Alcides Ghiggia L’uomo del Maracanazo

«Tre uomini hanno potuto zittire il Maracanà con un gesto: il Papa, Frank Sinatra ed io», parola di Alcides Ghiggia, uruguaiano di Montevideo classe ’26, l’uomo del Maracanazo, colui che fece piangere con un gol un’intera nazione (il Brasile), cambiando probabilmente la storia del gioco. Se n’è andato giovedì scorso, il 16 luglio, 65 anni esatti dopo quella mitologica partita, che si disputò quello stesso giorno del 1950.Da tempo, ormai, viveva quasi dimenticato alla periferia della capitale uruguaiana, costretto a vendere i propri ricordi e a farsi intervistare a pagamento, per tirare avanti ma anche per rafforzare il mito. Un triste finale di una vita leggendaria, un destino comune a molti grandi campioni. Ogni tanto riascoltava la radiocronaca di quella partita, che non fu un match di calcio ma un vero e proprio dramma, consumatosi davanti agli occhi di 199 mila spettatori; fu un lutto gravissimo nella storia del Brasile, non solo quella calcistica: ci furono suicidi e scene d’isteria di massa. Il portiere della Selecao, Barbosa, affrontò un vero e proprio ergastolo morale e in seguito comprò i pali della porta in cui aveva subito i due gol dall’Uruguay per farne legna da ardere. Lo stesso Ghiggia, anni dopo la partita, in un aeroporto brasiliano si sentì accusare da un poliziotto di aver ucciso suo padre, che ebbe un infarto 10 minuti dopo il suo gol. Insomma, si tratta di una delle pagine più incredibili della storia del calcio e dello sport in genere e Ghiggia ne fu il protagonista con l’assist per il gol di Schiaffino e la rete da lui stesso segnata. Per ironia del destino, è morto proprio il giorno di quella terribile finale, era il più vecchio campione del mondo ancora in vita, dopo la morte di Juvenal, il calciatore brasiliano che, proprio nell’azione del suo gol, cercò invano di rincorrerlo nella sua progressione. Viveva a Las Piedras con la sua terza moglie e dopo il ritiro aveva fatto mille lavori, dall’addetto alla sicurezza in un casinò all’istruttore di scuola guida, scampando anche a un incidente, che gli costò 37 giorni di coma. Si lamentava spesso che i giornalisti si ricordassero di lui solo il 16 luglio e fu costretto a vendere anche il suo premio Golden Foot per 29 mila dollari, con i quali comprò un terreno per sua moglie. Iniziò la sua carriera da professionista nel Penarol, nonostante la proposta allettante del Nacional, la squadra più titolata d’Uruguay, perché la madre gli disse: «Se vai da quelli lì, non metti più piede in questa casa»! Giocò solo 12 partite in nazionale, segnando 4 gol, uno per ogni partita di quel meraviglioso mondiale (record uguagliato da Jairzinho a Messico ‘70). Quello in finale fu un diagonale che passò sotto l’addome del portiere e lo rese per sempre immortale. Fu picchiato per quella rete e tornò a casa in stampelle ma poi, nel 2009, gli fu dedicata una stella nella Walk of Fame del Maracanà. Giocò anche in Italia, nella Roma e nel Milan e nella squadra della capitale militò per 8 stagioni, giocando con la foto di mamma Gregoria nei calzettoni e chiamando suo figlio Arcadio, come Venturi, capitano dei giallorossi. Vinse la Coppa delle Fiere con la Roma, unico sigillo europeo della squadra, e amò le donne e la Dolce Vita, fu anche amico di Gassman e della Lollobrigida. Tornò poi in patria, dove giocò col Danubio fino a 42 anni. Ha sentito un dolore alla schiena e poi ha smesso di parlare, così ha riferito il figlio Arcadio. Naturalmente, stavano discutendo di calcio.

Patrizio Pitzalisghiggia

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