Blu egizio: chimica di laboratorio nel 2500 a.C.

Si tende a pensare che la chimica sia una conquista relativamente recente del genere umano. La capacità di conoscere la materia nelle sue strutture più minute ci appare come necessitante di laboratori e tecnologie impossibili nei tempi antichi.

Certamente per la maggior parte di ciò che oggi sono in grado di fare i chimici – per non parlare degli scienziati in generale – le conoscenze e gli strumenti di secoli o millenni fa non sono sufficienti, ma il caso del blu egizio è un’interessante eccezione, testimonianza di procedimenti “di laboratorio” tanto antichi quanto raffinati e complessi. Il blu egizio, infatti, non è – come quello oltremare ricavato dal lapislazzuli – un pigmento minerale, e nemmeno viene offerto spontaneamente dalla terra in una qualche forma vegetale: è un pigmento di sintesi, vale a dire artificiale, non esistente in natura.

I primi oggetti a noi noti colorati con il prodotto chimico a noi noto come blu egizio o come fritta egizia risalgono al 2500 a.C.

Per realizzarlo occorreva miscelare una parte di ossido di calcio, una di ossido di rame e quattro parti di quarzo e cuocere in una fornace a temperatura elevata, tra gli 800 e i 900 °C, che deve essere mantenuta con precisione, cosa che ancora oggi risulta difficile e che questi chimici egizi riuscivano a fare.

Il risultato di questa complessa operazione è una pepita blu opaco che veniva poi macinata e ridotta a polvere. Dall’antichità egizia fino alla fine dell’età imperiale romana questo era il blu utilizzato dagli artisti; dimenticato dal Medioevo fu ripreso, stando ai recenti studi in occasione del cinquecentenario dalla sua morte, da Raffaello Sanzio, che ha fatto rivivere questo sopito pigmento antico nell’azzurro della sua Galatea.

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