Bianco di piombo: come avvelenare un pittore

Per secoli gli artisti sono stati visti, dalle società nelle quali operavano, come artigiani, abili fautori di oggetti d’arte, quali che fossero, e nulla più. È soltanto a partire, più o meno, dal Quattrocento, che il ruolo dell’artista comincia ad imporsi ad un livello via via più intellettuale: si comincia ad apprezzarne l’estro creativo e la capacità inventiva; gli artisti stessi iniziano a discutere delle loro attività in termini sempre meno concreti, librandosi verso le alte quote del pensiero filosofico.

Il culmine di questa lenta emancipazione della figura dell’artista è ben familiare nella diffusissima idea dell’artista come genio, un’idea ottocentesca, romantica, sicuramente affascinante ma, possiamo dire oggi, ingenua, inverosimile e limitata; eppure, nonostante la sua estrema parzialità, l’idea dell’alto ingegno e nobile animo dell’artista continua a piacere a molta della narrazione artistica contemporanea che infatti prosegue con la romanticizzazione, più o meno lecita, dei grandi nomi dell’arte, del presente come del passato.

Eppure per secoli i mestieri dell’arte e coloro che li praticavano sono stati reputati non degni di particolare stima o valore sociale. Uno dei motivi di questo stigma è facilmente intuibile se si pensa a quali fossero, nell’antichità e nel medioevo, ma anche per tutta l’età moderna, le tecniche dell’arte e, soprattutto, le materie prime che poi, lavorate con perizia dalle sapienti mani di pittori, scultori, orafi, miniatori e via dicendo, diventavano le raffinate espressioni della cultura visiva del tempo e, soltanto a quel punto, meritevoli dell’attenzione da parte delle classi sociali più alte.

La realizzazione di questi prodotti, invece, era tutt’altro che nobile: per scolpire una statua in marmo, per esempio, si doveva (e deve) fare una estrema fatica muscolare, ci si deve riempire di polvere e si deve sudare, tutte condizioni che venivano associate a quelle – analoghe dal punto di vista della fatica – dei lavori pesanti, e non certo a quelle contemplative che caratterizzavano invece le attività più nobili; per dipingere un quadro, invece, si dovevano maneggiare i pigmenti, che oltre a macchiare e odorare in modo decisamente poco piacevole, richiedevano una fabbricazione faticosa e, specie in alcuni casi, non esattamente adatta a stomaci deboli o a nasi troppo arricciati.

Uno dei pigmenti più emblematici sotto questo punto di vista era la biacca, un carbonato basico di piombo (che i romani utilizzavano anche come fondotinta) che veniva prodotto facendo reagire aceto e lamine di piombo in una buca piena di letame (sì): il risultato era la polvere bianca che finiva sulla tavola o sulla tela. Inoltre le proprietà della biacca – che era coprente, si stendeva facilmente e asciugava in tempi brevi – ne fecero la base ideale con la quale preparare il dipinto, nella realizzazione del quale il bianco pigmento avrebbe avuto ancora un ruolo importante, ad esempio nella definizione delle fondamentali lumeggiature.

Al lettore più attento sarà già venuta in mente una certa condizione clinica che contiene nel nome stesso l’ingrediente principale della ricetta della biacca: l’avvelenamento da piombo. Infatti, come se la macchinosità e peculiarità del processo non fosse sufficientemente infelice, i poveri pittori sperimentavano anche, data l’estrema familiarità con questo metallo altamente tossico, una serie di effetti collaterali che potevano comprendere coliche, paralisi, tosse, ipertensione e disturbi alla vista.

Della tossicità del piombo, infatti, ci si sarebbe resi conto soltanto nell’Ottocento (secolo che riserverà molte altre rivelazioni di questo tipo) e a quel punto al bianco di piombo, inalato e maneggiato per millenni dagli ignari pittori, si preferì sostituire gli innocui bianchi di zinco e titanio.

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