“E’ giusto considerare un accordo usurario un ‘contratto di mutuo’?” (1)

That contracts in general ought to be observed, is a rule, the propriety of which, no man yet found wrong-headed enough to deny. If this case is one of the exceptions which the safety and welfare of every society require should be taken out of that general rule, in this case, as in all those others, it lies upon him, who alledges the necessity of the exception, to produce a reason for it.”

(J. Bentham, “Defence of Usury”, 1790)

1) Il contratto di mutuo: profili generali dell’istituto.

Il mutuo è il contratto con il quale una parte (mutuante) consegna all’altra (mutuatario) una determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità (tandundem eiusdem generis et qualitatis) (artt. 1813-1822 c.c.).

L’effetto pratico del contratto di mutuo è di trasferire la proprietà della cosa al mutuatario, con la liberazione di quest’ultimo quando, alla scadenza prestabilita, restituisce al mutuante le cose ricevute, oppure, più verosimilmente, beni del medesimo genere e qualità.

Esso genera due attribuzioni patrimoniali contrapposte in cui ciascuna parte è tenuta a una prestazione. Tra queste ultime si stabilisce un nesso di corrispettività (sinallagma) che crea una interdipendenza fra loro. Da una parte vi è la prestazione di una somma di denaro (o di altro bene fungibile) e, dall’altra, la promessa di riconsegnare il corrispettivo nella proporzione stabilita fra le parti.

Il mutuo pertanto è un contratto: traslativo (trasferisce la proprietà di un determinato bene), reale (il contratto si perfeziona con il consenso delle parti e la consegna della cosa), normalmente a titolo oneroso, a prestazioni corrispettive, commutativo (in cui fin dal momento della conclusione, ciascuna parte conosce l’entità del vantaggio e del sacrificio che riceverà).

In caso di mancato pagamento, il mutuante può agire per ottenere la risoluzione del contratto.

Quando, tuttavia, si verifica o subentra una condizione tale da rendere troppo oneroso, per una delle parti, adempiere le condizioni stabilite dal contratto di mutuo, quest’ultimo può essere impugnato per ottenere:

  • la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta,

  • la rescissione per lesione,

  • la revisione o la “rinegoziazione”.

Nel primo caso, l’azione è prevista per ovviare a uno squilibrio venutosi a creare tra le due prestazioni, in un momento successivo al perfezionamento dell’atto. Tuttavia, per evitare abusi di questo istituto, che porterebbero a una vanificazione del rispetto degli obblighi contrattuali ogni qual volta una parte ritenga venuto meno il proprio interesse all’adempimento (una sorta di scorciatoia per liberarsi dei vincoli indesiderati), la legge prevede che l’eccessiva onerosità debba verificarsi successivamente alla conclusione del contratto e che essa debba avere carattere straordinario e imprevedibile. Tale circostanza difficilmente può trovare applicazione nel caso di un contratto di mutuo dove, ab origine, è predeterminato un preciso piano di ammortamento, che stabilisce l’importo delle rate e la loro scansione temporale.

Nel secondo caso, il giudice può dichiarare, su domanda di una delle parti, la rescissione del contratto quando la sproporzione tra le due prestazioni dipende dallo stato di bisogno di una di esse, della quale l’altra si sia approfittata per trarne vantaggio. Perché ci sia sproporzione tra i due comportamenti occorre che la prestazione dovuta dalla parte danneggiata sia superiore della metà rispetto alla controprestazione dovuta dall’altra parte (lesione ultra dimidium), che vi sia uno “stato di bisogno” di una delle parti (che può consistere anche in una difficoltà non economica) e la consapevolezza dell’altra parte di trarre un’utilità da tale situazione. Torneremo più avanti su questo istituto, che presenta importanti punti in comune con l’analisi del fenomeno dell’usura.

Entrambe queste soluzioni possono essere evitate con la revisione del contratto. In tal caso, le parti rimuovono la condizione di squilibrio venutasi a creare attraverso una manifestazione di volontà tesa a confermare gli effetti giuridici del contratto, modificandone l’oggetto (i.e. una o entrambe le prestazioni) per ricondurlo ad equità.

2) Il contratto di mutuo: analisi degli elementi costitutivi.

Il mutuo, come abbiamo visto, è un contratto nominato, i cui elementi essenziali sono: il consenso delle parti, la causa, l’oggetto e la forma (quando prescritta).

Del contratto di mutuo abbiamo considerato, in particolare, l’oggetto e abbiamo detto che tra le prestazioni deve esserci un rapporto sinallagmatico, ossia equilibrato. In un tipico contratto di mutuo bancario, pertanto, tra dazione della somma di denaro e corrispettivo da restituire (costituito dal capitale iniziale e dagli interessi pattuiti) deve sussistere una certa proporzionalità.

Carattere essenziale dell’oggetto del contratto, quindi, è che esso sia “lecito” ed “equo”.

Ma nel contratto bisogna anche considerare gli altri elementi essenziali: la volontà delle parti e la causa.

Il contratto, infatti, recita l’art. 1321c.c., è un “accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Nel corso delle trattative, nel momento della stipula e nell’interpretazione dello stesso le parti devono agire secondo buona fede. In particolare, nell’interpretazione del negozio giuridico, le regole di ermeneutica devono tendere a individuare il punto di vista dei soggetti del negozio (interpretazione soggettiva) e, nel caso tali criteri risultino insufficienti, utilizzare canoni di interpretazione oggettiva. Lo scopo, infatti, non è quello di esaminare il testo secondo il senso letterale delle parole (verba legis), ma quello di individuare il risultato perseguito con il compimento dell’atto e la “comune intenzione” delle parti. In quest’ultimo caso, quindi, occorre tenere conto anche del comportamento tenuto dalle stesse, in ogni momento della formazione e della vigenza del contratto. Nei negozi a titolo oneroso, inoltre, le clausole devono essere intese nel senso di realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti.

La buona fede, alla quale si fa riferimento, quindi, è quella di cui agli artt. 1337, 1366 e 1375 c.c., ossia, la “buona fede attiva”, che si realizza nella fase dell’interpretazione e dell’esecuzione del contratto, ed è tesa a realizzare la conformità del comportamento ai fini perseguiti dal diritto positivo, evitando l’esercizio in malafede di un diritto soggettivo.

Allo stesso modo, i contraenti dovranno osservare le disposizioni di cui all’art. 1175 c.c. che impone al debitore e al creditore di comportarsi secondo le regole di correttezza.

Non è, pertanto, sufficiente l’astratta conformità dell’agire dei soggetti al precetto normativo per sancire la legittimità, occorrendo anche il rispetto degli interessi o dei valori che sono alla base della sua qualificazione giuridica. Nel cessa-to rapporto tra “contenuto” e “forma” sta il venir meno della configurabilità del rapporto usurario come contratto di mutuo.

Diremo, pertanto, che l’intenzione delle parti e la volontà espressa nel negozio devono essere “lecite” e “concordanti”.

La causa di un negozio, invece, indica la funzione economico-sociale dello stesso, ossia, in termini più immediati, lo scopo concreto che le parti intendono conseguire per mezzo del contratto. Occorre, pertanto, non solo che siano leciti i singoli effetti perseguiti, ma che sia lecita anche la loro combinazione. Così, se nei contratti tipici la causa è già, in astratto, valutata positivamente dal legislatore, occorre verificare se anche nel caso concreto essa sia meritevole di considerazione.

Diremo, quindi, che in un contratto la causa, come la volontà, deve essere “lecita”, ab origine.

E’ evidente, infatti, che l’ordinamento giuridico non è posto a difesa dell’autonomia privata se questa persegue finalità contrarie alla legge o alla morale. Così sono viziati, in modo non sanabile, non solo i negozi contrari alla legge, ma anche quelli in frode alla legge (art. 1344 c.c.), ossia, i negozi direttamente finalizzati al conseguimento di un risultato vietato e quelli che perseguono, anche indirettamente, uno scopo analogo a quello espressamente proibito. Si tratta di un vizio della causa che altera la sua funzione sociale tipica, indirizzandola verso finalità antigiuridiche2.

Le norme di diritto civile prevedono che, quando si verifichi la mancanza o un grave difetto degli elementi costitutivi di un negozio e questi siano considerati essenziali dalle parti, il negozio giuridico sia viziato da nullità.

L’art. 1418 c.c. prevede, in particolare, la nullità del contratto qualora il negozio sia contrario a norme imperative o manchi o sia viziato gravemente uno dei suoi elementi essenziali.

Un negozio nullo è un negozio incapace di produrre effetti (quod nullum est nullum producit effectum) e ognuna delle parti può rifiutare l’adempimento.

Se la nullità è totale, vale a dire se colpisce l’intero atto, nulla quaestio. Se, invece, la nullità riguarda soltanto una o più clausole, le norme prevedono che il negozio sia nullo se l’invalidità colpisce aspetti essenziali dell’accordo raggiunto tra le parti. La conversione del negozio nullo è, quindi, possibile solo se l’atto presenta tutti i requisiti di sostanza e di forma di un negozio diverso, e solo se le parti avrebbero comunque accettato di stipularlo se avessero conosciuto l’invalidità del precedente.

3) Il contratto di mutuo bancario e il contratto di “mutuo criminale”.

In un contratto di mutuo, come detto (e come ovvio), gli elementi essenziali dell’atto devono essere non solo formalmente presenti, ma devono anche essere, nella sostanza, “leciti” e “non viziati”.

Nel caso in cui uno dei contraenti è una banca, è possibile fare alcune ulteriori precisazioni. In questo caso, infatti, è parte agente un soggetto già sottoposto a uno specifico regime di vigilanza ad opera di un organo pubblico di controllo. Sia nel momento costitutivo, sia nella fase operativa tale azione di supervisione non viene mai meno. La normativa che regola l’operatività delle banche è dettagliata e prevede oneri particolari per quanto riguarda gli obblighi di trasparenza e di correttezza nei confronti della clientela. Inoltre, la banca, per sua stessa finalità istituzionale, è autorizzata a svolgere professionalmente un’attività di intermediazione nella raccolta del risparmio e nel suo collocamento.

Il secondo contraente, invece, è un soggetto che si rivolge alla banca per ottenere in prestito una somma di denaro, con l’obbligo di restituirla entro un dato periodo di tempo (contratto commutativo). I criteri di rimborso sono predeterminati e riguardano sia le modalità di restituzione sia l’ammontare delle rate da pagare, comprensive del capitale iniziale e degli interessi pattuiti (piano di ammortamento). Il mutuo bancario, inoltre, è richiesto alla banca precisando la sua destinazione e, quindi, vincolandolo ad un preciso scopo. La banca vigila sul rispetto di tale impegno.

Gli elementi essenziali del contratto, pertanto, sono tutti presenti e, considerate queste premesse di ordine generale, risultano essere tutti “leciti”.

Consideriamo, ora, un contratto di mutuo stipulato tra due soggetti privati.

In questo caso, occorre effettuare un esame più dettagliato sulla presenza, la validità e la “meritevolezza” degli elementi essenziali del contratto.

Non si potrà, infatti, prescindere dalla volontà delle parti: sia essa quella manifesta nell’atto, sia essa quella effettiva, ma occulta, che costituisce la vera ragione che ha indotto le parti a sottoscrivere il contratto.

La volontà manifesta è quella che traspare dalla lettera del negozio e che ci induce a considerare, stante la presenza formale di tutti gli elementi essenziali prescritti dalla legge, che si tratti di un contratto di mutuo.

La volontà effettiva, invece, va ricercata attraverso un esame più dettagliato, che va oltre l’aspetto meramente formale del documento, per investire il contenuto del negozio. In questo caso, insieme all’oggetto del contratto, vanno esaminate accuratamente la causa e la volontà espresse dalle parti. Ossia, va ricercato lo scopo “vero” che ha indotto ciascuna di esse a concludere il contratto e va indagato il “grado effettivo di libertà” di cui ciascuna poteva disporre nel momento della stipula (art. 1362 c.c.3).

Dall’esame del contenuto del documento potrà rilevarsi la reale intenzione di una o di entrambe le parti di concludere un vero e proprio “contratto di mutuo”.

L’esperienza dimostra che i prestiti usurari non sempre hanno soltanto lo scopo di ottenere dalle vittime un esborso monetario sensibilmente superiore alle somme ricevute in prestito. Vale a dire che l’imposizione di tassi di interesse elevatissimi non sempre può essere considerata un indice dell’esistenza di una situazione d’usura. Tale comportamento, specie alla luce dei più recenti episodi di cronaca, si è anzi dimostrato in netta controtendenza.

Sempre più spesso, infatti, i prestiti a tassi d’usura si prefiggono, non il rientro delle somme concesse (sia pure maggiorate di tassi di interesse esorbitanti), ma l’aggravio delle condizioni economico-patrimoniali del debitore per costringerlo in una situazione di sudditanza psicologica e materiale. Specie se il contraente è in difficoltà con i pagamenti, si ricorre con frequenza alla concessione/novazione di plurimi accordi di mutuo, con tassi di interesse sempre più elevati e tempi di rientro sempre più brevi. Se poi il contraente è proprietario di un’attività commerciale o è un imprenditore, l’usuraio solitamente chiede, ed è più interessato a ottenere, altre forme di “garanzie” (es. la cessione di parte degli utili; l’acquisizione di quote di partecipazione nella proprietà dell’impresa; la liquidazione dell’azienda o di un immobile a vantaggio proprio o di terzi da lui indicati etc), volte a eludere le norme che sanciscono, rispettivamente, il divieto di patto leonino (art. 2265 ss del c.c.), il divieto di patto commissorio (art. 2744 c.c.), l’abuso dell’istituto dell’anticresi (art. 1960 c.c).

L’“usura organizzata”, pertanto, si inserisce in un disegno criminoso più complesso. Essa costituisce solo una fase, un passaggio necessario ma strumentale, al perseguimento di altre finalità. Dall’analisi di questo comportamento sembra possibile delineare una struttura “consequenziale”, che segue un percorso predefinito: dalle estorsioni iniziali, si passa ai prestiti usurari, per arrivare al riciclaggio del denaro di provenienza criminale.

I contratti di mutuo, in questo caso, esprimono una causa e una volontà ben diverse, non solo da quelle previste per il negozio tipico regolato dalle norme del codice civile, ma anche dalle intenzioni delle parti (o meglio, di una delle parti) che formalmente sono espresse nel documento sottoscritto. Finalità e volontà che sono indirizzate al conseguimento di uno o più scopi penalmente sanzionati dal legislatore.

I vizi sostanziali che colpiscono l’atto, dunque, inficiano gravemente e irrimediabilmente la sua configurabilità come “contratto di mutuo”. In base alle previsioni dell’art. 1418 c.c., quindi, tale carenza non può che comportare la nullità totale del negozio4. Nullità che, in base agli artt. 1421 e 1422 c.c., può essere eccepita da chiunque vi abbia interesse o dal giudice, senza limiti di prescrizione.

4) Considerazioni relative alla “legge sull’usura”.

La normativa sull’usura, approvata con l. 7 marzo 1996 n. 108, ha introdotto nell’ordinamento italiano una disciplina che privilegia l’individuazione di criteri oggettivi, anziché soggettivi, nella determinazione della fattispecie in parola.

Prima della riforma, il vecchio ordinamento, all’art. 644 c.p., considerava sussistente il reato d’usura quando erano presenti, contemporaneamente, due elementi: lo “stato di bisogno della vittima” (e il suo approfittamento) e il “farsi promettere o corrispondere denari o altri vantaggi usurari”. L’esame del giudice, pertanto, aveva lo scopo di accertare l’esistenza di tali circostanze, lasciando alla sua prudente valutazione la determinazione dell’usurarietà o meno dei tassi di interesse pattuiti.

La complessità delle indagini e alcuni gravi episodi di cronaca verificatisi nel frattempo hanno portato il legislatore a modificare la normativa, privilegiando l’adozione di criteri “oggettivi” nella determinazione del reato.

Sparito il riferimento alla condizione di bisogno e alla circostanza del suo approfittamento, è stata introdotta una norma in bianco che àncora la determinazione dei limiti al tasso di interesse, a un procedimento di calcolo la cui disciplina è demandata a una norma di carattere amministrativo.

La rilevazione trimestrale del “Tasso Effettivo Globale”, operata dalla Banca d’Italia e dall’UIC, costituisce la base per il calcolo del “tasso-soglia”; oltre tale limite, qualsiasi interesse pattuito è considerato, juris et de jure, usurario.

In base alla nuova legge, pertanto, il giudice non è tenuto a compiere una valutazione delle circostanze soggettive in cui il contratto è venuto a formarsi; la rilevazione “contabile” del superamento del limite prefissato è sufficiente a realizzare la fattispecie penalmente sanzionata.

La considerazione degli elementi soggettivi, indifferente nella determinazione della fattispecie principale del reato d’usura, acquista invece significato solo in una tipologia residuale, contemplata all’art. 644 bis c.p., denominata “usura impropria”. In questa particolare circostanza, pur non essendosi verificato il superamento del limite posto dal tasso-soglia, il giudice può valutare l’esistenza di condizioni concrete (tasso medio praticato, sproporzione tra le prestazioni, condizioni di difficoltà), comunque sufficienti a realizzare una situazione di usura.

L’art. 11 della l. 108/96 (introduttivo dell’art. 644 ter c.p.) prevede un termine di prescrizione per il reato di usura che decorre dal giorno dell’ultima riscossione degli interessi e del capitale. Tale formulazione ha creato qualche perplessità sulla natura giuridica del reato di usura ritenuto, per molto tempo, dalla maggior parte della dottrina e dei giudici di merito, un reato istantaneo ad effetti permanenti5. La previsione di un termine “posticipato” rispetto a quello della conclusione del contratto è stato, però, da molti considerato come indice di un mutato indirizzo interpretativo, volto a rendere l’usura un reato permanente6. Tale circostanza, infatti, porterebbe a considerare ciascun pagamento delle rate come un comportamento delittuoso individualmente sanzionabile. L’usura si caratterizzerebbe non solo per un atto iniziale, lesivo del bene giuridico tutelato, ma anche per il protrarsi di una serie di azioni, idonee a rinnovare l’antigiuridicità della condotta.

La qualificazione del reato di usura, secondo l’una o l’altra definizione, ha quindi conseguenze significative:

  1. se il momento rilevante è quello della stipula del negozio, allora, per la determinazione dell’usurarietà o meno del tasso di interesse pattuito, è sufficiente rilevare il tasso-soglia valevole per il trimestre di riferimento;

  2. se, invece, il momento determinante è quello del pagamento delle rate, in una qualsiasi delle fasi successive, è possibile incorrere nel reato di usura. Ciò finirebbe per rendere “illecita” la corresponsione (e l’accettazione) di interessi superiori al tasso-soglia da chiunque effettuata.

L’ipotesi di una tale, radicale, riqualificazione del reato di usura ha creato molti dubbi e accesso infuocate polemiche.

Le pronunce giurisprudenziali, nel frattempo intervenute, non hanno contribuito a chiarire i dubbi.

In particolare, se si condivide l’interpretazione del reato di usura quale reato permanente, le disposizioni della l. 108/96 troverebbero applicazione anche per i mutui stipulati anteriormente, quando da essi discendano prestazioni non ancora eseguite.

In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione, con sentenza 5286/2000, statuendo che:

  • l’obbligazione degli interessi non si esaurisce in una sola prestazione, ma si sostanzia in più comportamenti successivi;

  • la qualificazione usuraria o meno degli interessi avviene con riferimento al momento della dazione e non della stipula del contratto;

  • non è possibile dare corso all’adempimento dell’obbligazione (i.e. pagamento degli interessi), nelle forme inizialmente convenute, per la sopravvenuta introduzione di una norma imperativa che va a disciplinare diversamente un rapporto giuridico non ancora esaurito7.

Da ultimo, con la sentenza 14899/2000, la Corte di Cassazione ha ribadito tale orientamento affermando che “(…) la dazione degli interessi non costituisce un post factum non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante8. Detto convincimento trae fondamento dall’art. 1339 c.c., secondo cui “Le clausole, i prezzi di beni o di servizi imposti dalla legge sono di diritto inseriti nel contratto anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti”, e dall’art. 644 ter c.p., secondo cui “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”.

La Corte ha pertanto affermato l’applicabilità dello jus superveniens ai contratti di mutuo ancora in vigore, aprendo la possibilità ai giudici di rilevare, anche d’ufficio, l’“usura sopravvenuta”. In quanto ai tassi, nelle pronunce riportate, i giudici hanno deliberato che, contrariamente a quanto stabilito dalla l. 108/96, in questi casi non troverebbe applicazione il novellato 2° comma dell’art. 1815, che sanziona con la nullità degli interessi pattuiti i contratti di mutuo divenuti usurari, ma l’adeguamento automatico del tasso al tetto massimo consentito dalla legge (“tasso-soglia”) riferito al trimestre precedente.

E’ da notare, per incidens, che la qualificazione dell’usura come reato permanente comporterebbe, sotto il profilo strettamente processulae, qualche difficoltà in più per il giudice. Affinché il rapporto possa essere considerato usurario, infatti, sarebbe necessario verificare che lungo l’intera fase dell’accordo, che può talvolta estendersi per molti anni, la condotta criminosa e, quindi, la consumazione del reato, si protragga, invariata, nel tempo. Ai fini probatori, pertanto, la soluzione che individua quale momento consumativo del reato quello della pattuizione degli interessi appare sicuramente più immediata; il versamento effettivo delle rate, infatti, costituirebbe una mera fase di esecuzione della promessa iniziale. E’ nella fase della stipula dell’atto, infatti, che sorge il legittimo affidamento delle parti e si precisa l’esatta entità del sacrificio/vantaggio derivante per ciascuna di esse dal contratto sottoscritto (contratto commutativo). Inoltre, essendo il mutuo un contratto “reale”, l’obbligazione del mutuatario sorge istantaneamente, all’atto della consegna della somma di denaro (o del bene), e non di volta in volta, nel momento del versamento delle singole rate. Peraltro, lo stesso 2° comma dell’art. 1815 c.c., così come novellato, fa riferimento, quale momento significativo, a quello in cui gli interessi sono “convenuti” e non a quello in cui sono “pagati”.

La previsione di un termine di prescrizione diverso da quello del momento consumativo del reato (art. 158 c.p.) sembrerebbe, quindi, essere stata dettata al fine di apprestare una maggiore tutela alla parte contrattuale più “debole”, specie in tutti quei casi in cui, tra la stipula dell’accordo e la corresponsione degli interessi, sia decorso un cospicuo lasso di tempo. L’“estensione” del termine ad quem, pertanto, avrebbe esclusivamente una finalità di facilitazione probatoria in sede processuale.

In questo senso si è espresso il legislatore, chiamato a dirimere le difficoltà interpretative sorte successivamente alle pronunce della Suprema Corte.

Banche e cittadini sono stati posti davanti a gravi problemi applicativi della norma, sui quali occorreva fare chiarezza.

Il legislatore è intervenuto con d.l. 394/2000 (poi convertito, con modifiche, in l. 24/2001) ponendo definitivamente termine alla questione. Si legge, infatti, al 1° comma dell’art. 1: “(…) si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. Norme transitorie sono state introdotte per disciplinare le fattispecie concrete concluse anteriormente all’entrata in vigore della l. 108/96 e non ancora estinte al momento dell’emanazione del decreto.

Tale chiarimento, che sopperisce, peraltro, alla lacunosa disciplina transitoria prevista dalla legge del 1996, ha generato, a sua volta, forti divergenze sull’interpretazione delle disposizioni.

In particolare, i principali punti di contrasto riguardano: i criterî di determinazione dei tassi di interesse applicabili; la rilevazione di eventuali abusi; la possibilità di esigere il rimborso o la compensazione delle somme pagate in eccesso.

Per questi contratti, infatti, gli artt. 2 e 3 del decreto legislativo prevedono l’applicazione di un “tasso di sostituzione” automatico, valevole per le rate in scadenza nel periodo successivo al 3/1/2001.

Sia gli intermediari autorizzati sia i consumatori, attraverso le rispettive associazioni di categoria, hanno promosso una serie di iniziative volte a tutelare i reciproci, contrastanti interessi.

Dubbi sulla legittimità costituzionale delle disposizioni del d.lgs. 24/2001 sono stati avanzati da parte di alcuni giudici, su sollecitazione delle organizzazioni dei consumatori9. I rilievi sollevati riguardano, in sintesi: la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost); la mancata tutela del risparmio (art. 47 Cost); la violazione delle norme in materia di diritto alla difesa e di indipendenza della magistratura (artt. 24, 101-104 Cost); l’esercizio di iniziative economiche private in contrasto con i principî di utilità sociale (art. 41 Cost); il difetto dei presupposti di necessità e di urgenza alla base della decretazione (art. 77 Cost).

Al legislatore viene rimproverato l’“abusivo” utilizzo della norma di interpretazione autentica e l’incompatibilità della previsione di “tassi di sostituzione”, derogatorî della disciplina generale, con le disposizioni della l. 108/96.

In quanto alla prima critica, occorre ricordare che la legge di interpretazione autentica risponde all’esigenza di chiarire il senso delle norme preesistenti o di indicare, in caso di plurime e divergenti interpretazioni della stessa, quella più rispondente alle intenzioni del legislatore10. Argomenta, infatti, la Corte Costituzionale, con sentenza 311/1995, “(…) il potere di interpretazione di una legge non è riservato dalla Costituzione in via esclusiva al giudice, né tantomeno è sottratto alla potestà normativa degli organi legislativi; le due attività operano infatti relativamente a piani diversi, in quanto mentre l’interpretazione del legislatore interviene sul piano generale ed astratto del significato delle fonti normative, quella del giudice opera sul piano particolare come premessa per l’applicazione concreta della norma alla singola fattispecie sottoposta al suo esame”.

Con sentenza più recente (n. 525/2000), la stessa Corte ha ribadito la correttezza del ricorso alle norme di interpretazione autentica “(…) in presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore”.

Da quanto detto, si deduce che l’intervento del legislatore si è reso necessario per chiarire definitivamente la reale, originaria volontà espressa nella l. 108/96 e “correggere” le difformi interpretazioni sorte nel frattempo. Divergenze derivanti da una non perfetta formulazione e univocità di interpretazione della lettera della legge, che ha determinato un travisamento del precetto della stessa.

Per quanto riguarda il secondo rilievo, a parere di chi scrive, esso non appare condivisibile.

La diversa e derogatoria previsione, infatti, giuridicamente assimilabile alle norme di integrazione negoziale di cui all’art. 1339 c.c., si giustifica sulla base di valutazioni extra-giuridiche, di equità sociale, che non appaiono idonee a modificare i principî generali di diritto posti dalla l. 108/96, e successivamente esplicitati con il d.lgs. 24/2001. La difforme disciplina, infatti, si applica esclusivamente ai contratti di mutuo a tasso fisso stipulati in data anteriore al 1996. Con il d.lgs 24/2001 è, quindi, venuto meno il riconoscimento della cosiddetta “usurarietà sopravvenuta”.

Il provvedimento, infatti, esprime una norma di carattere generale, valida per tutti i contratti, pre e post 1996. Esso mette fine ai contrasti sorti in tema di quantificazione dei tassi di interesse e risponde all’esigenza di individuare, chiaramente, gli elementi essenziali per l’applicazione del criterio “oggettivo” posto dal legislatore.

5. Patologie del contratto di mutuo.

Teoricamente, nella fase di determinazione del tasso di interesse da applicare al mutuo, i contraenti possono scegliere due diverse soluzioni:

  • tasso di interesse liberamente contrattato, inferiore al tasso-soglia,

  • tasso di interesse equivalente o superiore al tasso-soglia.

Alla luce delle disposizioni in parola, solo in quest’ultimo caso si può parlare di usura “conclamata”; nel primo caso, invece, occorrerebbe effettuare una valutazione più dettagliata delle condizioni, soggettive e oggettive, esistenti al momento della sottoscrizione del contratto, per verificare se ricorrano o meno le circostanze previste dall’art. 644 bis c.p.

La nuova disciplina ha il merito di aver contribuito a eliminare l’incertezza che gravava sul giudice nella determinazione del carattere di “usurarietà” del tasso di interesse pattuito. Tale esame aveva portato, in non pochi casi, a dilatare i tempi dei processi e ad accrescere l’incertezza degli stessi. L’indicazione di un criterio “obiettivo” ha senza dubbio semplificato tale compito, sia per il giudice, sia per le parti, fin dal momento della sottoscrizione dell’atto.

Ciononostante, l’indicazione di un criterio prestabilito non appare sufficiente, di per sé, a sancire la liceità del contratto senza effettuare altri, ulteriori controlli sui suoi elementi costitutivi.

Il vincolo posto dalle disposizioni della l. 108/96 per la determinazione del tasso di interesse nei contratti di mutuo, infatti, sembra porre dei limiti che gravano principalmente (se non esclusivamente) sui contratti di mutuo “propriamente detti”. In sostanza, esso finisce per svolgere i propri effetti di “contenimento” dei tassi soltanto sui contratti di mutuo conclusi tra banche (o intermediari autorizzati)11 e privati.

Nel caso, invece, di pratiche d’usura concluse da soggetti organizzati per il perseguimento di finalità delinquenziali (es. criminalità economica), la sola individuazione di un limite quantitativo dei tassi di interesse non è sufficiente a reprimere la pratica dell’usura. L’esistenza di un “tetto”, infatti, non è da solo sufficiente a indicare l’usurarietà dell’accordo, specie quando, come sempre più spesso accade, tali contratti vengono posti in essere senza prevedere tassi di interesse esorbitanti. I gruppi delinquenziali, infatti, dispongono di altri strumenti, molto più efficaci e violenti, per mettere in difficoltà la controparte, imporre vincoli personali e patrimoniali, condizionare l’andamento delle imprese.

Per tali ragioni, anche quando un contratto di mutuo è stato formalmente concluso, oltre a un esame del tasso di interesse pattuito, occorrerebbe svolgere, con grande accuratezza, una valutazione “globale” del negozio, dei suoi elementi essenziali, degli interessi perseguiti, dei motivi sottostanti.

6) Conclusioni.

Ritorniamo brevemente all’istituto della rescissione del contratto per verificarne l’inapplicabilità nel caso di un contratto di mutuo usurario. Si ha “rescissione” del contratto (ex. artt. 1447 ss del c.c.) quando la sproporzione, in un negozio a prestazioni corrispettive, deriva dallo stato di bisogno (o di pericolo) di una delle parti, del quale l’altra si sia approfittata per trarne vantaggio. Perché ci sia sproporzione tra i due comportamenti occorre che: la prestazione dovuta dalla parte danneggiata sia superiore della metà rispetto alla controprestazione dovuta dall’altra parte (lesione ultra dimidium), che vi sia stato uno “stato di bisogno” della parte danneggiata (che può consistere anche in una difficoltà non economica), la consapevolezza dell’altra parte di trarre un’utilità economica da tale situazione.

Il difetto, pertanto, deve essere presente ab origine e deve essere fatto rilevare entro un anno dalla stipula del contratto. La sua ratio è quella di tutelare l’equilibrio tra le controprestazioni dedotte nel contratto.

La norma, prima della riforma apportata dalla l.108/96, poneva un delicato problema di coordinamento tra il profilo civilistico dell’istituto e la sanzione penalistica del reato d’usura. In entrambi i casi, infatti, occorreva effettuare una valutazione dei vizi di causa del contratto. Stante, tuttavia, l’autonomia dei due profili di merito, la pronuncia della nullità parziale del contratto e il suo conseguente risanamento (la sostituzione del tasso di interesse pattuito con il tasso di interesse legale, ex art. 1815 c.c.), non faceva venir meno la rilevanza, sotto il profilo penalistico, del carattere usurario del tasso prefissato.

L’attuale riforma, invece, consente una più facile distinzione delle due fattispecie: permane la necessità di effettuare una valutazione dell’esistenza dei diversi profili richiesti per la pronuncia della rescindibilità del negozio, mentre, per la valutazione dei profili penali, è sufficiente che siano stati pattuiti interessi superiori al tasso-soglia.

In questo modo, dal punto di vista civilistico, il contratto “risanato” può continuare a produrre i suoi effetti mentre, dal punto di vista penalistico, l’accordo usurario è sottoposto a una disciplina più severa, in difesa di un bene pubblico generale, superiore a quello delle singole parti.

Qualche perplessità sorge, tuttavia, se si considera che, oggetto dell’analisi del giudice non dovrebbe essere il solo difetto di sinallagma del contratto (come previsto per la rescissione), bensì il vizio di uno o più elementi essenziali (i.e. la causa o la volontà delle parti). In questo caso, infatti, non si dovrebbe ricorrere alla rescissione del contratto, ma occorrerebbe piuttosto procedere alla dichiarazione di nullità dello stesso. E’ questo, infatti, l’istituto che il legislatore ha posto per sanzionare i vizi genetici del contratto che ne inficiano la validità fin dal momento del suo perfezionamento (art. 1418 c.c.).

Ad analoga conclusione si giunge se consideriamo la norma che prevede, in caso di pattuizione di un tasso di interesse superiore al tasso-soglia, che la clausola si abbia per non apposta e non si applichino interessi, a parziale modifica dell’art. 1815 c.c., che prima prevedeva la sostituzione degli interessi pattuiti con gli interessi calcolati in misura legale. Tale previsione contempla la “sostituzione” automatica della clausola viziata e la “sanatoria” del contratto ritenuto, secondo questa interpretazione, affetto da nullità parziale (ex art. 1419 c.c.). Tuttavia, detto approccio costituisce una soluzione incompleta; esso pone fine all’esigenza di individuare un tasso di interesse più equo, ma non svolge una valutazione complessiva dell’atto e dei suoi elementi costitutivi. Ove tale analisi venisse effettuata, la constatazione della grave compromissione degli elementi fondamentali del contratto non potrebbe che portare a una dichiarazione di nullità totale dello stesso, ex art. 1418 c.c.

L’accordo usurario, pertanto, a parere di chi scrive, dovrebbe cessare ex tunc di produrre effetti civili ed essere sanzionato esclusivamente sotto il profilo penalistico. Sarebbe, infatti, arduo giustificare la protratta esistenza di un atto, sia pure “risanato” dal punto di vista civilistico e formale, qualora, contemporaneamente, lo stesso fosse oggetto di un ben più rigoroso esame da parte del giudice penale per rilevarne il carattere usurario/criminale.

1 Le considerazioni espresse nel presente articolo sono opinioni personali dell’autrice e non impe-gnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza.

2 Alcuni autori propongono, in questo caso, di inquadrare la fattispecie in esame nella categoria dei “reati-contratto”. Benché la dottrina non sia univocamente d’accordo su tale istituto, diremo che “nel reato-contratto la condotta punita consiste, appunto, nella conclusione di un negozio, nel quale l’incontro delle volontà espresse può essere sufficiente per la punibilità, senza che risulti necessaria un’attività di esecuzione del contratto” (prof.avv. A. Cristiani “ Il reato di usura: momento di consumazione ed effetti processuali”, atti Convegno Paradigma su “Le disposizioni in materia di usura: il monitoraggio dei tassi soglia nelle banche e nelle società finanziarie”, Milano, 20 maggio 1997 pg. 4). La sottoscrizione di un accordo, astrattamente idoneo a perseguire finalità vietate dalla legge, è sufficiente a determinare una violazione sanzionabile. Nel caso di un contratto di mutuo stipulato a scopo d’usura ciò significherebbe svincolare l’istituto da qualsiasi esame relativo al momento della corresponsione delle rate, per privilegiare la fase della conclusione formale dell’atto.

3 Art.1362 “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.

4 Art. 1418 c.c. (Cause di nullità del contratto) “ Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325 (elementi essenziali), l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 (motivo illecito comune alle parti) e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346 (oggetto possibile, lecito, determinato o determinabile)”.

5 Vds. Cass. 18/2/1982, Cass. 24/4/1990, Cass. 27/5/1992. Post l. 108/96: Pretura di Cagliari 16/9/ 1996, Tribunale di Lodi 30/3/1998, Tribunale di Roma 4/6/1998.

6 Vds. Tribunale di Milano 13/11/1997, Tribunale di Velletri 30/4/1998, Tribunale di Firenze 10/6/ 1998.

7 Analogo parere era stato espresso dalla stessa Corte, con sentenza 1126/2000, in base al quale “(…) si può ritenere che la sopravvenuta l.108/96, di per sé evidentemente non retroattiva e dunque insuscettibile di operare rispetto agli anteriori contratti di mutuo, sia di immediata applicazione nei correlativi rapporti, limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora in corso”.

8 Si legge nella sentenza “(…) pur dovendosi ritenere in via di principio che il giudizio di validità vada condotto alla stregua della normativa in vigore al momento della conclusione del contratto, tuttavia, verificandosi un concorso tra autoregolamentazione pattizia ed eteroregolamentazione normativa, diviene insostenibile la tesi che subordina l’applicabilità dell’art. 1419, 2° comma c.c., all’anteriorità della legge rispetto al contratto, perché l’inserimento ex art. 1339 c.c. del nuovo tasso incontra l’unico limite che si tratti di prestazioni non ancora eseguite, in tutto o in parte”.

9 Vds. Trib. di Benevento, 2/1/2001; Trib. di Trento, 18/3/2001; Trib. di Benevento, 4/5/2001; Trib. di Siracusa, 2/7/2001.

10 Alla luce della sentenza 311/1995 della Corte Costituzionale, in particolare, l’intervento deve essere volto a “(…) chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative, sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea di politica del diritto perseguita dal legislatore”.

11 Il 5° comma dell’art. 1 della l. 108/96 prevede, ad majora, un inasprimento delle sanzioni per il reato d’usura “se il colpevole ha agito nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare”.

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