La lingua della pandemia: come il Coronavirus ha cambiato il nostro modo di parlare

Magari nessuno si è mai soffermato sull’analisi di una realtà che ha completamente cambiato il nostro modo di relazionarci con il mondo e con la vita: proviamo a farlo adesso.

L’esplosione della pandemia di Covid-19 non ha cambiato soltanto le nostre vite, inci-dendo profondamente sulla quotidianità, ma anche il nostro modo di parlare e comuni-care.

Dall’ossessione per i termini medici a quella per la panificazione, questo momento sto-rico ha cambiato il modo di esprimerci e raccontarci, una realtà che purtroppo lascerà, inevitabilmente, traccia di questo momento storico sulla lingua italiana.

Da sempre esiste un rapporto tra società e lingua che si muove, in entrambe le direzioni. Da una parte, la lingua registra ogni cambiamento sociale conservandone traccia. Di fronte a un concetto nuovo, abbiamo bisogno che la nostra lingua si modifichi per po-terlo esprimere ecco come nascono parole nuove; oppure accade che parole che prima avevano un significato lo adattino a nuovi contesti (è il fenomeno che in linguistica si chiama slittamento semantico, o risemantizzazione funzionale). Può, però, accadere che sia la lingua a influenzare il nostro modo di percepire la realtà, mettendone a fuoco alcuni aspetti che, senza una parola o un’espressione di riferimento, sarebbero meno percepibili. Questo scambio bidirezionale tra lingua e società avviene di continuo ed è il segno di una lingua efficace, che riesce ad adattarsi alla realtà e a rispecchiarla.

Come comprendere questo concetto: pensiamo, per esempio, al nuovo significato del verbo “tamponare”. Oggi, con questo termine, ci riferiamo al senso tecnico di eseguire un tampone per una diagnosi. Questo è un esempio di slittamento semantico: finora questa parola non era quasi mai stata adoperata con questo significato. Abbiamo un uso medico di tamponare con riferimento all’atto di bloccare la fuoriuscita di sangue da una ferita, ma l’accezione attuale è, per così dire, un inedito.

Le probabilità che quest’uso con il tempo si consolidi ed entri nelle nuove edizioni dei vocabolari è molto alta.

Altre espressioni prima molto comuni sono in declino, per esempio l’aggettivo “virale” nel senso traslato di qualcosa che si diffonde rapidamente attraverso i social. Ma pen-siamo anche a espressioni come “sono una persona positiva”. Chi oggi si sentirebbe più di usare a cuor leggero questa espressione?. L’aggettivo positivo rimanda ormai alla positività rispetto all’infezione. Da sempre, nel lessico medico il fatto che “posi-tivo” abbia un significato, paradossalmente, negativo genera confusione questo perché oggi il termine si carica di una negatività di fondo che ci spinge a non adoperarlo.

Pensateci: siamo a lungo stati costretti a reprimere la nostra libertà mentre il mondo attorno a noi sembrava restingersi. Un confinamento che ha, inevitabilmente, cambiato il nostro modo di parlare come se la lingua registrasse questo cambiamento.

In tutte le famiglie le conversazioni hanno mutato il loro campo attraverso uso di parole che sono state pronunciate principalmente con mezzi telematici.

Nella società il carcere è la punizione per eccellenza, perché va a colpire la libertà personale. L’improvviso ritrovarsi tutti in una dimensione di libertà limitata ha inciso profondamente sul modo di percepirsi e raccontarsi.

In tempi diversi, di solito la bella stagione porta con sé discorsi su vacanze e attività da svolgere all’aria aperta, ma nei giorni dell’isolamento abbiamo adoperato un lessico che faceva riferimento soprattutto all’ambito familiare e dell’intimo. E mentre in molti riscoprivano la passione per la cucina, è aumentato l’uso di parole relative a questo ambiente, ad esempio al “pane” la cui centralità nella cultura mediterranea lo rende un elemento di rifugio in un momento di grande stress e incertezza come questo e, pro-durlo in casa comunica un senso di sicurezza.

Ma andiamo oltre: in questo periodo è più facile sentire parole che evocano, terrore, incertezze. I media hanno spesso parlato della pandemia come di una guerra, di medici e infermieri al fronte, in trincea, in prima linea.

Si tratta di una narrazione tossica, che porta con sé una serie di effetti negativi sulla personalità, l’umore e la mente umana. Del resto non può essere diversamente: il con-cetto di guerra rimanda a quello di nemico, alimentando il conflitto. Inoltre, usare que-sto tipo di metafore, favorisce la percezione degli operatori sanitari come “eroi”: ste-reotipo che molti di loro rifiutano, perché suggerisce l’idea che sia giusto essere man-dati in trincea senza le opportune precauzioni. Medici, infermieri e personale sanitario sono, invece, dei professionisti che hanno, come tutti, il diritto di svolgere il proprio lavoro in sicurezza.

Ciò che è utile di fronte a una situazione traumatica e carica di emotività come quella che ci travolge, non è l’uso di retoriche, sarebbe invece più opportuno limitarsi a rife-rire i fatti, in modo semplice e asciutto: i media si pongano il problema delle immagini che adoperano nel dare le notizie.

Le parole possono avere importanti conseguenze è pertanto necessario riflettere con responsabilità sui corollari che l’uso di certa retorica si porta dietro.

Un’inutile ed inefficace uso sovrabbondante di retorica come la tendenza tipicamente italiana a rivolgersi al pubblico in modo paternalistico: basta vedere come ogni giorno si parla continuamente degli italiani come irresponsabili e restii a rispettare le regole, anche se i dati che ci provengono dicono il contrario.

Un linguaggio che si riflette anche nei rapporti con gli altri: si assiste sempre più spesso ad atteggiamenti istintivi di diffidenza nei riguardi del prossimo. Tendiamo a parlare alla seconda persona perchè, inconsciamente, non li si vuole includere nel “noi”.

Purtroppo, in ogni momento caratterizzato da stress o paure, come quello in cui vi-viamo, si amplifica la tendenza a puntare il dito verso gli altri, a separare il “noi” da un “voi” rispetto al quale ci si sente diversi e migliori. Ecco che viene spontaneo indivi-duare, in circostanze conviviali differenti, un “untore”diverso: i cinesi, i bambini, chi va a fare la spesa al supermercato… Sono molte le categorie alle quali si è attribuito l’epiteto di “untori”, anche qui con uno slittamento semantico, perché i fantomatici untori della peste, di cui parlava anche Manzoni, erano accusati di diffondere intenzio-nalmente la malattia. Si tratta, quindi, di una modalità di comunicazione che contribui-sce ad alimentare il conflitto.

Altro tratto significativo è il diverso linguaggio che durante la pandemia ha reso ancora più netto il distacco tra il ruolo della donna che sembra relegata sullo sfondo con ruoli ben definiti, da angelo soccorritore o del focolare. Task force composte, perlopiù, di soli uomini che relegano le donne proprio a questo ruolo ancillare. Per esempio, nella narrazione mediatica, si dà per scontato che siano le donne a restare in casa con i bam-bini, dal momento che le scuole, con ogni probabilità, non riapriranno in tempi brevi. Il messaggio velato sembra essere questo: la questione femminile potrà essere affron-tata solo quando tutti gli altri problemi saranno risolti. Si tratta di un’impostazione iniqua e che è importante contrastare anche attraverso il nostro modo di esprimerci.

Tutti devono essere adeguatamente rappresentati, comprese le persone con identità non binaria ma per farlo è importante allearsi per creare un movimento trasversale che possa essere più incisivo partendo proprio dall’uso delle parole.

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