10 febbraio

10 febbraio, Giorno del Ricordo, istituito con legge nazionale, L. 92/2004, che al primo articolo recita: La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale e che attiene una tragedia, quella dell’esodo e della pulizia etnica operata sugli italiani di Istria e Dalmazia.

Ogni anno in questa data si riaprono vecchie ferite mai rimarginate. Il dolore, il lutto, il rimpianto di chi ha subìto il duplice torto di aver pagato per tutti l’esito catastrofico di una guerra persa e la caduta di un regime totalitario, nonché il rifiuto dalla Patria che li ha disconosciuti e, ancora oggi, ne fa oggetto di polemica e accusa.

Le immagini dei profughi siriani, delle stragi nel Mediterraneo, dei lager dei CPSA fanno orrore e suscitano in tutte noi sdegno e umana, empatica, solidarietà. Ebbene per gli esuli ciò non è stato.

La tragedia si è consumata all’oscuro. Non c’era internet e non c’erano i telefonini, ma c’era la neve; c’era il gelo; c’erano le voragini carsiche che divoravano innocenti a guerra terminata; c’erano gli aguzzini ad infliggere una pulizia etnica a guerra finita; nel 1943/44, dopo l’armistizio, ci furono 54 bombardamenti che rasero al suolo Zara e decimarono la popolazione, ma, si sa, la Storia è scritta dai vincitori e dei vinti è soffocata la voce.

Certo fu un errore di tempo e di comunicazione: avrebbero dovuto attendere la cronaca di guerra in diretta, il web, invece, in quelle giornate, nel sommario processo di rimozione della memoria, quei morti sono scomparsi, infoibati nella ragione di Stato, nella politica delle alleanze agli albori della guerra fredda.

Ed ora il Quartiere detto Giuliano Dalmata, riconosciuto adesso Museo a cielo aperto dalla città di Roma, costituito in origine dalle baracche inutilizzate dagli operai addetti alla costruzione del quartiere E42, resta testimone di quella comunità, laboriosa e silente, di cui non resta traccia. Hanno vissuto e sono morti nel silenzio dell’oblio. Nel ricordo di quella Patria perduta che mai più si troverà. Perché non esiste più. Rasa al suolo, espropriata, cancellata.

La differenza tra un emigrante e l’esule istriano o dalmata è che, prima o poi, se l’emigrante torna a casa, qualcosa dei suoi ricordi è sopravvissuto. In Istria e Dalmazia no. Distrutti anche monumenti, scritte, lapidi dai cimiteri, a cancellare l’italianità sopravvissuta. La differenza tra un profugo ed un esule è che il primo fugge dagli orrori delle guerre, il secondo è stato espropriato delle proprie Terre, estirpato dalle proprie radici, non ha titolo a rimanere. Di esistere.

Nello sfollamento, non hanno avuto la possibilità di portare via neppure un ricordo, una fotografia: una vita compressa nelle misure massime concesse nel bagaglio a mano. E il magazzino 18 a Trieste lo attesta.

E qui non si vuole ricordare, in nome della necessaria pacificazione sociale del dopoguerra, i treni dell’infamia, l’accoglienza ostile, la disumanità verso bimbi ed anziani o il confino in centri profughi allestiti in caserme dismesse, con vetri rotti e pareti fatte di coperte stese con un filo, alla ricerca di una vana intimità familiare, dove il cibo era una sbobba che persino i cani rifiutavano e dove chi non era morto infoibato, sotto i bombardamenti o con una pietra al collo alle scogliere, qui moriva di stenti. No, di questo, chi vuole può documentarsi. Basterebbe ricordare di ricordare.

I testimoni di quella tragedia oramai sono morti o molto anziani, adesso ci sono gli esuli di seconda generazione e, a breve, ci saranno i nipoti: esuli di terza generazione. Molti celano sotto l’indifferenza il dolore, vogliono dimenticare, rimuovere il lutto in una omologazione di massa, usano i toponimi stranieri, slavizzati. Ma i tratti, i pensieri, la cultura rivelerà sempre quelle origini del confine nordorientale, lo spirito mitteleuropeo assimilato da generazioni.

Perché nella terra rossa d’Istria o sulle coste dalmate, anche le pietre parlano italiano…

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