Lezioni di educazione sessuale in Pakistan

Z“Il corpo è mio e lo tutelo io”. Questa frase non proviene dalla bocca di una femminista occidentale, bensì da una bambina di 10 anni del villaggio Johi, al centro del Pakistan. Detto ciò, tutto assume un valore, come dire, rivoluzionario. Uzna Panhwar, questo il suo nome, è una delle 700 ragazze che ha iniziato a seguire i corsi di educazione sessuale della Village Shadabad organisation, una Ong locale molto liberal, di stanza nella grande provincia sudorientale del Sindh, attiva in otto scuole. Cosa sono le mestruazioni? Cos’è un rapporto sessuale? Quando dobbiamo essere consapevoli che stiamo subendo una molestia sessuale? Queste sono solo alcune delle questioni affrontate durante i corsi, finanziati dalla multinazionale australiana Bhp Billiton, che nel Paese gestisce un impianto di gas. Quando sono arrivate, le giovani non sapevano neanche cosa fosse un ciclo mestruale. “Arrossivano a parlarne, pensavano di essere malate perché spesso i genitori non avevano detto loro niente sul sesso”, spiegano le insegnanti, tutte ovviamente donne. I genitori delle bambine, per ora, non hanno mostrato opposizione. Diversa la posizione del ministro locale dell’Istruzione Nisar Ahmed Khuhro, rimasto scioccato alla notizia delle lezioni a Johi. Mirza Kashif Ali, presidente della All Pakistan School Federation (152mila istituti) ritiene inoltre che l’esperimento educativo sia contro la religione: “Perché dovrebbero insegnare qualcosa che non devono fare?”. Più progressista la reazione di But Tahir Ashrafi, rappresentante degli ulema moderati, che ha detto: “Se le insegnanti sono donne e le lezioni sono confinate alla teoria, le ragazze possono ricevere queste informazioni», purché ciò rimanga nei limiti della legge islamica. Nel Paese asiatico, per il 97% musulmano, le ragazze e le bambine occupano una posizione particolarmente vulnerabile, che si spiega alla luce del fatto che siamo davanti ad una società molto conservatrice, in cui persiste la visione gerarchica dei ruoli. La percentuale delle donne che lavorano in Pakistan è tra le più basse al mondo, inoltre di quel 75% percento di persone che vive sotto la soglia della povertà, la maggior parte sono donne. Il problema crescerà sempre di più perché si stima  che nel 2015 le donne saranno circa 50 milioni e nel 2020 quasi 55 milioni. La vita di queste ultime è tutt’altro che facile e anche le usanze non remano certamente in favore dell’emancipazione femminile. In Pakistan le donne possono essere date in sposa per risolvere delle dispute dovute ad un omicidio, oppure esiste il matrimonio di scambio, in base al quale la figlia è data in sposa ad un uomo più grande in cambio di una giovane donna per il padre. Spesso la donna è considerata una proprietà e l’uso dell’acido contro di esse ne è una prova, senza contare le violenze domestiche, quelle sessuali e i rapimenti. La giornalista e scrittrice pakistana Fatima Bhutto, nipote di Benazir Bhutto, 11° primo ministro del Pakistan poi assassinata nel 2007, delle donne pakistane ha detto: “Dipende da dove sei, e purtroppo, dipende anche da chi sei. Ma quel che è universale, è che le donne in Pakistan non hanno tutela davanti alla legge. Ci sono molte normative barbare ancora in vigore che approvano e condonano la violenza contro di loro (…). È la soppressione delle loro voci, un abuso mostruoso perpetrato nei confronti di un essere umano. Quella di non poter essere in disaccordo, di non poter farsi sentire contro la maggioranza, o contro il potere, è una forma di oppressione che si manifesta non solo in Pakistan, ma in tutto il mondo. L’impossibilità di avere un ruolo in campo sociale, economico o politico che sia, è un genere di violenza verso la donna che oggi riscontriamo praticamente ovunque». Ma allo stesso tempo ha affermato: “Non ho mai incontrato una donna debole né in Pakistan né in altri paesi dell’Asia. Si tratta di uno stereotipo, confezionato dai mezzi di informazione occidentali. Queste donne sono autentiche combattenti. Per sopravvivere in paesi martoriati dalle guerre, devi essere per forza tale. E le donne stanno sul campo anche loro, ma con un profondo senso di radicamento, di solidarietà e di non violenza”. A fronte di questa situazione, l’esperimento della Village Shadabad Organization rappresenta comunque un passo avanti, soprattutto se consideriamo il fatto che le lezioni di educazione sessuale non sono garantite nemmeno all’interno di tutte le scuole italiane.

Silvia Di Pasquale

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