La notizia sta facendo il giro del web. Dai grandi giornali come Huffington Post fino alla stampa di moda la notizia che da ieri campeggia sulle homepage delle edizioni online è che la catena di abbigliamento Primark sta per arrivare anche in Italia. Succederà – secondo i ben informati – sul finire del 2015. Le città prescelte per penetrare il mercato italiano sono Roma, Milano e Venezia. I negozi Primark sono considerati il tempio della moda low cost. Per poche sterline offrono infatti linee di pronto moda per tutti: donna, uomo, bambino, beachwear, home, accessory. La nota catena inglese si è avvalsa negli ultimi anni di testimonial eccellenti prima fra tutti la cantante australiana Kylie Minogue. Il successo è dimostrato dal fatto che ogni anno dall’Italia partono per Londra persone – soprattutto donne – con valigie mezze vuote per fare incetta di gonne, magliette, borse, camicie che spesso non costano più di 10-15 sterline. Un po’ come succedeva in passato con gli altri giganti del pronto moda, da Zara a H&M fino a Berska e Pull&Bear, che poi hanno conquistato il nostro mercato e le nostre strade con megastore affollati e sempre più imponenti. Nulla di nuovo sotto il sole verrebbe da dire anche perche Primark segue fedelmente le logiche di produzione e vendita dei suoi concorrenti: collezioni lampo con un tempo di permanenza basso, riproduzione di modelli e fantasie del pret-a-porter, materiali talvolta scadenti, prezzi contenuti per via del ricorso alla manodopera a basso costo. E su quest’ultimo punto si è già scatenata la polemica di quanti sottolineano come abiti e accessori low cost abbiano in realtà costi sociali e ambientali altissimi per via del produzione delocalizzata in paesi poverissimi come il Bangladesh, l’Indonesia, il Vietnam e la Cambogia. Sotto accusa c’è in particolare il ricorso alla manodopera minorile che, pur essendo smentita e condannata da tutti, rappresenta di fatto una realtà in paesi dove le tutele sindacali non esistono. E al pari delle altre multinazionali anche Primark si è “rifatta la verginità”, con una parte del sito ufficiale dedicata all’etica aziendale. In buona sostanza, finanziando progetti di cooperazione e sviluppo nei paesi dove produce sta cercando di ripulire il brand con un’assunzione pubblica di corporate social responsability. I progetti principali riguardano proprio programmi educativi rivolti a quei minori che invece di passare ore a lavorare in fabbrica dovrebbero – come sancito dalle Carte dei diritti universalmente riconosciute – stare tra i banchi di scuola, godere dell’affetto della famiglia, giocare. L’auspicio è che Primark e simili si impegnino davvero dove i Governi falliscono e cioè nel rifiutarsi categoricamente di sfruttare il lavoro ed in particolare quello dei minori, perché altrimenti i programmi di solidarietà si ridurranno a pura ipocrisia. In ogni caso i prodotti targati Primark hanno un certo appeal per chi li compra e li indossa. Colori vivaci, un massiccio ricorso alla stampa su tessuto pop, floreale, ecc., tagli sobri rendono questi capi adatti ai ritmi della vita quotidiana.
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di
Redazione
3 Settembre 2014