La sera del 18 marzo, nel Romagnolo, si onora da secoli una tradizione estremamente suggestiva: quella della fogheraccia. Questa consiste nella creazione di enormi falò tra le fiamme dei quali vengono bruciati materiali legnosi che risalgono, sia simbolicamente che effettivamente, al passato. Si tratta di mobili vecchi, residui di potature e altri scarti ancora, ciascuno portatore di una storia ormai finita e che necessita di terminare definitivamente per fare spazio al nuovo, nel significativo contesto del passaggio dall’inverno alla primavera.
Quella dei falò è una tradizione che affonda le proprie radici in epoca pagana, quando in occasione della vigilia dell’equinozio di primavera si svolgevano baccanali e altri rituali volti a propiziare la fertilità e la purificazione dei campi nonché l’inizio del nuovo anno romano. Dopo l’avvento del Cristianesimo, invece, la celebrazione fu dedicata a San Giuseppe, ma senza modificare le caratteristiche che l’avevano sempre contraddistinta.
Talvolta il giorno della fogheracchia incontra quello di un altro rito altrettanto affascinante, ossia quello della cosiddetta ségavëcia, che cade il giovedì di mezza quaresima. Durante questo rituale allegorico si allestisce un fantoccio dalle sembianze di un’anziana donna, posto su un carro che sfila tra il clamore delle trombe e delle voci degli astanti. Dopo la sfilata, il fantoccio viene lacerato e, infine, arso in piazza.
La leggenda all’origine di questa particolare usanza vuole che, proprio nel giovedì di mezza quaresima, quando ancora non si poteva consumare carne, un’anziana signora contravvenne a questa regola: per questo, essa fu condannata a morte per stregoneria. Oggi questa ricorrenza è stata trasformata in una celebrazione festosa, tanto che il fantoccio dell’anziana signora viene segata in piazza per far fuoriuscire dal suo ventre dolci e giocattoli.
Tutte queste tradizioni attestano senza dubbio una forte discendenza agropastorale: i falò infatti vengono allestiti quando vi è maggiore disponibilità di scarti delle potature, nonché in occasione dello svuotamento delle stalle. In particolare, l’ultimo covone mietuto aveva il nome di “vecchia”: è per questo che l’antropologo Renato Cortesi rilesse anche la distruzione del fantoccio dell’anziana signora in questo senso. Secondo lui, infatti, si sarebbe trattato del rito dell’ultimo covone mietuto.
Insomma, i rituali romagnoli fecero accordare mondi solo apparentemente lontani: quello allegorico e quello reale, ma soprattutto quello pagano e quello cristiano. Pare infatti che l’atto di bruciare fantocci di anziane signore servisse, nell’immaginario tradizionale, anche ad allontanare le anime dei morti che, non ancora raggiunto l’aldilà, turbavano il mondo dei vivi. Questi ultimi però avevano imparato ad incalzarle attraverso i loro falò, che ancora illuminano le ultime notti di marzo e che promettono, finalmente, la primavera.