienti a coprire l’esposizione creditizia della banca (14).

Il secondo fattore, caratteristico del nostro sistema bancario (15), è da ricercare nella prassi di un forte frazionamento del portafoglio, con l’assunzione solo parziale del rischio complessivo dell’impresa, vale a dire, il fenomeno dei fidi multipli e il concorso di più banche al finanziamento dell’impresa (16).

La prassi dei fidi multipli ha in sostanza permesso di realizzare una sorta di collettivizzazione del rischio, ripartendolo, secondo la quota di affidamento concesso, tra i singoli partecipanti (17). La limitatezza del rischio ha pertanto spinto spesse volte le banche a disinteressarsi dal compiere un esame più approfondito della situazione economica, patrimoniale e di sviluppo del prenditore del credito. La molteplicità delle relazioni bancarie, inoltre, è stata favorita anche dalle scelte del debitore di diversificare il “proprio” rischio creditizio, vale a dire di assicurarsi in qualunque momento la copertura dei propri fabbisogni finanziari e aumentare le proprie condizioni di competitività nella negoziazione dei prestiti.

Spinto all’eccesso, questo comportamento ha portato a conseguenze assurde, per cui, in presenza di sufficienti garanzie reali, soprattutto immobiliari, si è proceduto alla concessione del credito a prescindere dalla meritevolezza economica dell’impresa. L’atomizzazione degli interventi creditizi, inoltre, ha prodotto la burocratizzazione delle procedure istruttorie, rendendole poco attente all’effettuazione di una valutazione globale della situazione dell’impresa richiedente credito. Anche il comportamento degli imprenditori, forse favorito da questa situazione, non è esente da critiche: la possibilità di ricorrere a più finanziatori con la quasi certezza che nessuno di essi avrebbe analizzato attentamente la sua situazione economica complessiva, ha incoraggiato l’eccesso di richieste di credito e il loro impiego per finalità diverse da quelle inizialmente dichiarate (18).

4) Alcuni contratti tipici della prassi bancaria islamica.

L’esigenza che contraddistingue i precetti e i divieti coranici è quella di evitare l’affermarsi di pratiche che portino una delle parti contraenti a trovarsi in una posizione di maggior debolezza rispetto all’altra. Allo stesso modo, anche la distinzione tra riba e contratto di compravendita ha bisogno di essere effettuata avendo riguardo all’elemento che evidenzi un apporto bilanciato e sinnallagmatico tra le parti. Questo elemento è stato individuato nel concetto di rischio commerciale e imprenditoriale che costituisce il fondamento per valutare la liceità dei negozi patrimoniali: solo colui che si assume il rischio della propria attività commerciale può legittimamente diventare parte in un contratto di compravendita.

Sotto il profilo ideologico e filosofico, tale sistema ha teso a riscoprire e approfondire la necessaria integrazione tra fede e azione del musulmano, in qualsiasi campo essa si esplichi. Infatti, tra i fondamenti dell’economia basata sui principi della Shari’a va considerata la funzione sociale della proprietà e la redistribuzione della ricchezza. Il proprietario assoluto dell’intero creato è, infatti, Dio e l’uomo non è altro che un mero custode di questi doni. Questi ultimi, in particolare, devono essere utilizzati dall’uomo secondo i comandamenti di Dio e devono essere destinati ai fini per cui Dio li ha creati e li ha affidati all’umanità. Ogni forma di ricchezza e di proprietà individuale della terra è destinata ad essere uno strumento per l’adempimento di scopi voluti da Dio e indicati nella Shari’a. In campo economico, ciò significa che le persone devono operare al fine di promuovere l’equità sociale, la cooperazione e la solidarietà, nonché la pari opportunità nell’utilizzo delle risorse naturali. Ad arginare i comportamenti “egoistici” e contrari alla volontà di Dio sono posti dei limiti alla tesaurizzazione e viene sancito il libero accesso della collettività e dei singoli individui ai beni inutilizzati a scopo produttivo.

Da queste considerazioni si capisce dunque la ragione delle forti resistenze all’accoglimento della pratica degli interessi: questi ultimi, infatti, rafforzano la tendenza all’accumulazione del capitale nelle mani di una minoranza, scoraggiando l’impegno lavorativo e produttivo. Essi sono contrari ai principi di equità e di uguaglianza che sono alla base di tutti i rapporti economici. Ogni attività economica, pertanto, deve essere giudicata, non in base alla redditività dell’investimento, ma in base a una valutazione etica dei suoi risultati. Infatti,

“(il riba) non è soltanto una questione di lecito o illecito. E’ una questione connessa con la filosofia della funzione del capitale messo al servizio della società, ovvero utilizzato per la sua distruzione” (19).

Inteso in questo senso, il riba non concerne più esclusivamente la liceità o meno del pagamento dell’interesse sui crediti, ma coinvolge aspetti relativi alla redistribuzione della ricchezza, all’uso del denaro e dei beni in generale. Secondo il modello islamico, infatti, il controllo morale deve riguardare ogni singolo aspetto della vita di un individuo e della collettività, sia esso sociale, culturale o economico.

Le banche islamiche, comunque, effettuano una serie di operazioni non molto diverse da quelle che siamo abituati ad aspettarci da qualsiasi altro istituto di credito. In particolare, esse accettano depositi dai clienti e procedono ad investire i fondi ricevuti; costituiscono fondi comuni d’investimento; procedono al finanziamento delle imprese, soprattutto attraverso la partecipazione diretta o indiretta al capitale di esse etc. Quest’ultimo sistema, che prende il nome di “Profit-Loss Sharing System”, caratterizza profondamente il procedimento di raccolta e impiego del risparmio. I depositi bancari islamici, infatti, hanno una duplica natura: da una parte, essi sono depositi gratuiti (es. conto corrente, depositi a vista etc), in quanto non è contemplata alcuna forma di remunerazione a vantaggio del depositante; dall’altra, esistono i depositi partecipativi, che vengono remunerati sulla base dei profitti derivanti dall’attività finanziaria della banca (20). Nel primo caso, la banca può impiegare le somme depositate e garantisce la restituzione, per intero, in qualunque momento, della somma versata. In questi casi, pur non esistendo una codificazione precisa, i clienti che detengono depositi di un certo ammontare possono essere ricompensati, alla fine di ciascun anno finanziario e a discrezione della banca, con doni in natura, con piccole donazioni in denaro o con alcune facilitazioni nell’accesso al credito per il finanziamento di progetti, ovvero, per l’acquisto a rate di beni di consumo o beni strumentali. Poiché non vi è un sistema di pagamento di interessi, i clienti della banca, molto più rigidamente che nelle banche non islamiche, possono prelevare ed emettere assegni solo nel limite dei depositi detenuti in conto.

Nel caso, invece, di depositi partecipativi, consideriamo varie forme di conti di investimento, ossia, di depositi vincolati a termine. Vi possono essere strumenti destinati al finanziamento di un progetto specifico, ovvero, strumenti volti a raccogliere fondi per lo svolgimento dell’ordinaria attività bancaria attraverso contratti di mudaraba o musharaka gestiti dallo stesso istituto. In questi casi, è necessario che il depositante conferisca mandato alla banca, specificando la tipologia del contratto a cui intende fare riferimento per l’investimento delle somme da lui depositate. In assenza di tale precisazione, normalmente, la banca può impiegare le somme liberamente oppure può procedere alla creazione di fondi di investimento in cui fare affluire tali risorse. In questo caso, viene creato uno strumento che, oltre a raccogliere un fondo per investimenti di dimensioni maggiori, serve a rendere più trasparente la gestione dei capitali ai fini del controllo etico-religioso da parte del risparmiatore, degli organi di controllo della banca e del Consiglio di controllo sciaraitico. Le condizioni che regolano ciascun conto islamico di partecipazione sono generalmente contenute in un contratto di mudaraba stipulato tra la banca e il cliente in cui:

la banca si impegna a versare i capitali in un conto di partecipazione distinto dagli attivi di gestione della banca e dagli attivi degli altri conti di partecipazione con scadenza diversa;

i fondi di partecipazione non possono essere impiegati per soddisfare i creditori della banca;

i fondi di partecipazione vengono investiti secondo criteri consoni ai dettami islamici con l’approvazione e la sorveglianza del Consiglio di controllo sciaraitico della banca;

i costi di gestione del conto di partecipazione sono a carico della banca;

a titolo di corrispettivo per i servizi di amministrazione, la banca riceve un compenso fisso predeterminato sul profitto realizzato con l’investimento del fondo.

Se una critica può essere rivolta a tale sistema di gestione dei depositi questa è sicuramente quella della scarsa tutela dei depositanti dovuta all’estensione del principio partecipativo e all’assunzione di rischio derivante dall’investimento. Solo a condizione che l’investitore partecipi delle alterne vicende del progetto o dell’impresa finanziata, vi è la legittimazione di quest’ultimo a partecipare a qualunque beneficio di carattere pecuniario. Rispetto al sistema bancario occidentale, la carenza di precise regole che garantiscano la restituzione dei fondi raccolti, rappresenta quindi un punto di profonda divergenza nel modo di operare dei due intermediari.

Il sistema partecipativo adottato dagli istituti islamici ha come conseguenza immediata la impossibilità di una predeterminazione di un tasso fisso e positivo di remunerazione del capitale, poiché, come abbiamo visto, questo dipende dall’esito favorevole o sfavorevole dell’investimento a cui è stato destinato. I contratti di investimento si distinguono in strumenti direttamente partecipativi e in strumenti indirettamente partecipativi.

Gli strumenti direttamente partecipativi assumono la forma di contratti societari e trovano la loro origine nelle pratiche in uso nell’Arabia pre-islamica e nel loro riadattamento alle esigenze religiose e alla pratica contemporanea (es. musharaka e mudaraba). In questi casi, la banca riceve una percentuale predeterminata di utili in proporzione alla propria quota di conferimento e sopporta i rischi connessi con l’esecuzione del progetto e con l’eventuale fallimento dell’impresa.

Dato l’alto tasso di rischio insito in questo tipo di contratti, gli istituti islamici tendono a preferire impieghi a breve e medio termine, sotto forma di contratti indirettamente partecipativi (es. murabaha, bay al-muaggal, salam, ijara, ijara wa iqtina). In questo caso, infatti, si ha una forma di credito su immobili, beni strumentali o merci, intestati alla banca, e di cui quest’ultima può disporre cedendoli successivamente al beneficiario. La banca trae il suo profitto dal prezzo di vendita del bene mobile o immobile, dal canone di locazione e dalle provvigioni per i servizi prestati, ed è condizionato dall’utilizzazione del bene da parte dell’imprenditore, dal reddito che questi ne trae e dal rischio finanziario dell’operazione. La caratteristica principale di questi contratti risiede nell’interesse diretto che ha la banca per quanto concerne i risultati economici conseguiti dall’impiego dei fondi erogati, e che le dà il diritto di partecipare, secondo precise quote percentuali, agli utili conseguiti.

Vediamo ora alcuni dei più comuni contratti bancari islamici.

Il contratto di mudaraba prevede che uno o più capitalisti affidi il capitale a un agente, affinché quest’ultimo lo amministri e lo investa in operazioni commerciali, solitamente predeterminate, restituendolo, alla fine, accompagnato dalla quota di profitti e decurtato della remunerazione per il lavoro svolto. Il rischio finanziario, pertanto, è totalmente a carico della parte che conferisce il capitale, in quanto, se il capitale o parte di esso va persa per colpa non imputabile all’intermediario, quest’ultimo non è tenuto a reintegrarlo e tutte le perdite gravano sul finanziatore. Vige, infatti, il principio dell’equa partecipazione al rischio dell’impresa: il capitalista perde il denaro, mentre l’intermediario non viene ricompensato per il suo lavoro.

Il mudaraba, come abbiamo detto, costituisce un “contratto tipo” molto usato nei Paesi di tradizione islamica, poiché sortisce due importanti funzioni: di far fruttare il capitale attraverso operazioni commerciali e di procurare un finanziamento ai commercianti che altrimenti non potrebbero disporre di mezzi finanziari adeguati.

Il mudaraba si perfeziona con la consegna effettiva del capitale nelle mani dell’agente, ma diventa obbligatorio solo con l’inizio dell’esecuzione. Al capitalista, tuttavia, è concessa la possibilità di recedere dal contratto in qualunque momento, quando sorgono dubbi sul risultato dell’operazione o viene meno il rapporto di fiducia con l’intermediario. Il rapporto fiduciario, infatti, costituisce un carattere essenziale del contratto ed è indice della stima che il capitalista nutre verso l’agente, il quale viene sollevato dalla responsabilità di eventuali perdite del capitale a lui non imputabili. L’elemento fiduciario implica, pertanto, l’obbligo per l’agente di agire sempre di persona (senza possibilità di delega ad altri) nel compimento degli atti rispondenti agli obblighi contrattuali.

La “partecipazione” di ciascuna delle parti in causa al rischio di perdita, alla ripartizione proporzionale degli utili e all’apporto di mezzi materiali o professionali per realizzare l’investimento, rappresenta uno strumento importante per la pratica bancaria halal (lecita).

Il vantaggio del credito partecipativo è da individuarsi nel maggior impegno che l’imprenditore/debitore dedica al positivo compimento dell’attività intrapresa, attraverso un’ accurata gestione del progetto, poiché egli è più motivato dalla prospettiva di ottenere dei benefici finanziari finali. Naturalmente, la prima difficoltà del prenditore del credito è quello di convincere la banca della validità della sua proposta. Infatti, mentre nei sistemi tradizionali occidentali, la banca accerta in primo luogo la capacità di credito del cliente per essere sicura della sua solvibilità, nelle banche islamiche, il primo esame riguarda la possibilità di successo del progetto (la posizione finanziaria del cliente viene infatti valutata solo in un secondo tempo).

Il contratto di musharaka, invece, è una società tra la banca che eroga il capitale e il cliente/imprenditore. Entrambe le parti conferiscono una quota del capitale necessario per un dato investimento e ripartiscono gli utili (o le perdite) da esso derivanti secondo precisi canoni di proporzionalità. Si tratta di una società in cui le parti pongono alcune limitazioni o allo scopo, o al mandato, o all’ammontare del conferimento, mentre il capitale conferito può essere limitato a una precisa somma o prevedere un conferimento illimitato esteso a tutto il patrimonio disponibile. Quest’ultimo pertanto assomiglia molto alla società a responsabilità illimitata o società in nome collettivo del nostro ordinamento.

Dal punto di vista della pratica bancaria, il contratto di musharaka è paragonabile a quegli strumenti che prevedono forme di credito partecipativo, come l’ equity financing, il merchant banking o le joint ventures. Vale a dire, interventi di partecipazione nel capitale di rischio di un’impresa già esistente o in via di costituzione. La banca, quindi, assume partecipazioni temporanee nelle imprese finanziate, divenendone socia. I titoli acquistati, dopo un certo periodo, sono nuovamente trasferiti all’impresa o collocati sul mercato a breve o a medio periodo. Il rischio che la banca decide di correre con il contratto di musharaka è sicuramente molto alto, per cui, esso viene solitamente stipulato per la partecipazione al finanziamento di imprese di cooperazione commerciale o di aiuto allo sviluppo a carattere internazionale. In tali casi, infatti, è molto frequente il ricorso a tecniche di co-finanziamento con altre banche (islamiche e non) o con organismi finanziari internazionali in progetti in cui la banca provvede, oltre che al lato creditizio, anche ad assicurare interventi per il monitoraggio e l’assistenza tecnica e amministrativa necessaria. In questo caso, il musharaka consente alle parti di superare, attraverso un accordo che preveda la reciproca assunzione dei rischi, i numerosi divieti posti dalla legge islamica nel caso, ad esempio, della fluttuazione dei tassi di cambio. In quest’ultima circostanza, infatti, trattandosi di una situazione aleatoria, il diritto musulmano vieterebbe la stipulazione del contratto, poiché una delle parti potrebbe ricavarne un ingiustificato arricchimento. Per ovviare a tale pericolo, la legge coranica impone che la consegna e il pagamento avvengano contemporaneamente, ossia,“dalla mano alla mano”. Con la stipulazione di un contratto di musharaka, invece, la banca apporta come capitale il valore delle merci e il compratore il relativo prezzo d’acquisto. In tal modo, entrambe si assumono il rischio della variazione del tasso di cambio e dei profitti derivanti dalla vendita dei prodotti.

Il contratto di musharaka può essere utilizzato anche nell’ambito di finanziamenti internazionali, per quanto in questo caso occorre vedere come la pratica islamica si concilii con i rapporti sia con le banche sia con gli operatori non islamici. La pratica di tali finanziamenti insegna che occorre avere presenti una serie di rischi che è possibile correre e gli strumenti approntati per farvi fronte, ad esempio, i derivati (swaps, caps, collars etc) per ovviare ai rischi dei tassi di cambio e di interessi. Ma questi sono gli accorgimenti operati dalle banche di tipo occidentale. Le banche islamiche invece, per essere in regola con i precetti religiosi, hanno preferito stipulare degli accordi partecipativi in cui entrambe le parti sono chiamate ad assumersi proporzionalmente i rischi e i vantaggi delle operazioni commerciali internazionali. Usando i contratti di mudaraba e musharaka, gli istituti finanziari realizzano le loro possibilità di profitto attraverso l’esito positivo dell’impresa o del progetto finanziato. Ciò significa che, nell’impossibilità di stipulare forme di assicurazione e di garanzia che la salvaguardino dai possibili rischi ed errori, la banca islamica si trova, rispetto alle omologhe occidentali, in una posizione di maggiore debolezza. A ciò si aggiunge la mancanza di un mercato interbancario islamico al quale esse possano rivolgersi per recuperare liquidità in caso di difficoltà. Per tali ragioni, i progetti di credito e di investimento sono stati a lungo limitati, geograficamente e temporalmente, in maniera tale da consentire il loro svolgimento in un mercato più conosciuto e quindi più “sicuro”.

Il contratto di musharaka può anche assumere una connotazione particolare quando viene stipulato a favore di artigiani o di piccole imprese (musharaka mutanaqisa). In questo caso, la banca diventa socio dell’imprenditore nel finanziare un progetto produttivo. Essa, in cambio, partecipa proporzionalmente alla suddivisione degli utili derivanti e conserva il diritto di trattenere una parte del profitto per reintegrare la somma originariamente versata come anticipo per il finanziamento. La quota che la banca riceverà, in questo caso, sarà pertanto decrescente di anno in anno, mentre, nel contempo, l’imprenditore conserverà un quota via via crescente del capitale dell’impresa.

A seconda del rischio e delle finalità del progetto, la banca interveniente determina la quota di partecipazione e, quindi la quantità di rischio, che essa è disposta a sopportare. E’ pertanto fondamentale per l’istituto creditizio, prima di stipulare il musharaka, di saper valutare la situazione finanziaria dell’azienda, la situazione economica e giuridica e la probabilità di raggiungere i risultati prefissi. L’esperienza relativa alla valutazione del merito creditizio in possesso delle banche islamiche rappresenta, pertanto, un aspetto molto importante della capacità di stare sul mercato ed è spesso superiore alla competenza posseduta dalle banche commerciali occidentali.

Un altro importante strumento di credito alle imprese è il contratto di murabaha. Esso si configura come la rivendita di un determinato bene, acquistato su richiesta di un terzo. La banca trattiene per sé una percentuale del profitto che il terzo trae dall’utilizzo del bene, in aggiunta al prezzo iniziale dell’acquisto. Sicché, la banca acquista ad un dato prezzo il bene richiesto dal cliente e, in seguito, lo rivende a quest’ultimo a un prezzo maggiorato concordato al momento della stipula del contratto. Il pagamento, generalmente, può avvenire sia in contanti, sia con rateizzazione a sei o a nove mesi. In questo modo, poiché vi è un accordo scritto e il prezzo di cessione del bene dalla banca al cliente è già predeterminato, anche se si verifica una discrepanza tra il momento dell’acquisto e il momento in cui la proprietà del bene viene trasferita, non si determina una situazione contrastante con i precetti della Shari’a.

Con la murabaha, gli istituti finanziari non partecipano direttamente ai profitti e alle perdite, come nel contratto di mudaraba e musharaka, ma assumono un ruolo simile a quello di un intermediario finanziario, con la differenza che la proprietà dei beni viene trasferita direttamente all’ente che eroga il credito. Si tratta, quindi di un doppio contratto di vendita: uno tra la banca e la società fornitrice del bene e l’altro tra la banca e il cliente. Il secondo contratto, tuttavia, è sottoposto a una doppia condizione sospensiva temporanea, in quanto gli effetti non si producono fino a quando il primo contratto non sarà stato perfezionato (ossia, il bene sia passato nella disponibilità della banca) e la sua proprietà non passerà al cliente fino a quando questi non avrà versato la somma concordata (i.e. prezzo iniziale maggiorato delle spese di intermediazione).

Il contratto di ijara wa iqtina, invece, molto utilizzato dagli istituti bancari di diritto musulmano, mantiene fermo il carattere trilaterale del leasing finanziario: il finanziatore/locatore concede all’utilizzatore/locatario l’uso del bene di cui quest’ultimo ha bisogno e che ha richiesto e scelto, in nome del finanziatore, presso il venditore. La banca, dunque, sopporta il rischio di un eventuale mancato esercizio del diritto di opzione d’acquisto da parte dell’utilizzatore al termine del periodo di locazione e alla conseguente necessità di provvedere alla cura, alla successiva vendita o alla restituzione del bene al fornitore. Una volta perfezionato, il contratto avrà durata generalmente corrispondente alla vita economica del bene. Il momento d’inizio del rapporto di locazione dipende, anche in questo caso, dall’effettiva disponibilità del bene da parte dell’acquirente/finanziatore; se, infatti, il contratto iniziasse a produrre i suoi effetti in un momento anteriore, che equivarrebbe al caso del locatore che concedesse l’utilizzo di un bene che non è ancora entrato nella sua sfera di disponibilità, mentre se esso avesse una decorrenza successiva, il locatario goderebbe del bene senza titolo e dunque ne ricaverebbe un ingiustificato arricchimento (sarebbe, dunque, riba).

La differenza rispetto al contratto di murabaha, dunque, risiede nel diverso lasso temporale generalmente considerato e, quindi, nello slittamento del momento traslativo della proprietà: a medio e lungo termine nel caso dell’ ijara wa-iktina, a breve periodo nel caso di murabaha. Un punto in comune tra questi contratti è costituito dal rapporto diretto che il cliente instaura con il venditore per la scelta del bene, fissandone le caratteristiche ed eventualmente il prezzo, e liberando quindi il finanziatore da qualsiasi responsabilità per l’eventuale inadeguatezza. I rischi derivanti dall’acquisto della merce gravano, di conseguenza, esclusivamente sull’acquirente/locatario. Gli obblighi della banca consistono nel consegnare il bene oggetto del contratto, mentre il locatario è tenuto a pagare il canone e a conservare la cosa secondo la sua destinazione. Il mancato adempimento di uno di questi obblighi determina la risoluzione del contratto.

5) Pagamento degli interessi o partecipazione agli utili?

A prescindere dalle valutazioni di carattere morale, dagli obblighi sanciti dai testi religiosi e da considerazioni legate alla struttura culturale e alle tradizioni di particolari aree geografiche, è forse opportuno soffermarsi su una valutazione comparativa delle ragioni, pro o contro, la scelta di uno dei due sistemi.

Messi a confronto le differenze possono essere meglio evidenziate nel seguente modo:

 per quanto riguarda il fattore “giustizia”, il sistema basato sulla corresponsione di un tasso di interesse premia colui che detiene un conto corrente presso una banca, per il solo fatto di avere depositato i risparmi presso l’azienda di credito, a prescindere dal buon fine dell’impresa o del progetto sovvenuto. Ciò significa che il risparmiatore non corre alcun rischio, ma ha la possibilità di trarre un vantaggio certo dal fatto di accantonare determinate somme di denaro. Si può sempre sostenere che, in questo modo, il “sacrifico” del risparmiatore sta nel fatto di perdere temporaneamente la disponibilità del denaro e di rimandare a data futura ma incerta la spendita dello stesso. Così facendo, il rischio della perdita del valore reale della somma, dovuta a fenomeni inflattivi, viene, almeno in parte, compensato dal pagamento del tasso di interesse. E’ anche vero che il risparmiatore non è a conoscenza delle scelte di impiego delle somme da parte della banca, non vi compartecipa e né è sua intenzione diventare direttamente il co-finanziatore dell’impresa prenditrice di credito. Lo scopo del contratto di deposito o di conto corrente non contempla quello dell’investimento del denaro, ma quello del suo deposito irregolare e della maturazione del tasso di interesse (nell’ammontare fissato dalla legge o secondo gli usi, ma comunque in maniera trasparente). Senz’altro, quindi, la compartecipazione del risparmiatore, secondo il sistema bancario islamico, corrisponde a una diversa tradizione, a una finalità peculiare perseguita dal contratto e impegna, sia la banca sia il depositante, nell’assumersi i rischi della scelta compiuta, insieme all’impresa o al responsabile del progetto sovvenzionato. Sembrerebbe, pertanto, che il sistema di diritto islamico sia più “giusto”, in quanto coinvolge e responsabilizza tutte e ciascuna delle parti a valutare meglio le occasioni di impiego dei fondi. In pratica, se nel sistema di tipo occidentale la parte più avvantaggiata risulta il risparmiatore, nel sistema di tipo musulmano, la parte che sopporta il rischio più contenuto è il prenditore del credito/imprenditore e, in minor misura, la banca stessa. Quest’ultima, tuttavia, almeno nei sistemi completamente islamizzati o in Paesi in cui vi sono due o più istituti di diritto islamico, ha comunque un problema di “immagine” da tutelare, a fronte di possibili “investimenti sbagliati”;

 per quanto concerne, invece, il problema della “migliore allocazione delle risorse”, vediamo che il sistema islamico offre strumenti più idonei a selezionare gli investimenti maggiormente redditizi. L’imposizione di un onere fisso, come il tasso di interesse, infatti, porta a una distribuzione delle risorse meno efficace di quanto non accada con la partecipazione agli utili. In quest’ultimo caso, infatti, i fondi vengono convogliati verso i progetti con le maggiori prospettive (potenziali) di redditività. Nel sistema basato sui tassi di interesse, invece, viene premiata non la redditività, ma il merito creditizio;

 per quanto concerne la “stabilità”, un sistema basato sulla partecipazione agli utili vede il costo del capitale adeguarsi automaticamente alle oscillazioni della produttività causate da un mutamento del clima economico, in quanto, vi è un continuo equilibrio tra afflussi di cassa e obblighi di pagamento di un’azienda. L’imprenditore sa precisamente che il progetto che intende perseguire è totalmente “coperto”, ha un flusso in entrata certo, non variabile e, soprattutto, comporta la compartecipazione agli utili e alle perdite dei suoi finanziatori. Si crea una sorta di società, limitata nel tempo e nell’oggetto del contratto, in cui ciascuno apporta le proprie risorse, professionali e di capitali, per il perseguimento di un determinato scopo. Quest’ultimo, una volta raggiunto, positivamente o negativamente, determina la fine della società e del contratto. Le parti, se lo desiderano, possono decidere di stipulare un nuovo contratto o di trovare dei nuovi partecipanti;

 per quanto riguarda invece la “crescita economica”, questa, in un sistema basato sulla partecipazione agli utili è destinata a aumentare. Infatti, la disponibilità di capitali di rischio da impiegare in investimenti aumenta, mentre il costo del capitale è contenuto ed è inferiore alla produttività.

La nostra analisi del sistema bancario islamico ha preso inizio dalla considerazione che le scritture religiose islamiche proibiscono la pratica del tasso di interesse. A partire da questa premessa, che costituisce il sostrato culturale e il punto focale della nascita di un’alternativa alla pratica bancaria come la conosciamo noi, va evidenziato un aspetto particolare: la partecipazione agli utili. Potrebbe benissimo esistere un sistema fondato sul divieto del tasso di interesse che però non preveda la partecipazione agli utili. Nel nostro caso, invece, la responsabilizzazione delle parti non è solo una conseguenza automatica del divieto del riba, ma è una precisa modalità operativa e culturale che va a incidere direttamente sull’economia. Tuttavia, il meccanismo, non va interpretato solo alla luce del singolo rapporto bilaterale, di un particolare contratto di finanziamento. Esaminando, infatti, il complesso dei contratti di partecipazione, vediamo che i finanziatori dei progetti di investimento (soprattutto le banche), non sono esposti completamente al rischio di vedere sfumare i propri capitali in investimenti sbagliati. Le parti più “deboli” del rapporto, pur in assenza e anzi con il divieto di procedere a forme di assicurazione per gli investimenti compiuti, possono adottare alcuni accorgimenti per attenuare il pericolo di eccessive perdite.

In primo luogo, è evidente che i capitali impiegati in un’impresa sono produttivi e determinano un utile netto a livello macroeconomico. Infatti, se tutti i finanziamenti sono basati sulla partecipazione agli utili, il capitale erogato alle imprese frutterà un utile netto. Se le banche islamiche diversificano i loro investimenti è molto improbabile che l’esito finale di essi producano tutti risultati negativi.

In secondo luogo, anche nel caso in cui i beneficiari dell’investimento occultino le notizie o i fondi conseguiti, privando così la banca della possibilità di partecipare ai profitti realizzati, tale comportamento verrebbe in altro modo corretto. Infatti, l’imprenditore sovvenzionato, il cui progetto non ha dato un risultato positivo (o almeno così dichiara manomettendo i libri contabili) vede diminuire la possibilità di poter accedere a ulteriori forme di finanziamento. Non dimentichiamo, infatti, che la banca islamica procede ad una valutazione attenta delle richieste di sovvenzioni e questo porta a tenere conto anche delle precedenti esperienze di finanziamento e dei risultati ottenuti dallo stesso imprenditore. La concessione di crediti, infatti, investe l’ intuitu persona, sicché, per l’imprenditore, la sua buona reputazione è un passaporto indispensabile per avere accesso ai portafogli altrui. In questo modo, sarà il sistema stesso ad espellere dal circuito coloro che si comportano in modo sleale. I finanziatori, infatti, sono come degli “scommettitori”, che puntano i propri soldi sui “cavalli vincenti”. A lungo andare, se il “cavallo” su cui hanno puntato si rivela essere un ronzino, essi smetteranno di scommettere su di lui e lo elimineranno così dalla corsa. Il sistema di selezione automatica, in una realtà completamente islamizzata, consentirebbe così alle banche di stilare una “lista nera” degli imprenditori poco corretti, in modo da mettersi al sicuro da eventuali truffe. Tale selezione, comunque, appare oggi più complessa nei sistemi in cui convivono aziende bancarie islamiche e banche di tipo occidentale. L’imprenditore disonesto, infatti, espulso dal sistema delle banche islamiche, potrebbe sempre rivolgersi alle normali banche commerciali per ottenere credito. In questo caso, infatti, non gli mancherebbero certo le forme di garanzia necessarie ad ottenere dei prestiti, poiché, come ricorderemo, stiamo parlando di imprenditori che hanno “occultato” i profitti e non di coloro il cui progetto economico sia effettivamente fallito. Non bisogna peraltro dimenticare che il sistema delle banche islamiche, nasce da un’esigenza di ortodossia religiosa e di rigore morale, sicché l’imprenditore disonesto verrebbe ad essere doppiamente condannato: dal punto di vista economico, attraverso l’esclusione dal mercato del credito, e dal punto di vista della sanzione sociale, per il venire meno della propria dirittura morale.

Ovviamente bisogna considerare anche un altro aspetto. Il sistema di compartecipazione compatibile con gli insegnamenti coranici, visto da un’angolatura microeconomica, è un sistema basato sulla fiducia, sulla sovvenzione di un singolo progetto di investimento, contenuto nel tempo e fondato sul rapporto di conoscenza e di stima reciproca tra le parti. Questo schema può applicarsi con facilità a un’economia circoscritta e localistica. Essa non comprende, tuttavia, una realtà più complessa, dove le parti non abbiano una conoscenza diretta dell’altra, ma debbano basarsi su elementi “oggettivi”, anziché “soggettivi”. Se prendiamo il caso di un progetto di investimento, possiamo anche considerare che esso possa svilupparsi partendo da una base di finanziamento sufficientemente circoscritta, ma in grado di produrre un reddito elevato. In questo caso, per l’imprenditore può essere molto più conveniente fare ricorso alle banche di tipo commerciale, dove pagando un certo tasso di interesse è poi sicuro di incamerare interamente gli utili conseguiti, anziché rivolgersi alla banca islamica per dare inizio a un rapporto di partecipazione agli utili. In quest’ultimo caso, infatti, egli sarebbe costretto a privarsi di una quota maggiore di profitti a vantaggio della parte finanziatrice. Probabilmente, tenderebbero ad avviare una forma di partecipazione agli utili, proprio quegli imprenditori che nutrono seri dubbi circa la redditività del progetto. In questo modo, essi coinvolgerebbero nel rischio altre persone e, se riuscissero alla fine ad ottenere dei profitti dal progetto, sarebbero costretti a dividere una “fetta più piccola della torta”.

Perché il sistema della partecipazione agli utili possa funzionare effettivamente, tuttavia, necessita che vi sia un’ adeguata procedura per la tenuta dei libri contabili, per accertare, in ogni momento, la trasparenza delle operazioni e la correttezza e la veridicità delle informazioni economiche dell’impresa. I finanziatori, infatti, come parte interessata al risultato finale dell’impresa, hanno il diritto di controllare, quando essi lo ritengano opportuno, l’andamento degli affari e la buona salute del progetto finanziato. Secondo il sistema della partecipazione agli utili, infatti, le parti dovrebbero comportarsi come dei soci in un affare che, pur dedicandosi ognuna alle funzioni di propria competenza, possano verificare il corretto andamento aziendale e partecipare al monitoraggio della cosa comune.

Le banche islamiche, dal punto di vista dell’ampliamento della propria clientela, hanno trovato difficoltà non indifferenti, legate alle proprie caratteristiche costitutive. Il problema del rischio morale legato alla partecipazione agli utili, infatti, può essere affrontato efficacemente, sia sul piano istituzionale sia su quello etico. Il problema, tuttavia, se affrontato dalla singola banca, in un ambiente non-islamico può presentare alcuni gravi problemi da risolvere. In particolare, per poter ampliare la propria rete di partecipazione agli utili, occorre che:

 le istituzioni finanziarie predispongano gli strumenti adeguati per valutare i progetti in base alla loro redditività e per monitorarne l’andamento. Attualmente, gli istituti finanziari procedono a tali valutazioni in maniera sempre più frequente e, quindi, con sempre maggiore competenza. A tal fine, le banche islamiche necessitano di personale con qualificazioni specialistiche, in grado di analizzare l’andamento generale dell’impresa. Le incertezze che molte banche islamiche hanno incontrato nel sapere “riconoscere” un buono o cattivo affare, almeno nei primi anni della loro esperienza, sono state parzialmente superate anche con l’aiuto dell’Istituto islamico per la ricerca e la formazione dell’Islamic Development Bank;

 gli anticipi concessi agli imprenditori, sulla base della partecipazione agli utili, dovranno essere assicurati contro la cattiva amministrazione e la frode;

 dovrà essere elaborato un sistema di garanzia totale o parziale per attenuare il rischio contro le perdite per gli investimenti effettuati sulla base della partecipazione agli utili. Le banche islamiche, come abbiamo visto, incontrano gravi difficoltà nascenti da: accumularsi dei cattivi rischi, difficoltà nell’identificare e giudicare le migliori opportunità fra i vari progetti imprenditoriali, difficoltà di valutare e accertare i profitti, necessità di controllare la gestione dell’impresa. Esaminando l’esperienza pratica e i problemi concreti incontrati dal Pakistan e dall’Iran (sistemi che hanno completamente islamizzato la loro struttura bancaria) è possibile infatti affermare che tali problematiche hanno influito negativamente, rallentando l’affermazione delle banche islamiche sul mercato.

6) Compatibilità del modello bancario islamico con le disposizioni di cui al Testo Unico bancario del 1993.

A questo punto della discussione, potrebbe essere interessante esaminare la possibilità e l’opportunità di aprire una banca o uno sportello islamico in Italia. Tenendo conto del numero crescente di immigrati che si trovano sul territorio nazionale, del modello di comportamento verso il risparmio di cui abbiamo accennato all’inizio di questo lavoro (specie per coloro che da più lungo tempo risiedono nel nostro Paese) e della convenienza per le banche commerciali di attirare l’attenzione di una fascia di potenziali utenti, generalmente esclusi, diffidenti o semplicemente non informati delle possibilità offerte circa la gestione del loro risparmio, tale possibilità non dovrebbe essere sottovalutata. Accanto alla conoscenza della clientela e dell’ambiente in cui la banca si trova ad operare, come abbiamo visto, occorre ampliare il contesto e saper valutare anche aspetti attinenti alle modifiche che in questi ultimi anni si stanno verificando nella composizione e nelle caratteristiche culturali e religiose della nostra società.

In particolare, le banche islamiche operanti in Italia dovrebbero porre in essere operazioni conformi alle norme sharaitiche, soprattutto per quanto riguarda la proibizione degli interessi. Certamente, non sussistono nell’attuale ordinamento bancario norme che proibiscano l’offerta di servizi di deposito a tasso zero. Più improbabile, invece, è la configurabilità di prodotti misti di deposito per il finanziamento di progetti di investimento e partecipazione ai rischi dell’impresa. Analogo dubbio può essere espresso per la possibilità di costituire contratti di deposito generico, remunerato per mezzo di attribuzione di una quota degli utili generali della banca, come se il depositante diventasse, oltre che cliente, anche azionista dell’istituto o dell’impresa sovvenuta. Attualmente, la remunerazione dell’investimento sembra realizzabile soltanto nei casi specifici della gestione del portafoglio del cliente da parte della banca e, in generale, nel caso di amministrazione di valori mobiliari.

Per quanto riguarda, invece, la concessione di crediti, considerando l’attuale compagine della clientela a cui potenzialmente lo sportello islamico si indirizzerebbe, si tratterebbe fondamentalmente di credito al consumo e, in minor misura, di credito all’impresa. In questi casi, non vi sono impedimenti giuridici circa la possibilità di concedere prestiti senza interessi, non essendo contemplata l’esistenza di “tassi minimi” da richiedere. Più complessa appare forse la possibilità di porre in essere contratti tipici del diritto islamico che vedono la compartecipazione dell’istituto finanziatore alle vicende economiche dell’impresa finanziata. Essendo i contratti di mudaraba e soprattutto di musharaka, fondamentalmente improntati alla condivisione dei rischi e alla suddivisione dei relativi profitti (o perdite) proporzionalmente al contributo apportato dalle parti e prefissato al momento della stipulazione degli accordi, occorre tenere conto della generale avversione manifestata dal nostro ordinamento circa il coinvolgimento degli istituti finanziari nelle sorti aziendali delle imprese prenditrici di credito. Esiste infatti una profonda differenza che divide i due ordinamenti in esame: quello islamico si basa, per ragioni etiche, religiose, storiche e sociali, sul coinvolgimento delle parti in una responsabile opera di collaborazione nelle sorti dell’investimento; al contrario, quello italiano, separa nettamente il momento della raccolta del risparmio dalla concessione del credito e dall’impiego in concreto delle somme, rifiutando un coinvolgimento diretto e solidale con l’impresa e con l’imprenditore, con i quali intrattiene un semplice rapporto di “mutuo”.

Qualche dubbio può sorgere, inoltre, a proposito della clientela a cui tali sportelli sarebbero destinati. In particolare, è necessario chiedersi se essi debbano essere riservati esclusivamente alla clientela di religione musulmana, escludendo tutti coloro che non appartengano a detta confessione (e, in caso di risposta positiva, in che modo le banche dovrebbero procedere all’accertamento dei requisiti summenzionati), oppure, debbano rivolgersi a tutti. In particolar modo, bisogna tenere conto dell’art. 115 del T.U. (che trova un antecedente nella L. 17 febbraio 1992 n. 154, a sua volta, collegata all’ art. 8 della L. 1 marzo 1986 n. 64) che obbliga le banche a praticare, in tutte le proprie sedi, principali e secondarie, tassi uniformi per ciascun tipo di operazione bancaria e a parità di condizioni soggettive dei clienti. La norma, sorta per promuovere un riequilibrio delle posizioni contrattuali tra le banche e la clientela e per evitare l’applicazione di condizioni diverse in aree limitrofe, intende assicurare la trasparenza e la correttezza dei rapporti (21). Essa, pertanto, impone alle banche di rendere conto delle ragioni sottostanti alla diversità di trattamento, ad esempio nei tassi attivi, tra le diverse categorie di clientela e potrebbe infatti essere estesa anche al caso ora in esame. Nella formulazione delle norme sulla trasparenza contenute nel T.U., infatti, è scomparsa la precisazione di cui all’art. 2 della L. 154/92, secondo la quale le informazioni dovevano avere “identico contenuto in tutto il territorio nazionale”. Tale omissione, pertanto, consente di differenziare tipologie di pubblicazioni anche per servizi omogenei e di offrire trattamenti differenziati. La norma, la cui origine è da ricercare nella previsione di trattamenti agevolativi per le zone meridionali, potrebbe pertanto trovare applicazione nel nostro caso per approntare un servizio bancario “speciale” per una cerchia, alla fine, piuttosto ristretta, ma finora emarginata, di clientela.

E’ anche possibile che l’“arrivo” in Italia di una banca islamica possa avvenire ad opera dello stabilimento di succursali nel territorio della Repubblica, di istituti creditizi aventi sede legale e amministrazione centrale in un Paese comunitario (22). L’art. 15 del T.U. al comma 3 prevede, infatti, che “Le banche comunitarie possono stabilire succursali nel territorio della Repubblica”, sulla base di una semplice comunicazione alla Banca d’Italia da parte delle autorità competenti dello Stato di appartenenza. Dopo due mesi dalla comunicazione la banca può iniziare ad operare. Lo stesso comma, tuttavia, prevede che la Banca d’Italia e la Consob possano determinare e indicare all’autorità comunitaria, ognuna per quanto di propria competenza, le condizioni alle quali, per motivi di interesse generale, è subordinato l’esercizio dell’attività della succursale. C’è dunque da chiedersi se tra tali considerazioni possa trovare spazio la valutazione delle particolari condizioni operative delle banche islamiche e il più accentuato “rischio” insito nelle operazioni finanziarie comunemente poste in essere da detto tipo di intermediari. Ciò potrebbe comportare la possibilità per la Banca d’Italia di disporre di forme integrative di pubblicità ed emanare istruzioni volte a preservare la “stabilità complessiva del sistema” (art. 5 e lett. c, comma 2 dell’art. 116 del T.U.). E’ tuttavia possibile che l’arrivo della prima banca islamica italiana possa avvenire, non in seguito all’insediamento di una succursale di banca comunitaria, ma attraverso le norme dettate dall’art. 58 del T.U. in tema di “Cessione di rapporti giuridici a banche”. Si tratta cioè della possibilità che una banca islamica comunitaria possa acquisire aziende, rami d’azienda, beni e rapporti giuridici individuabili in blocco appartenenti ad una preesistente banca. La finalità della norma, infatti, è quella di garantire il controllo sulle concentrazioni, in modo da tutelare la trasparenza e tutti i terzi. La norma, infatti, lascia qualche dubbio sulla possibilità che tale primo insediamento possa essere attuato seguendo questo sistema, poiché il legislatore, se ha tenuto a precisare che per la rilevanza della norma in oggetto il cessionario debba possedere la qualità di “banca”, è anche vero che la sua formulazione sfugge al più preciso elenco di cui al comma 2 dell’art. 1 del T.U., in cui viene fatta una precisa distinzione tra “banca italiana”, “banca comunitaria”, “banca extracomunitaria”, “banche autorizzate in Italia” e “succursale”. L’uso generico del termine “banca” all’art. 58 lascia dunque aperto il dibattito circa la specificazione “nazionale” del soggetto cessionario. Se la normativa trova applicazione anche nei confronti delle banche comunitarie occorre dunque tenere conto delle conseguenze rivenienti da tale passaggio già per i contratti in essere. In particolare, le disposizioni di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’articolo in commento, che precisano le condizioni giuridiche dei privilegi, delle garanzie, delle posizioni debitorie e creditorie nei confronti dei rapporti ceduti, dovranno essere più attentamente disciplinati se il cessionario riveste la qualità di banca islamica. Rimane, infatti, da chiedersi quale sarà la sorte di debiti e crediti contratti secondo la corresponsione di tassi di interessi; la limitazione dei rischi derivanti dalla partecipazione all’impresa e la reimpostazione dei rapporti tra l’istituto bancario e le altre parti contraenti, alla luce delle disposizioni concernenti la trasparenza delle informazioni e delle condizioni contrattuali. Queste ultime esigenze, in particolare, come in molti altri articoli della legge bancaria, vengono esplicitamente richiamate dalla previsione del comma 1 dell’art. 58 che, oltre a prevedere un generico obbligo di trasparenza, richiede che “le operazioni di maggiore rilevanza siano sottoposte ad autorizzazione della Banca d’Italia”. La norma, in effetti, assoggetta al controllo pubblico la fattispecie in esame sotto il profilo dell’emanazione di istruzioni ad hoc, da parte della Banca d’Italia, dotate di quella che è stata considerata, a torto o a ragione, un’eccessiva “discrezionalità” sostanziale (23).

Senza tuttavia aprire succursali o acquisire rami d’azienda, la banca islamica comunitaria potrebbe svolgere le proprie operazioni semplicemente facendo riferimento alle norme di cui all’art. 16 del T.U., relative alla libera prestazione di servizi bancari e finanziari (24). Al riguardo, il 3 comma dell’articolo in parola prevede che “Le banche comunitarie possono esercitare le attività previste dal comma 1 (i.e. le attività ammesse al mutuo riconoscimento) nel territorio della Repubblica senza stabilirvi succursali dopo che la Banca d’Italia sia stata informata dall’autorità competente dello Stato di appartenenza” (25). Tra tali attività, tuttavia, non è ricompreso né l’esercizio di investimenti sotto forma di partecipazioni di rischio in imprese non bancarie, né la raccolta di fondi per i quali non sia previsto l’obbligo di restituzione. Va da sé che ove la banca islamica comunitaria sia autorizzata a svolgere tali funzioni in base all’ordinamento dello Stato comunitario d’origine, non è possibile escludere che essa possa chiedere di esercitarle anche in territorio italiano, benché in tal caso sia necessaria un’apposita autorizzazione da parte della Banca d’Italia, poiché si tratterebbe di attività esclusa da quelle soggette al “mutuo riconoscimento” (art. 17 del T.U). Occorre tuttavia ricordare che, in questo caso, la competenza circa il corretto, prudente e sano svolgimento delle attività poste in essere dall’intermediario islamico comunitario rimane in capo alle autorità di Vigilanza del Paese d’origine. Alla Banca d’Italia resta, tuttavia, la possibilità di fare ricorso, in caso di gravi violazioni, alle disposizioni di cui all’art. 79 del T.U. che detta le modalità operative per porre termine alle irregolarità attraverso la segnalazione e l’interposizione delle autorità competenti dello Stato membro o direttamente da parte delle autorità italiane, nei casi di inerzia del Paese d’origine o di inadeguatezza delle misure adottate. L’intervento diretto della Banca d’Italia, in particolare, secondo il disposto del 2 comma dell’art. 79, è giustificato specificamente nel caso in cui le irregolarità siano in grado di “pregiudicare interessi generali ovvero nei casi di urgenza per la tutela delle ragioni dei depositanti, dei risparmiatori e degli altri soggetti ai quali sono prestati i servizi“. Tali disposizioni appaiono particolarmente penetranti nel caso previsto dal 6 comma dell’art. 16 del T.U. in materia di valori mobiliari. In questo caso, infatti, richiamando i criteri di cui alla direttiva 93/22, l’attività dell’intermediario comunitario viene sottoposta al rispetto delle regole di comportamento stabilite dalle competenti autorità del Paese ospitante. In Italia, pertanto, la banca islamica comunitaria operante secondo la libera prestazione di servizi di intermediazione mobiliare dovrebbe essere tenuta al rispetto, oltre che delle circolari della Banca d’Italia, anche delle norme emanata dalla Consob sulla disciplina del mercato mobiliare. Gli intermediari, cioè, sono in questo caso gravati da un doppio onere: quello del rispetto delle norme del Paese d’origine e quello del rispetto della legislazione in tema di mercato mobiliare del Paese ospitante. La diversità di trattamento riservata all’apertura di succursali di banche comunitarie (per le quali, come abbiamo detto, è sufficiente la semplice comunicazione alla Banca d’Italia) e quella relativa alla libera prestazione di servizi è dettata dalla necessità di approntare un sistema di maggiori garanzie nei confronti delle attività poste in essere da un intermediario di cui manca una precisa domiciliazione sul territorio nazionale. In forza del 5 comma dell’art. 18 del T.U., inoltre, le disposizioni di cui all’art. 79 del T.U. trovano applicazione anche nel caso delle società finanziarie comunitarie ammesse al mutuo riconoscimento, che siano controllate da uno o più enti creditizi islamici, essendo la fattispecie applicabile alle violazioni delle disposizioni relative alle succursali o alla prestazione di servizi nel territorio della Repubblica.

Più complesso, invece, è il problema dell’operatività in Italia di una banca islamica extracomunitaria. La situazione, infatti, si presenta particolarmente difficile nel caso in cui la banca islamica non abbia una succursale in Italia e non intenda stabilirla in futuro. In questo caso, infatti, permane la difficoltà di attribuire la stessa qualificazione di “banca” all’istituto non essendo di particolare aiuto la definizione di “banca extracomunitaria” fornita dall’art. 1 del T.U., secondo la quale, tale si definisce “la banca avente sede legale in uno Stato extracomunitario”. Se, infatti, nel caso di banche comunitarie si può fare ricorso a una definizione comune delle caratteristiche e dei requisiti affinché a un soggetto possa essere attribuita la qualifica di “banca”, in base alle direttive comunitarie che ne disciplinano il settore, tale facilitazione manca nel caso di soggetti extracomunitari. Tale incertezza incide particolarmente sulla delicatezza dell’applicazione del 4 comma dell’art. 16 che prevede la possibilità per le “banche” extraeuropee, previa autorizzazione della Banca d’Italia, rilasciata d’intesa con la Consob, di poter liberamente prestare servizi di intermediazione senza stabilimento di succursali sul territorio italiano.

Diverso è il caso, invece, di banche extracomunitarie che abbiano aperto una succursale in territorio italiano, in quanto il loro primo insediamento è sottoposto all’autorizzazione del Ministro del Tesoro, d’intesa con il Ministro degli Affari Esteri e sentita la Banca d’Italia. Quindi, alla verifica del possesso dei requisiti relativi al capitale versato (in quantità non inferiore a quello determinato e giudicato sufficiente dalla Banca d’Italia), del programma concernente l’attività iniziale, dell’atto costitutivo, dello statuto e della professionalità ed onorabilità degli esponenti aziendali, in base al disposto di cui al 4 comma dell’art. 14 del T.U. ha già provveduto la Banca d’Italia. Successivamente a questo primo controllo, infatti, alle banche extracomunitarie, già operanti nel territorio della Repubblica, è sufficiente l’autorizzazione della Banca d’Italia per l’apertura di altre succursali (4 comma dell’art. 15 del T.U.). Nel caso di una banca islamica, pertanto, il decreto di autorizzazione rilasciato dal Ministro del Tesoro dovrà tenere conto delle attività che effettivamente verranno svolte e delle modalità operative specifiche dell’istituto per valutarne la conformità alle disposizioni bancarie e al possibile inserimento nel complessivo circuito creditizio ed economico italiano. L’esame, inoltre, è importante ricordarlo, riguarda esclusivamente l’operatività della succursale stabilita in Italia e a ciò autorizzata (o da autorizzare) e non investe le operazioni globali svolte dalla casa-madre, che in quanto extracomunitaria, non è soggetta ai poteri di vigilanza dell’autorità italiana. In virtù di tale autorizzazione ministeriale, tenendo conto delle profonde differenze nella definizione e nel modo di intendere di “fare banca” tra l’ordinamento islamico e quello italiano, non è da escludere che il Ministro del Tesoro possa subordinare il rilascio di tale autorizzazione alla limitazione (o addirittura all’esclusione) del compimento delle attività di investimento di rischio. A limitare ulteriormente la possibilità per le banche islamiche extracomunitarie di porre in essere operazioni di partecipazione in investimenti di rischio e di altri strumenti tipici della tecnica bancaria sharaitica sovviene la previsione dell’art. 17 del T.U. in materia di attività non ammesse al mutuo riconoscimento che esclude per i soggetti extracomunitari (a differenza di quelli comunitari) la possibilità di un “ampliamento” delle operazioni consentite. Più stringenti, inoltre, sono le norme concernenti i provvedimenti straordinari che trovano applicazione per le banche autorizzate in Italia, in base all. art. 78 del T.U., secondo il quale la Banca d’Italia può imporre il divieto di intraprendere nuove operazioni oppure ordinare la chiusura di succursali alle banche autorizzate in Italia per “violazione di disposizioni legislative, amministrative o statutarie che ne regolano l’attività” e che possano porre in pericolo le finalità di Vigilanza riassunte all’art. 5 del T.U..

Alla luce di queste considerazioni è, dunque, necessario riepilogare brevemente quelli che sono i principali ostacoli che si frappongono alla costituzione di una banca islamica in Italia:

  1. la “filosofia” complessiva che è alla base dei due ordinamenti giuridici caratterizzanti la disciplina bancaria, basata su una propensione maggiore o minore al rischio e a un più stretto rapporto banca-impresa;

  2. la difficoltà per una banca islamica (autonoma) di inserirsi in un ambiente creditizio diverso ed “ostile”. L’istituto islamico, infatti, correrebbe il rischio di rimanere isolato e tagliato fuori da un meccanismo alla base del quale vi è la pratica del tasso di interesse;

  3. lo sportello islamico costituito presso la banca italiana dovrebbe riuscire a persuadere la propria clientela circa la destinazione halal dei risparmi depositati, con o in assenza di un comitato di controllo religioso bancario.

(Tiziana Luise)

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-V. TROIANO, Commento all’art. 11 in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, (a cura di) F. Capriglione, Padova, Cedam, 1994, p. 71 e ss.

1 Le considerazioni espresse in questo articolo sono imputabili esclusivamente all’autrice e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia.

2 V. Cesareo e E. Zucchetti, I soldi degli immigrati: reddito, risparmio e trasferimenti di denaro in Ca’ de Sass, Aprile 1997 n. 137 p. 44 ss.

3 Per un approfondimento della presenza delle banche estere in Italia si veda l’articolo di M. Giorgino, Fattori interpretativi della presenza di filiali di banche estere (FBE) in Italia, pubblicato su questa Rivista, n. 6, nov-dic 1997, p. 508 e ss.

4V. TROIANO, Commento all’art. 11 in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, (a cura di) F. Capriglione, Padova, Cedam, 1994, p. 71 e ss.; P. DE VECCHIS, Spunti per una riflessione sulla nozione di banca, in Banca e Borsa, 1982, I, p. 762 e ss.; MEZZACAPO, Commento sub art. 1 d.p.r. 350 del 27 giugno 1985 in AA.VV. Codice commentato della banca, Milano, 1990, II, p. 1402 e ss..

5M. PORZIO, I rapporti banca-impresa nella normativa vigente, in Rassegna economica, 1987, p. 917; F. BELLI, Note a margine della nuova normativa di vigilanza sul rapporto banca individuo, in Dir. banca. e merc. fin., 1988, p. 472; T. BIANCHI, Le partecipazioni bancarie, in Banche e banchieri, 1981, p. 487; R. COSTI, Le partecipazioni delle aziende di credito, in Giur. comm., 1982, I, p. 123.

6P. BIFFIS, La banca universale italiana, in Il risparmio, 1993, pp. 1 ss.; R. MASERA, Intermediari, mercati e finanza d’impresa, Laterza, Bari, 1991; M. DE CECCO, Le imprese fra banca e finanza, in L’industria, 1988, p. 5 e ss.; R. COSTI, L’ordinamento bancario, cit, p. 533 e ss.

7L’art. 10 afferma infatti che “la raccolta del risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa”. Va peraltro sottolineato che già il c. 1 dell’art. 1 del d.p.r. 27 giungo 1985 n. 350, che recepiva nel nostro ordinamento la Prima Direttiva CEE, aveva affermato che l’attività bancaria “ha carattere d’impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano”.

8R. COSTI, cit., a p. 540 evidenzia che le ragioni di tale separatezza “stanno soprattutto nella preoccupazione che l’industria controllata da una banca diventi una semplice “sezione” industriale di quest’ultima, sottratta allo scrutinio del merito di credito e quindi in condizioni di ingiustificato vantaggio anche nei confronti delle imprese industriali concorrenti. Questo pericolo è meno evidente quando la partecipazione sia di minoranza: in questo caso si pongono soprattutto problemi di smobilizzo e quindi di liquidità, ma non anche di distorsione nell’allocazione del credito bancario”.

9 Circ. 4 dell’11 aprile 1988.

10Le Istruzioni di Vigilanza, infatti, evidenziano che “Le imprese in cui acquisire partecipazioni dovranno essere selezionate dalle banche e dai gruppi bancari sulla base sia dei complessivi vantaggi economici e patrimoniali ad essi rivenienti dalle relative operazioni sia dalla necessità di evitare che le nuove opportunità si traducano, per il partecipante, in un grado eccessivo di immobilizzo dell’attivo. La ragione di tale cautela è infatti spiegata chiaramente più avanti, alla p. 7 dello stesso Capitolo, dove si legge ” Rispetto alle altre forme tipiche di finanziamento, l’acquisizione di partecipazioni comporta l’assunzione di maggiori rischi connessi non solo con la circostanza che il rimborso dei diritti patrimoniali avviene in via residuale rispetto ai creditori ordinari, ma anche con la possibile fluttuazione del valore delle azioni in relazione alle prospettive economiche dell’impresa affidata”. Per una valutazione analoga vds. L. CLEMENTE, La banca “verso l’impresa: grandi fidi e legame partecipativo, in Rivista Bancaria-Minerva Bancaria, settembre-ottobre 1995, n. 5, p. 52 e ss. e G. CASTALDI, Il riassetto della disciplina bancaria: principali aspetti innovativi, in Quaderni di Ricerca Giuridica n. 36, marzo 1995 p. 22.

11Limiti precisi sono stabiliti nelle Istruzioni di Vigilanza riguardo alle possibili assunzioni di partecipazioni in imprese non finanziarie:

1. Vi è un limite complessivo del 15% del patrimonio di vigilanza della banca, al fine di non determinare un eccessivo immobilizzo dell’attivo;

2. un limite di concentrazione del 3% del patrimonio di vigilanza per gli investimenti in una singola impresa o gruppo di imprese;

3. un limite di separatezza del 15%.Vale a dire che la partecipazione di una banca in un’impresa non può superare il limite del 15% del capitale dell’impresa stessa, al fine di garantire la “separatezza” dei reciproci interessi.

12A. BAGLIONI, Banca universale e gruppo polifunzionale, in Banche e banchieri, n.2, 1994, p. 98; P. DESIATI, Considerazioni sulla riforma bancaria: operatività e rapporti con il sistema produttivo, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, marzo-aprile 1996 n.3-4 p. 205 e ss. e P. CIOCCA, Banca Finanza Mercato, Einaudi, Torino, 1991 pp. 85-86, in cui, a proposito dell’efficienza allocativa nella relazione imprese-progetto di investimento, viene sottolineata la centralità delle banche, le quali, “(…) attraverso rapporti di fido capaci di penetrare negli aspetti più interni dell’attività delle imprese, (possono) disporre di un patrimonio di informazioni più ricco, per quantità e qualità, di quello a cui hanno accesso gli anonimi ancorché efficienti mercati: (esse sono) quindi meglio attrezzate a vagliare il merito di credito dell’impresa”.

13F.M. FRASCA, Il rapporto banca impresa e la nuova normativa sulle partecipazioni, in Bancaria, 1994, n. 5, p. 14, in cui viene sottolineata la possibilità di un rafforzamento delle relazioni di clientela e l’attivazione di un collegamento tra la finanza delle imprese e il mercato dei capitali.

14Per un’analisi approfondita degli squilibri creati da tale approccio vds. B. IACCARINO, Il passaggio dal merito di credito all’analisi del rischio creditizio nella nuova banca europea, in Rassegna Economica, n. 4, ottobre-dicembre 1995, p. 936 e ss, ma soprattutto l’attenta analisi di A. GENERALE e G. GOBBI, Il recupero dei crediti: costi, tempi e comportamenti delle banche, in Temi di discussione della Banca d’Italia, n. 265, marzo 1996..

1512. Un interessante dato emerge dall’analisi effettuata da T. PADOA-SCHIOPPA, cit.,il quale evidenzia che, su un campione di 134 banche, solo 20 concedono più del 50% del credito ad un’impresa che lo richiede. Tuttavia, nell’ultimo biennio si sono verificati dei cambiamenti comportamentali che manifestano un’inversione di tendenza. Rileva, infatti la Relazione annuale della Banca d’Italia per l’anno 1994 (Roma, 1995, p. 214) che, nel corso del 1994, è proseguita la riduzione del numero medio di affidamenti per cliente; ciò è risultato particolarmente evidente per la clientela con un credito accordato superiore a 200 miliardi, che risulta in media affidata da 26 banche, quasi quattro in meno rispetto all’anno 1993.

16T. PADOA-SCHIOPPA, Profili di diversità nel sistema bancario italiano, in Bollettino Economico, n. 22, febbraio 1994, p. 35* e ss.; P. MARULLO REEDTZ, A. CEOLA, A. GEREMIA, C. SCARENZIO, La prassi dei fidi multipli e l’evoluzione del rapporto banca-impresa, Milano, 1994; P. BIFFIS, La banca universale italiana, in Il Risparmio, n. 1, 1993. Per avere delle cifre precise sull’ampiezza del fenomeno degli affidamenti multipli, si può consultare l’apposita rilevazione effettuata dalla Banca d’Italia in materia di “relazione di credito tra banca e impresa”, in Relazione annuale, anno 1993, Roma, 1994, p. 310. In essa emerge che il complesso delle imprese affidate opera mediamente con 2,6 banche, segnalando un aumento direttamente proporzionale all’accrescersi della grandezza dei fidi e alle dimensioni delle imprese stesse. In quest’ultimo caso, recenti studi mostrano la diffusione degli affidamenti multipli anche in presenza di ridotte dimensioni aziendali, per esempio nella provincia di Modena. Cfr. C. BISONI, L. CANOVI, E. FORNACIARI, A. LANDI, Banche e imprese nei mercati finanziari locali, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 95 e ss.

17B. ROSSIGNOLI, Fidi multipli e relazioni di clientela, in Rivista milanese di economia, n. 44, 1992; M. MATTEI GENTILI, Il fido multiplo e la nuova regolamentazione dell’attività bancaria, in Banca Notizie, n. 3, 1993.

18G. DELL’AMORE, Economia delle aziende di credito, vol. I, I prestiti bancari, Giuffrè, Milano, 1965, p714-720; T. BIANCHI, I fidi bancari. Tecnica e valutazione dei rischi, Va edizione, UTET, 1977, Torino, p. 100-107.

19 S. HAMMUD in Profilo dell’economia islamica (a cura) di B. SCARCIA AMORETTI, Palermo, 1988, p. 239.

20 G.M. PICCINELLI, Banche islamiche in contesto non islamico. Materiale e strumenti giuridici, a cura dell’Istituto per l’Oriente “C. Nallino” e il Comune di Palermo, I.P.O., Roma, 1996.

21A. NIGRO, La trasparenza delle operazioni di bancarie in Diritto Bancario, 1987, II, p. 55.

22 G. MEO, Il modello islamico di banca e l’ordinamento bancario italiano in Diritto della banca e mercato finanziario, apr-giu 1994, vol. 8, n. 2, pp. 161-172.

23 P. MASI, Commento all’art. 58 in Commentario al Testo Unico, cit. pp. 312 e ss.

24 A.TIZZANO, La “seconda direttiva banche” e il mercato unico dei servizi finanziari, in Foro Italiano, 1990, p. 423 e ss.

25 Al riguardo, precisa la lettera f del 2 comma dell’art. 1 del T.U. che sono “attività ammesse al mutuo riconoscimento” quelle riguardanti:

1. raccolta di depositi o di altri fondi con obbligo di restituzione;

2. operazioni di prestito (compreso il credito al consumo, il credito con garanzia ipotecaria, il factoring, le cessioni di credito pro soluto e pro solvendo, il credito commerciale incluso il “forfaiting”;

3. leasing finanziario;

4. servizi di pagamento;

5. emissione e gestione di mezzi di pagamento (carte dei credito, “travellers cheques, lettere di credito);

6. rilascio di garanzie e impegni di firma;

7. operazioni per proprio conto o per conto della clientela in materia di: stumenti di mercato monetario (assegni, cambiali etc), cambi, strumenti finanziari a termine e opzioni, contratti su tassi di cambio e tassi d’interesse, valori mobiliari;

8. partecipazioni alle emissioni di titoli e prestazioni di servizi connessi;

9. consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse;

10. servizi di intermediazione finanziairia del tipo “money broking”;

11. gestione o consulenza nella gestione dei patrimoni;

12. custodia e amministrazione di valori mobiliari;

13. servizi di informazione commerciale;

14. locazione di cassette di sicurezza;

15. altre attività che, in virtù delle misure di adattamento assunte dalle autorità comunitarie, sono aggiunte all’elenco allegato alla seconda direttiva in materia creditizia del Consiglio delle Comunità europeee n. 89/646/CEE del 15 dicembre 1989.

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