Fuga dalla Mota: Cesare Borgia e l’evasione dalla fortezza spagnola

Esattamente due secoli e mezzo prima della silenziosa fuga dai Piombi che Giacomo Casanova metterà in atto nella notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre del 1756 – e che poi racconterà a moltitudini di uditori, così tanti da spingerlo, dice, a decidere di pubblicarla in Francia – Cesare Borgia mise a segno un’evasione non meno impressionante dalla torre più alta di quello che nel Cinquecento era il carcere di massima sicurezza del regno di Spagna: el Castillo de La Mota, a Medina del Campo.

L’imponente mole fortificata si era andata costituendo nel corso di tre secoli durante i quali la sua proprietà era stata rivendicata da molti, e ironicamente proprio nel 1475 – l’anno che più probabilmente ha visto la nascita del futuro prigioniero Borgia – era tornato nelle mani della regina di Castiglia Isabella e in quelle di suo marito Ferdinando II d’Aragona: sarà proprio lui che nel 1504 lo farà incarcerare alla Mota, desiderando con tale gesto compiacere il neoeletto pontefice Giulio II Della Rovere.

Sin dal momento della sua ascesa al soglio pontificio nel 1503 l’ex cardinale Giuliano si era adoperato con tutta la scaltrezza politica di cui era in possesso per debellare definitivamente la presenza borgiana dall’ormai sua Roma. Dopo la morte del padre papa Alessandro VI, avvenuta improvvisamente il 18 agosto di quello stesso anno, il Valentino – anch’egli costretto a letto, vittima della stessa malattia che aveva ucciso suo padre – aveva resistito egregiamente alle prime difficoltà: nel celebre VII capitolo del suo Principe Machiavelli conferma con un velo di amarezza che alle precise progettazioni del Borgia non si potesse imputare che una sfortunatissima sorte e soprattutto un nemico, il nuovo papa, praticamente imbattibile.

Giulio II era stato infatti in grado non solo di mettere alle strette il neo-duca di Romagna, ma anche di ingannarlo estorcendogli, con false promesse e titoli a perdere, i voti dei cardinali spagnoli che Cesare controllava e che, nel brevissimo conclave del 31 ottobre-1 novembre 1503, contribuirono in modo decisivo alla sua vittoria. Dopo qualche giorno di calcolata stasi avvenne l’inevitabile: ottenute da Cesare le fortezze romagnole che ancora controllava (i cui cittadini gli erano peraltro in buona parte ancora fedeli) e che fino a quel momento si era rifiutato di consegnare, sperando di raggiungerle e pianificare un contrattacco da lì, Giulio II lo lascia andar via (senza denaro e senza truppe, ma non senza fiducia nelle proprie capacità); prova a dirigersi a Forlì, che come lui ancora resiste, ma viene intercettato dal cattolicissimo re di Spagna, che lo arresta e poi, incoraggiato dalla prospettiva di instaurare buoni rapporti diplomatici con l’astuto e irascibile papa, lo imprigiona prima a Chinchilla de Montearagòn e poi nella famigerata Mota.

La cella che sarà la sua inospitale dimora per due anni (che trascorrerà facendo quel che può, fra letture e scherma) era situata nella parte più alta della torre maggiore, alta a sua volta più di 40 m. È proprio da lì che il 25 ottobre del 1506 il Valentino si calerà dalla finestra e inizierà la sua discesa fin quasi a terra; verrà avvistato poco prima di raggiungere il suolo da alcune guardie che taglieranno la corda alla quale era aggrappato facendolo precipitare nel fossato che circonda la fortezza. Non riusciranno però a fermarlo, perché zoppicando Cesare raggiungerà un cavallo che qualcuno aveva preparato per lui e sparirà con la velocità straordinaria che da sempre lo aveva contraddistinto come cavaliere, consentendogli vantaggi militari e permettendogli adesso di raggiungere, tra sentieri nascosti e viaggi in barca, Pamplona, dove ad attenderlo è un entusiasta Giovanni III di Navarra – fratello di sua moglie Charlotte d’Albret – impaziente di avere dalla sua uno dei migliori comandanti militari in circolazione.

La notizia della fuga dell’ex duca di Romagna giunge ovviamente anche al papa, ma il pontefice non dovrà attendere molto prima di essere sollevato definitivamente dalle sue preoccupazioni borgiane: nella notte tra l’11 e il 12 marzo del 1507, circa quattro mesi dopo la sua fuga dalla Mota, Cesare Borgia sarà colpito da una lancia, continuerà a combattere ma verrà infine trafitto 23 volte dalle picche dei vassalli ribelli che stava combattendo per conto di suo cognato. Attaccato e circondato da molti, troppi nemici – come del resto accadde al suo omonimo in Senato nel 44 a.C. – la furiosa, ambiziosa, pressocché inarrestabile parabola del Valentino trova a Viana in quella notte la sua fine.

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