Diana Vreeland maestra del giornalismo di moda, icona di stile e precursora del nuovo millennio

La storia della moda assomiglia un po’ a quella del pensiero scientifico. Per riprendere Thomas S. Kuhn, secondo il quale il sapere non procede per accumulazione progressiva ma attraverso la formulazione di ‘paradigmi’, vale a dire insiemi organici di teorie e concetti, che saranno ribaltati dall’avvento rivoluzionario di nuovi paradigmi, si può dire che perfino in un ambito così distante, come è quello della moda, succede qualcosa di simile. Bisogna pertanto sapere individuare i veri innovatori, persone che hanno saputo cambiare le regole del gioco, segnando un’epoca, imponendo uno stile e una visione delle cose radicalmente diversa. Diana Vreeland, giornalista di moda e icona di stile, fu una precursora. I suoi articoli per Harper’s Bazaar e per Vogue America cambiarono per sempre il racconto della moda, poiché si interessò a temi di scottante attualità. In particolare negli anni 60 e 70, tra i benpensanti dell’epoca, creava scalpore il fatto che la sua penna andasse ad incidere nella carne viva delle trasformazioni sociali e culturali del tempo, considerati appannaggio di politici e moralizzatori. Vreeland scrisse della pillola anticoncezionale, dei diritti delle donne, dell’omosessualità, seguì i Beatles e la contestazione giovanile. La sua intuizione fu geniale e profetica. Capì infatti che le nuove lettrici dei giornali di moda sarebbero state giovani donne in cerca di emancipazione, libere e liberate, interessate all’attualità, alla politica e alla cultura, e non solo ai vestiti e agli accessori. Grazie alla sua lungimiranza liberò il giornalismo di moda da quell’aurea obsoleta di prodotto editoriale di nicchia per signore dell’alta società (un po’ come Irene Brin), intercettando i mutamenti nel costume e nelle abitudini di vita di donne e uomini del XX secolo. Come racconta suo figlio Frederick Vreeland, un distinto signore di 91 anni che non ha seguito le orme della madre, Diana fu la prima ad imporre una modella di colore sulla copertina di Vogue, molto tempo prima che Naomi Campbell diventasse la regina delle passerelle degli anni 90. Si racconta che ai redattori in partenza per i servizi di moda fosse solita dire: “Esagerate e se non trovate quello che vi ho chiesto allora inventatelo.” Da convinta anticonformista riuscì a mettere in crisi il dogma del buon gusto, sinonimo di un modo di apparire affettato molto in voga tra i conservatori del tempo: “Abbiamo tutti bisogno di un po’ di cattivo gusto — amava ricordare — è la mancanza totale di gusto che non condivido.” Ripeteva di frequente: You don’t have to be beautiful to be wildly attractive (non devi essere bella per essere terribilmente attraente), una filosofia attuale se pensiamo che una parte del fashion system ha raggiunto la maturità per rappresentare corpi meno perfetti, meno ‘photoshoppati’, ma più reali. Come non ricordare poi la sua celebre rubrica su Harper’s Bazaar intitolata Why don’t you…? dalla quale dispensava bizzarri consigli alle donne di tutto il mondo, il più celebre dei quali rimane quello di lavare i capelli dei bambini biondi con lo champagne avanzato! Ebbe un grande fiuto nell’individuare gli stilisti più bravi da Chanel a Valentino (con il quale condivise la passione per il colore rosso) fino a Pucci, Missoni e Manolo Blahnik. Quando lasciò Vogue, si seppe reinventare come consulente per il Metropolitan Costume Institute di New York. Attraversò il Secolo Breve con impareggiabile eleganza e soprattutto con uno spirito critico che impresse una svolta decisiva alla professione. Amava il rosso, un colore del quale amava dire: “Il rosso è il grande chiarificatore: brillante, purificatore e rivelatore. Non potrei mai stancarmi del rosso. Sarebbe come stancarsi della persona che ami. Per tutta la vita ho inseguito il rosso perfetto.” Diana Vreeland morì a New York nel 1989, quando aveva ormai aveva 86 anni ed era riuscita nella sua missione: rendere il giornalismo di moda un’attività intelligente, profetica e rivoluzionaria.

Foto tratta dal sito web slate.com

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