Emergenza, disperazione, speranza. Rileggendo Kierkegaard

Prendere la parola durante un’emergenza è un salto nel buio che richiede coraggio, e anche una certa dose di avventatezza. Per questo la comunicazione pubblica oggi è insieme inquieta ed esitante. Lo stesso si dica per la nostra classe dirigente, spiazzata di fronte a un’impresa del tutto inedita. Come nella storiella di ‘al lupo, al lupo’, dopo anni di emergenza continua e di crisi alternate, da quella finanziaria alle varie crisi di governo alla cosiddetta crisi migratoria, quando arriva un’emergenza per molti versi più emergente delle altre, perché più avvertita sulla pelle e nel corpo delle persone, siamo impreparati e ci mancano le parole per esprimere e dare forma al nuovo trauma: mancano perché ne abbiamo abusato, sono ormai inflazionate in una cronica crisi di credibilità. Fa quasi sorridere, e a volte fa tirare un sospiro di sollievo, l’atmosfera sospesa e rarefatta dei talk show così tranquilli senza pubblico, delle opinioni proposte col beneficio del dubbio, mettendo le mani avanti, pur sempre turbata da brevi sfoghi personali dei soliti urlatori. Ma al netto di marginali ed episodiche scenate, generalmente si è più cauti, più responsabili, e ci si chiede se non si possa restare così, se dopo questa purga ci sentiremo più sobri, più lucidi.

Posto questo augurabile guadagno in lucidità, per metterlo davvero a frutto occorre un salto in più. Per pensare seriamente a come riorganizzare l’economia e la società dopo la tragedia che stiamo vivendo si deve pensare più a fondo. Infatti per poter chiarire e decidere cosa prevedere per il domani, prendendo posizione su possibili pronostici oggi ancora incerti, occorre un pensiero radicale che si interroghi su come e perché sperare. Si sente insomma un’urgente domanda di speranza, e precisamente sulla speranza, domanda sempre sottintesa ad ogni pensiero pubblico, ad ogni comunicazione. La domanda fondamentale della crisi della salute è la domanda sulla salvezza, come rivela l’etimologia. Riusciamo davvero a sperare? Su cosa si fonda questa speranza? Cosa dà forma ad essa, alla nostra vita, oggi e per l’avvenire?

Per farsi meglio queste domande, si potrebbe andare a rispolverare i classici, cioè quelle letture che, pur lette di sfuggita, al liceo ci inquietavano e ci formavano. Molto a tema capita il testo fondamentale Malattia per la morte, di Kierkegaard. In quelle pagine densissime ed esplosive della cultura occidentale si raffigura e prefigura l’uomo moderno e la sua crisi post-moderna. Un uomo inevitabilmente disperato, seppure latentemente e in diversi gradi e forme. Disperato perché preda delle sue contraddizioni, perso negli estremi di finito e infinito, possibilità e necessità. È l’uomo «fantastico», per cui «sempre più cose diventano possibili, perché niente diventa reale», perché «tutto diventa sempre più istantaneo»; ma anche, per converso, il fatalista determinista,o il «conformista» borghese, senza fantasia, senza «spirito», entrambi irrigiditi nella sola necessità. Dell’ultimo tipo di disperato si leggono righe attualissime, quando è descritta la sua reazione di fronte alla paura: «se talvolta l’esistenza aiuta con orrori che eccedono la saggezza pappagallesca dell’esperienza triviale, il conformismo dispera, cioè, diventa allora manifesto che era disperazione». Di fronte all’eccedenza dell’orrore, della paura fisica o comunque esterna, dell’imprevisto che sconvolge il nostro ordine, il conformista crolla, dispera e ammutolisce.

A distanza di quasi due secoli, da quel 1849 denso di svolte storiche, il filosofo danese ritrae con tremenda onestà gli stessi atteggiamenti tipici che oggi riaffiorano nei nostri discorsi: di fronte al trauma e all’orrore, davanti alla manifestazione della nostra disperazione, non riusciamo a non essere emotivi, rassegnati e sconcertati. Chi si abbandona alle isteriche fantasie che circondano le fake news, chi all’elitarismo del disincanto, i più restano nel ‘disorientamento di massa’ più muto e paralizzato

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