Costruire la sicurezza a partire dalle insicurezze

1“What I be” è un progetto fotografico che nasce e trova la sua ragione d’essere nelle dinamiche della società odierna. Si tratta di un esperimento sociale basato essenzialmente su valori quali l’onestà, la responsabilizzazione, l’acquisizione di certezze e sicurezze. Elementi che, al giorno d’oggi, in una società che detta dogmi, che ci dice come apparire ed agire, determinando inclusioni ed esclusioni forzate, non sono poi così tanto scontati. Nel momento in cui, infatti, noi cittadini moderni ci allontaniamo da queste imposizioni comportamentali, veniamo spesso posti sotto giudizio, ridicolizzati, marchiati a fuoco come eretici dei tempi moderni.Prima di innamorarsi della fotografia e dedicarvisi completamente, Steve Rosenfield lavorava come amministratore di rete in un’azienda di computer a Boston. Lo Steve del 2002 era un uomo presuntuoso, materialista ed egocentrico, fermamente convinto che il successo nella vita equivalesse ad accumulare denaro su denaro. Lo Steve di allora non mostrava mai a nessuno i suoi sentimenti e le sue insicurezze, avendo paura di quello che gli altri avrebbero potuto pensare di lui. Per un lungo periodo Steve non si è dunque mai aperto né ha fatto in modo che gli altri lo facessero con lui, mostrandosi appunto come una persona brusca e glaciale. Col passare del tempo, tuttavia, ha iniziato a percepire una profonda infelicità relazionata a questo suo modo di essere, o meglio, questo suo modo di censurare la propria natura istintiva, finendo per capire che la felicità sarebbe giunta quando lui avrebbe iniziato a mostrarsi onesto ed aperto con gli altri e con se stesso. Questa necessità di maggiore ricchezza interiore lo ha portato a viaggiare per il mondo e incontrare nuova gente, dando vita a rapporti concreti, in virtù di una nuova consapevolezza: tutti gli uomini, in quanto tali, fronteggiano lotte, si abbattono in preda alle loro debolezze ed insicurezze. Ma tutto questo li accomuna, li unisce in un solido legame, li rende solidali, mettendoli allo stesso livello nel progredire dell’esistenza.Nel 2006 Steve ha acquistato la sua prima macchina fotografica che è stata una sorta di strumento  grazie al quale la realtà si è palesata ai suoi occhi in tutti i suoi segreti e sfumature. Ha iniziato con le foto dei concerti ma poi il vedere il mondo attraverso un obiettivo è divenuto qualcosa di importante, un’esigenza vitale. Era quindi necessario mettersi al servizio di qualcosa di particolarmente profondo, utile ed universale; qualcosa relazionato al motore del mutamento della sua vita, che potesse permettere anche ad altri di aprire gli occhi. Qualcosa di speciale che arrivasse dritto all’anima della gente.Per molto tempo Steve ha meditato sul dare alla luce un progetto che parlasse delle insicurezze delle persone e che fosse motivante al fine del superamento di esse. Una sera, nel 2010, questo progetto finalmente ha  avuto una forma concreta. È stato mentre Steve spiegava l’idea ad un’amica che ha deciso di fare una prova, scrivendo sulla mano della ragazza una sua insicurezza, in questo caso “thunder thights” (“cosce grasse”). Steve ha fotografato la scritta con l’aggiunta della frase “I am not my body image”, e da  qui è nato tutto.Il titolo di questo progetto, emblematico, deriva da una canzone omonima di Michael Franti che invita ad essere ciò che si è e a dare il meglio di sé: Steve ama profondamente questa canzone, il cui messaggio essenziale ben si sposa con quello del progetto, il cui scopo è quello di aiutare ognuno ad accettare le proprie diversità con apertura mentale e di cuore, dando la forza a chi sente di soffrire per qualcosa vista come una debolezza: ansia, panico, relazioni, sessualità, timidezza.Dal 2010 ad oggi Steve ha già fotografato centinaia di persone coraggiose: studenti, personaggi famosi, tutti accomunati dalla volontà di gridare al mondo le loro insicurezze trasformandole in punti di forza, mostrando un lato di loro stessi che nessuno aveva mai visto prima.Steve le scrive visibili sui loro petti, sulle loro braccia e sulle loro teste e le fotografa, aggiungendo: “I am not my”. Ogni fotografia di questo progetto invita lo spettatore a porsi nei panni delle persone ritratte, chiedendogli implicitamente di sentire cosa quelle stesse provano. Qualcosa di mai sentito prima, qualcosa forse troppo spesso negato. Ognuno di noi, guardando queste foto, possiamo vedere le nostre stesse paure impresse a caratteri cubitali senza vergogna, acquisendo coraggio e consapevolezza.

 Michela Graziosi

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