La Moda e la Storia. Cosa resta e cosa cambia nel nostro guardaroba?

abito a portafoglio diane von furstenbergMentre leggo un articolo scritto dalla stilista Diane von Fürstenberg apparso il mese scorso su The New York Times e incentrato sull’evoluzione della moda mi domando cosa resti nell’immaginario collettivo delle tendenze che inesorabili si avvicendano. La moda – si sa – è un fenomeno ciclico. Per molti aspetti assomiglia infatti all’economia, dove contrazione/espansione/crisi/innovazione si susseguono quasi che il sistema, per sopravvivere, abbia bisogno di tanto in tanto di provvedere alla propria morte. Nella moda, che risente dei cambiamenti circostanti e che a sua volta ha il potere di influenzare il mondo, ci sono cose che nascono e muoiono (le cosiddette mode, effimere per definizione) e altre invece che restano, destinate a durare a lungo. L’articolo della von Fürstenberg, geniale creatrice nel 1974 dell’abito a portafoglio (in foto), interpreta con entusiasmo i cambiamenti tecnologici ed informatici che consentiranno a ciascuno di creare a casa propria, con l’ausilio di una stampante a colori 3D, i propri vestiti. Ciascuno diventerà lo stilista di se stesso. Ciascuno potrà vivere, nella celebre profezia di Andy Warhol richiamato non a caso nell’articolo, i propri 15 minuti di celebrità. Con l’arte intenta a inseguire la serialità tipica della produzione di massa, di cui le immagini della Coca Cola, delle zuppe Campell, delle facce di Jackie Kennedy o di Mao tutte firmate dal vate Warhol, la permanenza sarà sostituita dalla fuggevolezza, l’eterno dall’effimero. Le mode soppianteranno la moda. Per fortuna non è andata proprio così. Anzi la cultura pop degli anni ’80, in parte figlia dei cambiamenti nel costume del decennio precedente, è diventata essa stessa un classico. Sulle passerelle delle fashion week di Milano, Parigi, Londra e New York, gli stilisti, anche quelli più giovani e anticonformisti, richiamano in continuazione il passato. Anche nel fashion system vale dunque la legge di Albert Einstein seconda la quale “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Perché il passato viene riletto e interprato alla luce delle esigenze del presente. Non c’è solo il cambiamento tecnologico ad influenzare il guardaroba. La globalizzazione dell’economia, l’emergere di nuove potenze economiche (Brasile, India, Cina, Turchia, Russia), il declino dei vecchi imperi (America, Europa) hanno fatto sì che gli stilisti guardino ad una clientela molto più variegata ed eterogenea rispetto al passato. La necessità di vendere gli abiti che si realizzano impone una ridefinizione di ciò che consideriamo alla moda. Nel turbinio del cambiamento, reso ancora più evidente dalla crisi economica e sociale, ci sono tuttavia alcuni punti fermi. L’abitino nero creato da Givenchy e indossato da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1962), il già citato abito a portafoglio di Diane von Fürstenberg (1974), la baguette di Fendi (1994) sono solo alcuni esempi dei cosiddetti classici dell’abbigliamento e dell’accessorio. Non c’è rivista di moda al mondo che non li indichi come dei must have, vale a dire presenze imprescindibili nel guardaroba, indipendentemente dalle mode del momento. La stessa von Fürstenberg, felice di vedere nelle strade giovani donne indossare la sua creazione più celebre, si compiace e riflette sul fatto che un capo d’abbigliamento pratico ed elegante, che può essere indossato a qualsiasi ora del giorno e in qualsivoglia circostanza, abbinabile facilmente ad accessori che ne possono modificare il concept, non tramonta mai. È, per così dire, quello che resta poiché ha intercettato cambiamenti profondi nel costume, mentre tutto il resto – stampe floreali, colori fluo e colori pantone, templi greci e divinità maia – è destinato a passare.                                          

Pasquale Musella

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